Gli diedi ancora un cazzotto.
Non perché fosse fuori controllo.
Solo per l’abietta menzogna che mi aveva appena raccontato.
Quindi, mentre miei occhi guardavano nel vuoto
oltre la forma immobile di Chuck Whitney sul tappeto,
qualcosa, un pacato senso della ragione forse,
gridò dentro di me che era tutto vero.
Tutto era esattamente come Ashton lo aveva rappresentato.
Io, tutto quello che mi riguardava,
ogni respiro d’aria,
ogni molecola nel mio universo:
nient’altro che realtà fittizia.
Un ambiente simulato disegnato
in un qualche mondo più vasto
dove esistere era un fatto assoluto.
Quell’idea orribile mi scosse in profondità, minando la mia ragione dalle fondamenta.
Ogni persona e oggetto,
le mura attorno a me,
il pavimento sotto ai miei piedi,
ogni stella fino al più remoto angolo di infinito:
nient’altro che ingegnose costruzioni.
Un ambiente analogo.
Una creazione simulatronica.
Un mondo di intangibile illusione.
Un’interazione bilanciata di cariche elettroniche
che percorrevano nastri e cilindri,
saltando da catodi ad anodi,
raccogliendo stimoli da griglie selezionatrici.
Impotente davanti a un universo improvvisamente orribile e ostile,
osservavo senza sentimento gli assistenti di Whitney
che trascinavano via il suo corpo privo di conoscenza,
posseduto da Ashton.
[ La poesia qui proposta è un libero adattamento in versi della scrittura in prosa tratta da Il mondo sul filo, Daniel F. Galouye, Atlantide (pagine 126-127), traduione di Federico Lai ]