Il bambino cresceva nell’amore dei suoi genitori.
Osservava il cielo di notte
e immaginava il verso di qualcuno che lo chiamava.
Quando riuscì a dare un nome ai suoi sentimenti
seppe che quello che provava si chiamava nostalgia,
che è la perdita delle cose belle.
Guardava i suoi genitori invecchiare insieme
e, siccome li amava, non poteva dire loro
che per lui erano solo la metà di tutto quello che voleva.
Una notte, quella dei suoi tredici anni, fece un sogno.
Si era risvegliato in una mattina chiara
in un bosco sconosciuto,
con i raggi del Sole che filtravano dal fitto delle foglie,
chiazzandogli il viso di bianco.
Il bambino vide un asino che lo guardava in mezzo agli alberi.
Si accorse che era lì da sempre,
che c’era stato in ogni suo sogno.
Imparò a seguire l’asino,
a chiamarlo per nome nel fitto degli alberi.
A volte si fermava insieme
a contemplare il cielo dei suoi sogni
che era simile a quello vero, solo più intenso,
come se fosse possibile abitarlo.
Quando smise di sognare l’asino,
decise che si sarebbe avvicinato a quel cielo che lo chiamava.
Baciò i suoi genitori sulle guance e poi gli disse addio.
[ La poesia qui proposta è un libero adattamento in versi della scrittura in prosa tratta da Libro del Sole, Matteo Trevisani, Atlantide (pagina 112) ]