Di Gian Piero Stefanoni
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Maria Pia Moschini
- 26/06/2013 00:03:00
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Il mare nella sua essenza primaria esporta una visione naturalistica positiva, una forza segreta di rigenerazione ma se accogliamo l’ipotesi del naufragio l’abisso si colora di tinte fosche, diviene una divinità che richiede vittime, sacrifici. Nell’opera di Gian Piero Stefanoni il mare è un medium, una realtà che divora l’uomo e i suoi sentimenti rilasciando solo un corpo inerte, senza vita. La veste poetica non addolcisce la solennità dei contenuti, anzi rende il contesto epico, i suoni infatti si sprigionano per la dilatazione sacrale dei versi che divengono historia, narrazione complessa e visionaria. Partendo da una notizia di cronaca Gian Piero Stefanoni riferisce il fatto con parole apparentemente fredde e distaccate , logore per l’uso costante e ripetitivo che la stampa è solita usare ma fra le righe si agita l’inquietudine della condivisione, il dolore represso e compresso legato all’impotenza, alla rassegnazione. Il ragazzo egiziano incarna tutte le morti, le sopraffazioni, le violenze subite dai migranti mentre con il termine generico di scafisti si definiscono uomini senza scrupoli che con i remi staccano dai bordi delle imbarcazioni, con una crudeltà impossibile da definire, le mani di coloro che nel viaggio avevano riposto speranze e germogli di futuro. Un ragazzo dell’apparente età di 16 anni…annegato a pochi chilometri dalla riva. Il mare ribolle, si gonfia, parla, invade la scena con la sua drammaticità cupa. La notte divora il dramma in un probabile silenzio in cui vita e morte tentano di ribellarsi a uno schema precostituito. La struttura dello scritto si presta a una lettura “liturgica”, a un ritmo denso di pause come se il pensiero rifiutasse la concitazione affannosa per lasciare spazio a ondate di ripensamento, a uno sconvolgimento interiore profondo e quasi allucinatorio. La nave madre che partorisce un figlio vivo destinato a rientrare nel regno delle ombre, un mare , liquido amniotico ricco di promesse che diviene spirale di fredda inesistenza, trovano nel lettore attento un riflesso di sé intensamente drammatico, un grido inespresso ma prolungato che avvolge tutto il creato. …Così per spegnimento avviene la resa…in tutti i versi di Stefanoni c’è un profonda implicazione filosofica, una ricerca semantica nitida che rende la parola scritta simile a un’incisione rupestre. E’ nel lapidario carattere che si cuce la rete del pescatore, ogni definizione un sobbalzo o forse solo termini gridati in una lettura declamatoria che fermi il tempo come un esorcismo. Un nuovo inizio, i nostri cuori vogliono un nuovo inizio…ma perché nuovo? Ogni inizio lo è, ma quante volte siamo stati traditi dagli inizi? L’incipit promette sempre, ma è nell’excipit che l’uomo ritrova se stesso. Così con quest’opera bellissima di Stefanoni possiamo trovare nuova linfa per accedere al dopo, la poesia, quella vera, è anche ispirazione, meglio aspirazione a un domani migliore. Tutto può nascere così, semplicemente, ascoltando la parte migliore di sé e i poeti che spesso divengono profeti di un domani reale, tangibile, come nel caso di Stefanoni in cui le parole assumono la veste di guida spirituale , di indicazioni di percorso illuminate dal raggio della speranza.
Lucio Zinna
- 26/05/2013 08:15:00
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Una composizione davvero rilevante. Il poemetto (direi una pièce sinfonica) procede in duplice atteggiamento dialogico. Da un lato, con le forze misteriose che condizionano l’esistenza di ognuno, compresi – qui in primo luogo – il destino (che può essere perfino “assecondato”) e la fatalità («Eppure - accade – il vero male / la vera morte, è nella fatalità del male / nella fatalità della morte»). Dall’altro lato, con poeti (Dante, Eliot, Ungaretti, Shabbi, Turoldo, Maggiani e in prolepsis Rilke e Bolamba) chiamati nella rievocazione della tragica vicenda cui il testo si ispira. Affinché dalla poesia nasca poesia, come il frutto contiene il seme per nuovi frutti. La morte per acqua del giovane migrante egiziano, abbandonato dagli scafisti nel mare siciliano, a pochi metri dalla riva, si fa emblematica, appunto, della menzionata fatalità. Un poemetto a ritmo serrato, dispiegantesi con umanissima com/partecizione emotiva in versi agili e incisivi, calibrati – come nello stile di Stefanoni –, attuando nel contempo quella presa-di-distanza di cui la poesia necessita per non lasciarsi sopraffare e vanificare dalla piena dei sentimenti. E porebbe leggersi anche il sotterraneo obiettivo di affidare alla poesia stessa come una sorta di funzione liberatoria. Come se essa potesse mutarsi nella postuma mano che nessuno tese al naufrago adolescente, vanamente proteso verso un mondo da lui ritenuto, forse improbabilmente, migliore. Complimenti vivissimi Lucio Zinna
Daniele Incami
- 30/04/2013 23:24:00
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Una poetica commovente
Antonino Pantalone
- 16/04/2013 18:15:00
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Complimenti ad un grande poeta contemporaneo
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