Pubblicato il 14/05/2011 10:36:41
I SOGNI CHE VOLEVO CANTARE
Io non sono nessuno, niente più di un anonimo proprietario di una delle tante chitarre abbandonate ad ammuffire dentro a qualche vecchio mobile, o ad impolverarsi in qualche angolo di una sconosciuta soffitta. Nulla più di uno che aveva una bella voce piena e sincera, lasciata ad arrochire col peso degli anni, se non ad affievolirsi respirando il fumo delle mie quindici sigarette giornaliere e le tonnellate di esalazioni delle saldatrici del mio posto di lavoro. Questo sono adesso ma c’è stato un tempo, perso nei meandri della mia memoria, in cui cercai di essere qualcosa di diverso, non posso dire migliore ma di diverso sì: sicuramente. Avevo dieci anni nell’anno in cui volavano pietre e pomodori, l’anno in cui venivano sollevate barricate e la polizia si scagliava contro gli studenti che protestavano; e gli operai lottavano per un mondo migliore; la gente si riuniva a parlare davanti a fuochi accesi dentro a grossi bidoni di latta; vedevo queste cose durante i telegiornali o le osservavo mentre scorrevano al di là del finestrino dell’utilitaria di mio padre. Era quel 1968 fumoso che ci saremmo ricordati tutti a lungo; pure io che, allora, sgambettavo dietro qualche pallone e preparavo l’esame di quinta elementare. Avevo solo dieci anni ma capivo molte cose, soprattutto seguivo gli esempi che mio padre faceva a mia madre quando discutevano di questi avvenimenti a tavola; poi accadde che i fuochi si spensero nei bidoni e le barricate sparirono, ma qualcosa rimase dentro alla testa della gente: qualcosa di quell’aria, di quelle idee. Ed è questo ciò che spaventa chi detiene il potere: il fatto che per quanti libri riescano a bruciare, per quante statue possano abbattere non potranno mai bandire il peso delle idee. Ma torniamo a noi: il primo disco che comprai, con i risparmi delle paghette settimanali, fu un quarantacinque giri di un artista americano che gettò nella disperazione più nera mia madre; si trattava di Jim Croce e la canzone era Bad Boy Leroy Brown: andava così forte che restò in vetta alle classifiche americane per molto tempo. Era il millenovecento settanta tre e ascoltavo quel disco sul mangiadischi arancione su cui, sino a qualche anno prima, seguivo le fiabe dei fratelli Andersenn. Leroy Browne invece morì qualche mese dopo, cadde giù dal cielo assieme all’aereo che lo stava trasportando: lasciò solo quella canzone dietro di se, l’unica opera che parlava di lui. Io rimasi molto colpito dall’idea che quel ragazzo aveva conosciuto, in un lasso di tempo così breve, la gloria e la fama, appena in tempo perché la sua morte potesse suscitare scalpore e fare notizia. Intanto io invitavo qualche amico e ascoltavamo il disco sino alla noia, anche perché era l’unico che avevamo; capitava che si unisse a noi un ragazzo del piano di sotto, Adriano nonmeloricordopiù, e portava un vecchio disco che aveva trovato in casa: era sicuramente migliore del mio, più musicale e trascinante con quel ritmo sincopato ed incalzante che aveva: fu così, ascoltando Blue Suede Shoes e davanti ad una fetta biscottata ricoperta di Nutella, che mi venne l’idea di diventare un cantante rock. E quei ragazzi, che si riunivano per fare merenda e fingere di studiare le pallose materie scolastiche, si divisero compiti e responsabilità: ognuno avrebbe imparato a suonare uno strumento diverso. Ma tutti volevano suonare la chitarra, lo strumento che andava per la maggiore, per risolvere la questione attuammo la peggiore cosa che si possa fare per una simile diatriba: tirammo a sorte, ignari che l’arte è qualcosa che sorge spontaneo in noi. Per la scelta del cantante usammo uno stratagemma appena migliore: c’esibimmo a turno davanti a tre nostre compagne di classe che, inconsapevolmente guidate dalle palpitazioni del loro cuore, cercarono di scegliere; a quell’età non c’è ragazzina che resista ad un bel paio di occhi azzurri, incastonati in un visino d’angelo e sormontati da qualche ricciolo biondo. Ed indicarono proprio me. Volevamo fare successo, volevamo diventare famosi ma invece di cercare di apprendere con dovizia l’uso dei nostri strumenti, ci concentrammo sulla scelta del nome che avrebbe avuto la nostra band. Billy e i suoi Rokkabilly: un nome che ti allontana irrimediabilmente dal viale del successo e t’immette direttamente su quello del tramonto. Suonammo durante alcune feste di compleanno, cercavamo di tenere duro sinché si poteva, ma andava sempre a finire che uno di noi s’imboscasse con qualche ragazza; mi capitava di dover cantare senza l’accompagnamento della batteria, o del basso, oppure privo delle melodie della tastiera. Più che concerti sembravano scioperi a singhiozzo; mi capitò persino di restare da solo, armato di una chitarra e di un microfono, ad affrontare l’oscurità di quei semi interrati dove si svolgevano le feste; un buio annebbiato dal fumo di sigarette che facevano tossire e umido di baci scambiati sopra vecchi divanetti scuciti e strappati. Avevo una mia tenuta da cantante rock completa persino di un paio di scarpe blu, certo non erano di velluto come quelle della canzone, ma andavano bene lo stesso: a dire la verità non erano neppure blu ma di un azzurro indistinto ed opaco, di una forma indefinibile; mise su qualcosa di simile Tom Waits quando girò Daunbailò assieme a Roberto Benigni. Ma il punto era che io volevo essere come lui, come il re del rock che mi entusiasmava: quell’Elvis che avevo conosciuto su quel disco; volevo essere uno che scriveva canzoni che facevano ballare gli altri Durante le ore di lezione al liceo mi perdevo dietro i miei sogni che si accendevano da soli in testa, e in quei momenti prendevo una penna e strappavo un foglio dai miei quaderni: cercavo di scrivere qualche canzone ma ciò che veniva fuori mi sembrava degno soltanto di finire nel cestino della cartaccia. Chissà quante poesie ho gettato: non mi rendevo conto che le occasioni della vita le si inizia a bruciare da soli, così. C’era una frase che veniva fuori con costanza preoccupante, una sorta di citazione che mi assillava: adesso faccio salpare i miei sogni, mi dava l’idea di essere un momento d’alta poesia ma non riuscii mai a legarci dietro qualcosa di altrettanto poetico. O forse ci riuscii e non me ne resi conto. Intanto perfezionavo la scaletta dei nostri concertini: passavamo da Rockin’ all over the world a Hey Joe; da Pretty Woman a Heartbreak Hotel; e poi Baby Please Don’t Go e Hound Dog e Good Golly Miss Molly. Crescemmo e le feste che ci vedevano ancora come mattatori adesso erano offuscate da un fumo aromatico e pesante che non era più quello delle sigarette ma quello di spinelli, e l’umidità che addensava l’aria era quella dei vagiti dei primi assaggi di sesso furtivo. Fatto sta che quegli spinelli ci portarono via il batterista: rimase preso dal giro e pensò bene di percorrere quella strada sino in fondo, con una coerenza che non ebbe quando decise di suonare nel nostro gruppo. Ma forse non dovrei parlare di coerenza: lo ritrovarono qualche anno dopo nello scantinato di una casa abbandonata, bruciato da un’overdose letale. Noi restammo senza batteria e, come fanno le auto in circostanze simili, ci fermammo; ognuno prese la propria strada, senza rancore e decisi a non voltarsi mai indietro, ma eravamo inconsapevoli che quella determinazione si sarebbe sfilacciata col tempo sino a disgregarsi del tutto: non so gli altri, ma a me capita molto spesso di ripensare a quei momenti andati, a quelle canzoni che suonavamo farcendole d’errori, immaginandoci di essere ciò che sognavamo di diventare. Quella storia si era conclusa per sempre e non ci riflettemmo neppure per un momento. Io cercai di andare avanti: mi comprai una tastiera e imparai a suonarla, tanto per poter fare delle serate come solista. Mi iscrissi all’università, scelsi psicologia ma lo feci più per rinviare il militare che per rispondere ad una reale convinzione. E nei pomeriggi d’inverno, sperso nelle grandi ed affollate aule dell’ateneo, confortato dal calore sonnacchioso dei tanti corpi stipati assieme, ignoravo bellamente la voce monotona del luminare e cercavo di trovare le parole della mia prima canzone; e quella frase continuava a risplendere tra sgorbi di cancellature rabbiose e disegni distratti: adesso voglio far salpare i miei sogni. Non riuscii a dare gli esami necessari per ottenere il rinvio, l’obiezione di coscienza non era pubblicizzata come adesso e, soprattutto, non era così facile ottenerla; il servizio militare mi portò ad Orvieto per tutto l’anno millenovecento settanta sette. Quando tornai a casa cercai un lavoro e non mi crucciai più di tanto degli eterni rifiuti, degli improbabili rinvii e degli educati rimandi. Riuscii a fare qualche serata di piano bar: io, la mia voce e la mia tastiera; ma non potevo non rendermi conto che stavo allontanandomi sempre più da quello che volevo essere, perso dietro il tintinnare dei bicchieri e al cicaleccio di chiacchere distratte che soffocavano la mia musica. A quel tempo suonavo i classici italiani: Baglioni, Battisti Cocciante e via via tutto l’alfabeto della canzone italiana sino allo Zero di Renato. Il mille novecento ottanta quattro fu l’anno della svolta: conobbi una ragazza che sembrava uscita da una poesia di Neruda, bella ed inebriante, forte come l’odore dei frutti maturi ancora sulla pianta; fatta di una sensualità selvaggia che mi strappava il cuore ogni volta che la guardavo. Ci presentarono e ci lasciarono soli, io dissi la prima cosa che mi venne in mente, ancor prima di averci riflettuto: “ Vorrei riuscire a fare salpare i miei sogni. “ e lei rispose con naturalezza: “ Dimmi cosa devo fare. “ quasi si fosse aspettata qualcosa di simile. Rimasi senza parole e lei mi baciò. L’anno dopo lei aspettava un bambino e non ci restò che sposarci; la necessità di uno stipendio sicuro divenne assoluta, e lo trovai un lavoro, onesto e garantito, un impiego che, per qualche tempo mi fece decidere di mettere via tastiera e chitarra. Ma in quell’anno girava per il mondo uno strano tipo che gridava le proprie idee con rabbia; un uomo che divenne per me un fratello e mi fece capire che chi era nato per correre non doveva fermarsi mai, non doveva esserci nessuna resa. E così, davanti all’ennesima bolletta che avrei faticato a pagare ed un attacco di batteria forsennato dalle casse dello stereo, decisi di rimettere in piedi una band, accampando con mia moglie la scusa di poter arrotondare lo stipendio mensile con qualche serata. Una band senza nome. Trovai un gruppo di ragazzi più giovani di me, animati dalla sana voglia di fare che si ha attorno ai diciotto anni, quando il mondo sembra che possa cambiare grazie alla canzone che non è stata ancora scritta, proprio quella che continua a girarti nel cervello. Provavamo in una cantina umida e fredda, inagibile quando pioveva. In estate suonavamo per pochi spiccioli durante le feste dei vari partiti, ed io, con la mia chitarra al collo e la fruit arrotolata sul bicipite gonfio da manovale, cercavo una strada per i miei sogni prima che l’età me le precludesse una volta per tutte. Adesso battevo il tempo con stivali da motociclista e mia moglie assisteva a tutti i concerti, tra coppie che aspettavano il momento della mazurca e ubriachi che la invitavano a ballare. La scaletta adesso prevedeva Sunshine of Your Love, Stairway to Heaven e Like a Rolling Stone; Honky Tonk Woman e Backstreets. Running on Empty e Riders on the Storm. Ma le storie della vita si ripetono in maniera tragicamente simile, infatti uno di quei ragazzi restò impantanato nelle paludi della droga e se ne scivolò via in una storia fatta di eroina, cocaina, metadone e, alla fine, operatrici sociali del S.E.R.T. per la riabilitazione. Un altro di loro, il mio chitarrista, mise incinta la fidanzata e dovette trovarsi un lavoro prima ancora di sposarsi; mi confidò che il padre della ragazza gli aveva reso noto il fatto che non avrebbe gradito nessun’altra soluzione mentre ripuliva una carabina da caccia. Suonammo per l’ultima volta tutti assieme proprio durante il suo pranzo di matrimonio. Un’altra storia si concluse quel giorno, me ne resi conto mentre richiudevo la custodia della mia Fender, sperso tra petali di fiori dall’odore soffocante e tulle che svolazzavano per ogni dove, con le labbra sporche di panna e una macchia di sugo sulla camicia bianca. Restai per un attimo sulla porta a guardare le strette di mano che sancivano la chiusura della festa, della band senza nome e delle strade. Sembravo proprio il Boss di Tunnel of Love, ma ero tetro nel mio abito elegante fumo di Londra come l’uomo solo che parte dalla stazione, senza nessuno a salutarlo e circondato da abbracci e lacrime; poi voltai le spalle e mi misi di nuovo in cammino, da solo. Ma mio figlio stava crescendo e mia moglie aveva gli occhi sempre più stanchi ed arrossati dai suoi silenziosi pianti notturni; la mattina la trovavo più stanca di quando ci eravamo coricati. Non potevo non sentirmi in colpa. Trovai un lavoro migliore e iniziai a fare straordinari per rimettere in sesto le finanze traballanti della mia famiglia: mi ci volle del tempo ma ce la feci. Adesso le cose vanno meglio, ma nelle pause pranzo sento una voce che mi chiama e mi ricorda che stavo cercando di fare salpare i miei sogni. E invece, adesso, l’unica cosa che vedo salpare sono le navi che vengono allestite nel cantiere navale in cui lavoro: è qui che ho trovato impiego alla fine, se ancora non lo aveste capito: e questo dimostra che la vita, se vuole, sa essere stronza all’inverosimile. A volte ho paura che mio figlio mi veda un po’ come gli eroi sconfitti delle canzoni di Springsteen. Ma io non mi cruccio più di tanto, guardo quei bastimenti andare via, sparire all’orizzonte dopo il varo e penso che ogni uomo ha un compito da svolgere, il mio era forse quello di costruire navi dopo aver cercato di cantare canzoni; ma non ho rimpianti perché ci ho provato. L’importante è questo. E forse l’importante è poter preparare una strada migliore a mio figlio: perché no. Che sia lui a fare volare i suoi sogni e, se lo ricorderà, lo faccia anche per me. E l’altro giorno, sopra una lamiera della nave che stiamo finendo, con un mozzicone di steatite ho scritto:
adesso faccio salpare i miei sogni che il vento li trasporti sin dove non sono stato capace di spingermi che il sole che non ho conosciuto li possa salutare lungo il cammino e possa il mare accarezzarli durante ogni viaggio; così che riescano a raggiungere il cuore delle persone che ignare passeranno loro accanto: io resterò qui.
Il mio collega l’ha letta e ha detto che è un po’ una cazzata, ma adesso so che, quando salperà quella nave, un po’ dei miei sogni salperà con lei e la mia frase, anche se spersa nelle numerose mani di pittura che la copriranno, girerà il mondo, proprio come sperai di poter fare con le mie canzoni. Con le canzoni che non ho mai scritto.
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