Antologia delle poesie del reading
Dialettando in poesia
Il 19 gennaio di ogni anno, a partire dal 2013 quando fu istituita, si celebra nel nostro paese con la promozione dell’Unione Nazionale Pro Loco d’Italia la “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, ciò anche in aderenza alle direttive Unesco per la salvaguardia dei patrimoni culturali e immateriali. In ogni regione così piazze, scuole, teatri si sono prestati anche quest’anno ad accogliere incontri, coralità, memorie, tra vocalità di consegna e di passaggio nella forza di una parola innalzata nelle sue più diverse espressioni. Proverbi, filastrocche, racconti, a imporsi dunque nella conferma di quanto già espresso dal presidente dell’UNPLI Antonino La Spina secondo cui “ogni singola espressione in dialetto è veicolo delle conoscenze e delle tradizioni dei nostri territori. Dialetti e lingue locali sono pertanto indispensabili alla trasmissione di tali patrimoni culturali fra le generazioni”. Ancora una volta però è stata la poesia a far da traino a una narrazione che ha posto il suo “accento sull’importanza delle lingue locali e dei dialetti e della sua multivarietà anche regionale, sul rischio di molte di andare a perdersi mancando i parlanti o iniziative a difesa e promozione di quei codici e patrimoni linguistici” come da impegno di uno dei tanti critici e autori che non da oggi vanno a spendersi, Lorenzo Spurio da Jesi, presidente della locale Associazione Euterpe (non nuova riguardante l’attenzione verso i dialetti delle Marche). Cadendo quest’anno il 19 durante la settimana si deve proprio ad Euterpe così l’evento del 23 presso il Palazzetto Baviera di Senigallia col patrocinio del Comune e della Provincia di Ancona e dedicato ad alcuni dialetti delle Marche, e non solo, su cui sono andati a spiccare l’ intervento del Professor Andrea Scaloni su “Il senigalliese tra i dialetti delle Marche Settentrionali” e lo spazio dato anche alla rievocazione di alcuni autori scomparsi (del Senigalliese Remo Girolimetti, del fabrianese Giuseppe Terenzi e della maestra e cantora della comunità di Scapezzano Rina Fratini, dell’anconitana Cesarina Castignani Piazza).Una lettura poetica di autori provenienti da quest’area ben definita della regione (in un paio di casi come accennato anche da fuori) ha poi cadenzato la giornata, tra la maggioranza di autori di Senigallia, e poi di Jesi, Ancona, Fano, Pesaro, Matelica, Chiaravalle, Marotta. Questo interessante volume che andiamo a presentare (a tiratura limitata e fuori commercio ad uso di istituzioni e biblioteche) raccoglie pertanto un’antologia dei testi presentati dando un’idea abbastanza esaustiva di un dire che per quanto riguarda tutte le Marche non può far venire in mente, a proposito di poesia dialettale, i nomi tra i più autorevoli anche a livello nazionale, quello del fanese Gabriele Ghiandoni, di Leonardo Mancino da Osimo e soprattutto dello straordinario, anconetano, Franco Scataglini, anche se nel suo caso forse dovremmo parlare di neo volgare. Il quadro che ne esce fuori è molto vivo (alcune figure molto attive nella promozione della poesia in dialetto e della poesia tout court tra Associazioni e Premi di poesia, blog e collettivi di scrittura) nel rapporto con la propria terra secondo un punto di riferimento in prevalenza ricercato tra memorie di un mondo contadino ancora nella sua capacità di interrogazione seppur nella tentazione della scomparsa ed un moderno come modello mancante in una realtà tra sorpassi di mondi e generazioni. Nel desiderio di fede, ed appello nel sacro, l’incontro allora (grazie anche a spicciolate d’amore e leggerezze quotidiane) è in un favoleggiare antico e ben riuscito in una realtà tra sorpassi di mondi e generazioni, nello smontaggio così tra ironia e ammonimento dell’essenzialità di un vivere che andandosi a perdere si evapora, ci evapora in un presente di consumo e coazioni. Il rischio però, ed è alto come spesso avviene se il verso non sa andare oltre il mero bozzetto di una nostalgia trincerata in se stessa, è di mancare a una ricreazione, a una terra piuttosto evocata in una inautenticità del tempo che smentendola la scarica entro un dire che a tratti a sé nulla aggiunge nel ricalco di viete modalità in lingua. Diversi nomi però vi sfuggono come dicevamo, il primo attenendoci all’alfabeto è quello di Ennio Donati da Matelica che si adopera nello studio della glottologia e della cultura contadina della Regione (è in uscita un Vocabolario del dialetto di Matelica) il cui “Lu teremotàtu” ha il merito partendo dalla piazza del paese colpito dal sisma di rimemorare nella concretezza dei fantasmi (degli avi intenti alla preghiera, del desco e del cibo di sempre) la forza e la presenza di una comunità ancora viva nell’identità data dal nome. Elisabetta Freddi poi a seguire da Senigallia, l’anconetana Marinella Giampieri ancora, docente specializzata in disabilità psicofisica e sensoriale e che in “Ancona mia (El Riò dej Archi)” – “Ancona mia (Il rione degli Archi)”- fedele a una poetica come elaborazione del vissuto ed espressione del senso di appartenenza ci offre uno spaccato di Ancona nel ricordo dell’unità della sua gente. Elvio Grilli che ha tradotto Pinocchio in fanese e di cui ricordiamo i bei versi in dialogo col nipote. Antonio Maddamma, da Senigallia anche lui, classe 1976, studioso di Storia e letteratura locale, qui spiccando in “Primavera” nella consapevolezza della maternità per lui di una stagione, “prima dulcezza,/prima puisia” nel dialogo in rimando a intrecciarsi poi col padre che non ha conosciuto in “Fior d’ l’oppi” (“Fior d’acero”). Da Marzocca di cui è memoria storica Mauro Mangialardi, dal bel testo sulla nebbia che nel suo apparire sembra una metafora della poesia stessa tra scheletri delle forme che accolgono e si rivelano e immersione in un mistero che non cessa di essere evocativo a “Il pianeta della fortuan “(Il pianeta della fortuna) nel ritratto a tratti surreale e insieme amaro alla Tonino Guerra, di tanta poesia della Romagna così vicina. Di Franco Patonico autore molto attivo (sua è la nota a inizio volume) avendo tra l’altro tradotto in senigalliese La via Crucis, La Divina Commedia, I Promessi Sposi, Pinocchio ricordiamo “Galantì e Favurì” nei nomi dei due buoi aggiogati a destra e a sinistra mentre tirano l’aratro il ricordo caro da ragazzino della fatica e del lavoro del contadino. Forza di braccia, e intelligenza che arrivava ai buoi nella servitù dell’obbedienza, il biroccio bello e colorato con cui poi si è sposato. Tempo quello di culle pronte già per chi sarebbe nato, “frutto/pronto per la raccolta” (“frutt’/pront’p’r l’arcolta”). E infine lo stesso Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore, saggista e studioso di letteratura spagnola, soprattutto di Lorca cui ha dedicato anche degli scritti su opere del poeta di Grenada nel dialetto di alcune parti del nostro paese che in “Quel lenzolo de polvere” anche a lui va a misurarsi col dramma del terremoto tra preghiera e invettiva in un tono amaramente espressionista dove le parole finiscono con l’accalcarsi come le macerie stesse che tentano di risollevare:”i tricicli come dentiere/gli infanti che varcano l’oltretomba/con le loro orme soffici, vaste/crepe facciali e mani zuppe di calcina” (“vecchi co’ trecicli come dentiere/ai munelli che oltrepassa la morte/lassanno, co morbide ‘mpronte,/crepe ‘n faccia e mà zuppe de calcina”). A chiudere il volume è la sezione “Ad memoriam” dedicata agli autori scomparsi come accennato. Su tutti personalmente andiamo a ricordare Rino Girolimetti (1924-2021, Senigallia) poeta e fotografo che in “La lengua madr” sembra lasciarci a mo di sunto, di testamento di tutto l’incontro, la ragione di un dialetto come lingua madre perché del tempo della età prima, della vita al suo inizio, quello della gente “ch’ parlava in dialett’ e pr’gava in latiŋ” (“che parlava in dialetto e pregava in latino”). Appresa fuori casa e in casa da gente povera analfabeta, che in classe era vietato parlare, in tutto il suo dire, in tutti i suoi detti. Tempo che se ha smesso di essere con tutti quelli con cui si è voluto bene, il dialetto ha la capacità nel suo farsi avvolgere dal silenzio, come di sera coi suoi mulinelli, di rapire e restituire a una gioia che ritorna. Per questo, “cultura nostra”, non deve morire.