Dentro il cuore
Ho dentro il cuore lo spento
focolare, la casa lontana
come le cose spente del passato,
anche se in essa vivo, vegetando
come pianta d’un giardino
abbandonato. Ho dentro il cuore
il castello dirupato che sgretola
le torri in braccio al tempo
e non trattiene pietra altra
pietra che frana rotolando.
Ho dentro il cuore la stupida
risata del vittorioso che morde
il suo trionfo. Occhi non ho
che ciechi alle delizie
che in ogni dove la terra
va spandendo, al verde illuminato
dentro il cuore; occhi che solo
cenere hanno dentro al focolare
e giorni, esangui giorni, nell’attesa.
Tutto, tutto il grigio in cui
l’anima passa navigando, tutto
traduce questa immane assenza.
Sola e lontana scruto l’orizzonte:
sul molo il mio bianco, il mio nero
peplo, mosso è dal vento.
Come Platone cerco la metà,
la sola mia metà, in qualche
canto posta, lontano forse, e
con destino amaro: di non
tornare mai dove fu attesa.
E il mondo tutto, metà e metà
rimane e sospira e guarda
il suo resto tolto, dimentico
nell’anima di quanto hanno
promesso. Sperdersi cercando
è, forse, uguale al cercare restando
e questo è il cuore della metà
irrisolta che ancora attende l’ora.
Il Canto
Io sempre amai la limpida
parola con cui illuminava
il greco vate la legge severa
del suo canto. Soltanto
ciò che è limpido risplende
solennemente canta la purezza:
nella parola come un dio
si specchia che vesta solo
della sua bellezza. Bella e pura,
rotonda è la visione che la parola
innalza, spendente e sovrana
quanto gli astri quando li credevano
dei. Come alabastro levigata,
come la luna quando è intera
in un cielo immoto e casto,
così splende la parola
per mostrare senz’ombra
la luce dell’essere che è.
Non di mobile fiamma
ma del sereno sguardo
che tutte le cose ha contemplato
prima di nominarne alcuna,
così splende la parola
che solo netti profili, solo
eterne visioni sempre acclara
dove pure il mistero è eterna luce.
Canto dell’amore insperato
Oh, perché sei venuto, e come, ora che la luce
s’ottunde e si vapora sulla terra inerte,
ora che autunno è diventato inedia?
La tua bellezza non è più inferma, il tuo viso
non si reclina, non ha più pallori,
sorride allo sguardo d’amore che ti diedi
ignara del mondo e sorda a ogni richiamo
che non lasciasse il tuo corpo risplendere
nel buio o in una luce di magnificenza.
Perché sei venuto, voce dell’alfabeto vivo
e universale, e luce profondata nella notte
come nel fondo del marino abisso
nota impigliata che vibri sola?
A lungo ti ho cercato, a lungo, e sono stanca:
le mie mani, i miei gesti sanno
la febbrile attesa. In un mondo che non quantifichi
o misuri ti ho voluto, che non chieda a ciò che è
d’essere altro. Dimmi il tuo richiamo, concedimi
il tuo evento, ch’io non mi aggiri ancora,
ancora non mi perda tra le galassie di questo
eterno niente, incerto come viaggiatore
in terra straniera, che non mi affacci al baratro
senza fondo nell’universo delle inconsistenze.
In te adoro gli idoli eterni che qualcuno
mi concesse di sognare. I miei aditi
si aprono a percepire la tua sola Imminenza.
Quando camminerai insieme agli uomini, compagno
e compagna dell’ebbrezza, quando la dirompente
tua fermezza frantumerà i cuori di carne
trasformando in pura gioia la bellezza?
[ Poesie tratte da Penelope e altre poesie, Campanotto Editore ]