III.
La radio semina ricorrenze civiche nel deserto; io
rivedo i tuoi sguardi clorofilla che a sprazzi hanno irrorato giorni spessi.
Umidi dei vent’anni mi annunciarono di via D’Amelio, ed eravamo
casti e sapevi del fieno attorno casa; poi burrascosi in venuzze, specchi
ustori di Alice nel meraviglioso mondo bancario all’alba del nuovo
millennio, sprezzavano a Genova quei miei comunisti di merda
e se Giuliani è morto, dicevi, qualcosa avrà pur combinato,
male non fare paura non avere (refugium peccatorum).
Poi facevamo una pace generosa e m’affilavo nella tua carne come l’illusione
ultraterrena sa innestarsi nell’occaso, gentilmente deflorando la foschia.
Di noi per fortuna non resterà nulla, i quarant’anni son tazze riposte all’acqua fredda
del calcolo, galassie in moti diametrali, sgranate da qualunque
storia risoluta nello schivarci, orrore grosso di stragi mangia
orrore piccolo del tuo delirio borghese rampicante, della mia vulvocentrica viltà.
VIII.
Per qualche miracolo la morettina dell’ufficio accanto ti nota mentre vai al bar,
dice qualcosa al collega, lui divertito lo rimbalza fino a te, vi presenta.
È estate, timidamente vi vedete in centro, lei a sera
si diletta in una compagnia teatrale e l’attendi all’uscita,
prendete una pizza coi suoi amici che ti guardano storto:
o chi cazz’è, o d’indo’hazzo viene questo signor nessuno
a turbare il sottile equilibrio di panna del nostro branco flirtante?
Ma tiri dritto che manco un bulletto – stupito, nemmeno ti ricordi l’ultima
volta in cui qualcosa qualcuno ti avesse mosso così.
Svolazzi attorno a quelle labbra di Zerlina e pensi quanto è bella precisa confacente
agli standard, misuri a spanne i sorrisi della gente
quando lei ti cammina a fianco, la pelle benedetta i capelli annottati le scarpe col fiocco,
mentre prima chi t’incrociava pareva avesse sterco nel naso.
Puoi ammetterlo che respiri. Piccolo, tenero uomo! Arriveresti perfino, come tutti,
a accompagnarla a messa la domenica. Del resto stai fingendo, millantando
sull’intero comparto, vendendo aceto per vino:
una vita normale per te è già ruota di pavone, furto d’identità
per un fidanzamento o anche solo un ficafinanziamento.
Una sera ti trovi in camera sua a guardare un film insulso; quasi per norma
le volano via le mutandine con sopra impresso il segno zodiacale… Unica stonatura
il discendente, quello stracchino che ha deciso di esistere meno del suo padrone.
Non c’è molto altro, i lenti declini iniziano spesso con grandi silenzi:
lei prova per tiepida prassi a consolarti, dormi lì, ti alzi spesso per sbuffare aria
senza svegliarla, ah se il tuo uccello funzionasse come i tuoi succhi gastrici. Al mattino
strisci in ufficio tra pensieri appuntiti, e mentre il direttore centenario
del marketing sbava alle tettone della segretaria tu faresti esplodere tutto
senza neppure la classica letterina, con un riflesso meccanico sul pulsante infiammato.
XXV.
Ho iniziato la lettura di Proust per afflato romantico – come l’Ifigenia
di Feuerbach, il suo sguardo di vigilia perduto all’orizzonte –
perché il telefono non suona da giorni e non so più a chi pensare per farmi
faticosamente una sega, né che traguardo pormi, unica medicina
è leggere fino alla nausea cuocendo nell’ottobre strisciato dalla carezza del meriggio.
Mi perdo nell’universo di glassa che nasconde sprazzi elettrici –
similitudini, sguardi d’aquila su questo formicaio – ma sopra ogni cosa
mi lenisce crudelmente la vita di monsieur Marcel, così affine fraterna. La madre adorata-adesa, la precoce comprensione
dell’anomalia, il salto extraorbitale del non far parte – e quella snervante
recherche du silence, in sughero o in risacca. Nel mal comune
mezzo gaudio d’un tempo passato rimbalza, come specchio puntato a specchio,
la marmorea sentenza dal libro a me, da me al libro. La frescura
di ricordi ritrovati mista a tristezza nella mossa del paguro,
del ritrarsi, giovani solo anagraficamente – e neanche più tanto. Mi gira
un po’ la testa ma continuo, qualche pagina ancora.
[ Da Cinquantaseicozze, Italic 2015 ]
Recensione di Franca Alaimo su laRecherche.it