Pubblicato il 26/04/2013 08:26:34
Prefazione di Davide Rondoni
Ci sono momenti di perfetta visione in questo libro di Angela Caccia. Come nel testo dedicato alla morte di una figura cara, alla quale si rivolge dicendo “tu l’avrai varcata con pudore / a mani alzate / nel buio ignoto // un soffio improvviso di limoni / quel fiotto di luce / la tua vittoria”. Oppure nel principiare di un testo dove quasi martellante si fa il verso: “Spiga senza grano / alle tue notti / mancò sempre una stella // e camminammo tutti nel / lato in ombra della strada”.
O ancora dove in una poesia d’amore paragona sé stessa alla rondine che vola bassa sul mare. Sono i momenti che prediligo, che spero aumentino in futuro, veri sigilli della forza poetica di Angela, liberi da alcune intenzioni che altrove curvano il dettato a una più consueta dizione. Ma tale curvatura appare – come i momenti di visione – essa stessa una necessità inevitabile. Dovrà imparare a sostenere la visione, questa poetessa di forte tempra. A fidarsene.
Già ne conosce il lampo e la lentissima costruzione, ammirando con discrezione e pazienza la scena del mondo con la domanda di senso aperta nel cuore. Sono testi che nascono in una donna che pensa e ripensa a sé stessa – e in primis dunque – ai legami importanti che la abitano. Il padre, il figlio, l’amato. E la poesia viene chiamata qui, quasi convocata a forza, per poter essere luogo e voce di tale pensare e ripensare, quasi altro discorso “che costa sangue” ma che unico può testimoniare il tessuto (il “fodero”) di una vita. Non a caso in tale ripensare, Angela Caccia si appoggia non solo a grandi letture letterarie, come nel caso di due nomi che compaiono quasi a dare l’arco intero di un Novecento di cui sono in un certo senso gli opposti (Celan e Borges) ma, anche e soprattutto, alla grande narrazione della fede, che troviamo liberamente attraversata e rivisitata nelle sue figure fondamentali.
La necessità di pensare e ripensare ha nei testi di Angela Caccia una compagna fondamentale – oltre alla pagina vista come specchio. Si tratta della natura, che troviamo in molti versi presente nei suoi elementi fondamentali, mai ridata con rilievo pittorico o descrittivo: il mare, il cielo, gli alberi, e soprattutto l’alba.
È una poetessa dell’alba, del momento appunto dove il pensare e il ripensare non ha il tono e le tinte dei bilanci o delle sistemazioni. Piuttosto un sorprendersi ancora non “compiuta”, nascente ancora, come una possibilità. Ci sono – e il lettore le nota facilmente – evidenze biografiche, racconti di sentimenti intimi, momenti di delusioni e di smarrimenti. Ma in ogni caso vince una sorta di pudore, o meglio una propensione a “generalizzare” le cose, a renderle universali. Il tono stesso della voce, a volte sapienziale, quasi in cerca di versi o di quelle minime sentenze che fermino il pensare e ripensare, invita il lettore a fare i conti con un discorso che vuole essere esemplare, nel senso di una uscita dalla biografia spicciola, individuale. Anche per questo, i momenti in cui i testi si dedicano a vicende o figure che hanno rilievo collettivo, non sono di stile sostanzialmente diverso da quelli in cui la poetessa entra nel perimetro più segreto dei suoi affetti. Vi è una parità che dipende dal fatto che storia universale, collettiva e personale sono per una coscienza vasta e inquieta come quella di Angela Caccia, un’unica storia, non separabile nei suoi elementi e nei suoi movimenti primari.
Il suo autoritratto, per così dire, avviene di fronte e dentro al mondo, non in una separatezza, o in un tranquillo luogo chiamato dai più – errando –letteratura.
Lei sa anche per esperienza di impegno personale che la poesia non è un bene privato. E di certo il mettere in comune la poesia non ha come scopo la fornitura di sogni o di tavor. La poesia non è un tranquillizzante. E dunque pensare e ripensare poeticamente significa accettare di abitare la fertile inquietudine.
Ne è segno il titolo stesso del libro – oscuro e inquieto – che sembra collegarsi all’ultimo duro e “feroce” testo del libro, non a caso indicato come Il paradosso. Come a ricordare che ogni pensare e ripensare giunge a toccare al suo vertice profondo una verità che non si presenta più come porta da aprire con il nostro fragoroso, pesante e vario mazzo di chiavi.
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