O voi falliti inetti ipocriti intriganti
indegni ruffiani della vita che è in voi
Voi che non rimpiangete e non sognate
certi di esserci sicuri di fare
pensierosi automatici disinnescati: bruti
Voi che credete di venire
da dove vorreste andare figli dei condannati
a emigrare pastori della disintegrazione
discepoli di voi stessi. Aborti.
Perle vostre orecchie lorde
merdose dei rumori che inventate
la polvere inorganica e opaca
sulla pelle i polmoni incatramati
e sopra tutto la vostra gaudente indifferenza
di inetti
Peri vostri amplessi metodici e annoianti
voi scissi e consapevoli
della vostra decomposizione imminente
aggregati di niente che vi parlate addosso
e come insipide larve carrieriste v’illustrate
in araldiche di niente. Voi che vi eleggete
adivi di voi stessi
genia terricola. Voi che vi confortate nell’agio
di teorie che inventate per darvi ragione
che sprecate un tempo inesistente a
accumulare minerali e possessi
che osate recintare i campi
voi che ci incatenate i fratelli voi
bisognosi pusillanimi di condottieri e di saggi
Per voi che biasimate da profeti le libertà degli altri
e subite l’anarchia di voi stessi
voi indomiti
bramosi
sapidi intelletti
metafisici rettori del vero – voi
che non siete altri che voi stessi. Voi che dite
io penso io sono
e che misconoscete la contraddizione
che siete. Carne che suppone. Illusi.
Voi che avete applaudito con gioia oscena
mentre i fratelli che dicevate in dio erano arsi vivi
vi siete nascosti tra la paglia
di funesti ideali
e avete acconsentito
a che i figli macellassero altri figli per chiamarne qualcuno notabile
Per voi che ancora giocando
sempre più spietati avete ritenuto
di esservi fatti adulti
Voi irresponsabili senza remissione
Perle vostre membra infiacchite
flaccide appoggiate sulle laide poltrone le
sedie i morbidi letti nutriti e gonfi
come fetide saccate d’immondizia
schifosi nelle vanità
che soprannominate eccessi. Inetti codardi
indegni del sangue che vi irrora e vi spinge
apostoli della vivisezione
pavidi ottusi mangia corpi che non
volete quando è ora di morire
Voi brillante progenie delle stelle aurei
figliocci del censo imbevuti del pensamento
cosmico
voi compari del soffio
Per voi che scavate i defunti di altre ere
e ritagliate le frattaglie ai morti
come testimonianze da addurre in tribunale
voi che impiantate contro ogni sopruso
sistemi di sopruso giudiziari
Voi che ammucchiate rottami e vi obiettate indignati, quasi sorpresi
voi che per l’agio comprate
e che comprando azzerate se stessi
voi che con noncuranza varcate
i vostri limiti
che vi cullate nelle spavalde imprese
voi effigi di voi stessi e nulla più
Ascoltate o voi esimi falliti, inetti ipocriti
intriganti ruffiani di voi stessi ciò che desiderò Sertorio
vittima condolente e disertore
del costume aggiogante dei padri
e delle madri
che voi siete
“Al calare del vento andò a sostare su certe isole sperdute e prive d’acqua dove passò la notte, e di lì salpò per attraversare lo stretto di Cadice, tenendo sulla destra la costa esterna dell’Iberia. Sbarcò poco sopra la foce del Beti, che sbocca nell’oceano Atlantico e dà il nome alla regione iberica circostante.
Qui s’imbatté in alcuni marinai appena ritornati da quelle due isole dell’Atlantico – separate da uno stretto assai sottile e distanti10.000 stadi dall’Africa – che vengono chiamate Isole Fortunate. Godono di piogge moderate e rare, e soprattutto di venti miti,carichi di rugiada. La loro terra, perciò, è fertile e grassa,ottima per seminare e da arare; inoltre producono spontaneamente frutti dolci e sufficientemente abbondanti per nutrire la popolazione che trascorre nell’ozio un tempo libero dal lavoro e da ogni occupazione pratica. Anche l’aria in quelle isole è salubre,grazie a un clima temperato e privo di forti sbalzi stagionali. Infatti i venti settentrionali e di levante, che soffiano da terra verso l’esterno, incontrano un vasto spazio vuoto in cui si disperdono e, data la grande distanza delle isole dal continente, si smorzano prima di giungervi; d’altra parte i venti che soffiano dal mare, quelli cioè di mezzogiorno e di ponente, apportano piovaschi leggeri e sparsi, ma soprattutto rinfrescano la vegetazione con brezze umide e la fanno crescere dolcemente. Tutto ciò ha diffuso, e radicato anche tra i barbari, la credenza che proprio lì si trovino i Campi Elisi e la sede dei beati, cantati da Omero.
Quando udì questo racconto Sertorio fu preso da uno straordinario desiderio di andare ad abitare in quelle isole e di trascorrervi in pace il resto della vita, lontano da un potere persecutorio e da guerre senza fine.” (Plutarco, Sertorio 8-9)
[ Tratto da Acrilirico, di Gian Maria Turi, Manni Editori, 2011 ]