Nella cattedrale bianca dipinta
A Illiers-Combray, mentre il crepuscolo
spegneva il museo, tormentandone i contorni,
penetrai nella chiesa bianca di Sceral,
tra colori ad olio e velature di cera d’api.
Le linee flessuose degli archi continuavano
i sentieri del bois de Boulogne,
rubando gemme di luce infinita al cielo,
e quel brillio corrodeva i confini del quadro,
traboccava, colpiva lo sguardo.
Aveva un alfabeto di sculture in pietra
e pinnacoli intermittenti la cattedrale:
mormorava all’orecchio attento
attraverso le penombre, gli angoli tetri,
percorsi da flash zaffiro e legati
a oscure memorie d’infanzia.
La Vergine del biancospino
Un raggio fremente di luna portò aromi di collina
nella cattedrale di Bourges, un sapore forte di papavero
e maggiorana che toccava le linee rilevate
del rosone, le volte a raggiera.
In un angolo della navata grigia, Babuk, a quel bagliore
lunare, guardava le solenni storie di pietra,
gli sprazzi di tenebra nella luce,
lo splendore infinito del cielo.
Terra e cielo si toccavano, ai suoi occhi di folletto,
in un nodo preciso: nel portale, nei biancospini scolpiti
che imitavano la ghirlanda della Vergine Maria, intorno al collo sottile.
Gli sembrava di sentirne l’aroma pungente.
Ecco, proprio lì, nei fiori di biancospino,
il buono della terra si raccoglieva, come grani di sabbia,
prima dispersi e ora radunati dal vento in una duna;
come mille gocce di rugiada, riunite dalla mano di un bimbo,
trasformate in pioggia fresca per i campi dei papaveri.
No, non gli piacevano le Madonne
coperte da strati d’oro, perle e smeraldi, lamine di bronzo
che nascondono il profilo puro delle forme.
Le vedeva mentre soffocavano, come iris dalla corolla
piegata al seno al quale abbiano rubato l’aria, il respiro.
Un petalo candido, sollevato dal vento notturno,
un soffio di biancospino,
volò nella navata tra gli archi acuti e gli organi maestosi.
Babuk lo raccolse ai suoi piedi.
Le foglie del bois de Boulogne
Le foglie secche del bois de Boulogne mostravano
nervi giallognoli, fili purpurei;
l’autunno si annunciava già, intenso e triste,
nell’orizzonte tagliato da nuvole.
Babuk ne vide i riflessi sulle trasparenze del lago,
accanto a un cigno, assopito, solitario.
Con quelle foglie avrebbe intrecciato presto
una poltrona magica e sarebbe volato nella stanza di Marcel,
avvolta da mantelli d’aria calda, fra i riverberi dei tizzoni ardenti.
Il suo sguardo avrebbe inseguito il chiaro di luna,
disteso sulle imposte della finestra sigillata.
Avrebbe acceso quella candela di Combray
che, spegnendosi, rendeva troppo oscura la notte
e trasformava il fischio del treno in un tetro canto di foreste.
Chissà, forse avrebbe visto anche la camera
con le cortine viola, ancora nuove,
nemiche, insolite, come la luce
sott’acqua alla quale gli occhi faticano ad abituarsi.
In quell’istante il pensiero di Marcel
si sarebbe allungato per tutta la stanza,
coprendone l’altezza, velando
le pareti di mogano e le tende di lino.
E lui ne avrebbe colto subito un barlume
da incidere su una foglia
di quercia del suo bois de Boulogne.
Poesie quarte classificate nella prima edizione (2015) del Premio Letterario Nazionale indetto da LaRecherche.it: Il Giardino di Babuk - Proust en Italie
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