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Basquiat...o la libertà di essere se stesso.

Argomento: Arte

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 13/06/2024 10:20:30

Basquiat...o la libertà di essere se stesso.

Nel solco di quanto fin qui affermato, viene da chiedersi se la rivelazione ‘artistica’ di Basquiat abbia avuto luogo nella tradizione o fuori della tradizione storicistica dell’arte? O se l’impatto dei mass-media con l’evolversi dell’arte contemporanea, può aver prodotto una sorta di ‘finzione’ mediatica, di cui Basquiat è soltanto un interlocutore più o meno pregiudicato /compromesso?

Ma queste non sono che domande cui si sta ancora cercando di dare delle risposte concrete. Seppure – come già ho avuto modo di esprimere – sia convinta del fatto che l’arte contemporanea possa essere il frutto della ‘futilità’ di un ‘presente storico’, provvisorio e deteriorato, che noi tutti stiamo vivendo, e al quale comunque, sto cercando di dare un senso. Le sale espositive, i grandi spazi semivuoti della Mostra alla Fondazione Memmo di Roma, non facevano che aumentare in me quelle sensazioni che ho appena descritte e, solo dopo attenta riflessione, rammento di essermi chiesta, se si trattava di ‘finzione’, o se le ‘immagini’, che pure avevo di fronte e tutte le altre che le sue opere mi suscitavano, fossero autentiche, oppure simulazioni tuttavia non vere, cioè allucinazioni dovute alla costante esposizione della droga cui Basquiat, almeno stando al suo biografo (*) più accreditato, sembra facesse ricorso.

Indubbiamente la pressione che le sue opere esercitano su di me, prova che l’artista probabilmente deve averle sentite sulla propria pelle, e che certamente riflettono di una proiezione ‘olistica’ (*) della realtà. È come se egli volesse far sparire il mondo (o almeno quel mondo riduttivo che lui interpreta) dentro il ‘testo’ delle sue opere, in contrapposizione alla concretezza della realtà (dura perché amara) che pur si è trovato a vivere. Non mi è però capitato di trovare nelle sue opere quella ‘spiritualità’ creativa cui gli artisti fanno spesso riferimento (anche se non lo ammettono). Come pure non mi è sembrato vi fosse la trattazione di un’idea particolarmente geniale, o la tensione idealistica di un’artista votato all’arte per l’arte. Piuttosto ciò che più salta all’occhio, è l’utilizzo di ‘stereotipi’ presi qua e là che, in qualche modo, raccontano il mutare emotivo della sua sensibilità artistica nella scelta dei colori e nelle forme.

Tuttavia, ancora oggi, di fronte alle sue opere, mi trovo a condividere la mia idea su Basquiat con quanti hanno tessuto il suo profilo artistico e che, paradossalmente, lo pongono al di fuori degli schemi dell’arte. Affermazione questa, scaturita dalla dedizione dello stesso Basquiat, di una libertà priva di vincoli oggettivi con la concretezza del ‘tempo’ in cui egli si trova ad operare. Cioè all’interno di quell’ontologia storica dell’arte contemporanea’ che dagli anni ’50/60 arriva fino a quest’oggi, e che, con Basquiat, sembra avviata a “concludersi con uno scacco matto per chi ha aperto la partita”.

Da questo punto di vista, nel quadro convenzionale in cui si svolge la partita sull’ l’opera di Basquiat, hanno ben voglia i critici e gli estimatori d’arte a sproloquiarsi sul “assomiglia a questo o a quello...; ha raccolto l’eredita di...”, quando Basquiat (spirito soggettivo), dimostra ampliamente e con tenacia, che non c’è partita che si giochi, o si possa dire giocata, per il semplice fatto che egli, non essendo artista sedimentato nelle spire dell’arte, fuoriesce dal discorso prettamente ontologico da impedire qualsiasi sua classificazione, e l’unico rapporto oggettivo in cui è possibile inserirlo è quello dell’intuizione (geniale o meno), e comunque, esclusiva manifestazione del presente.

Dacché possiamo intuire come in tutto ciò giochino un ruolo importante non soltanto le opere esposte (in mostra), ma anche lo stato emotivo di chi le osserva, e che, usando una espressione metaforica di Umberto Galimberti (*), possiamo interpretare come connubio di un “sentimento nel sentimento”, com’egli dice, non essere sconsolato abbandono, bensì forza: “La forza d’essere se stessi al di là di tutte le convenienze, di tutti i calcoli, di tutte le opportunità”. Ovviamente applicabile all’artista autore delle opere quanto a chi le osserva emotivamente, scomponendo e anatomizzando i colori, i segni e le forme dei quadri esposti, di cui l’artista nel suo operare creativo, inconsciamente emotivo, talvolta neppure si rende conto.

Nella sua “teoria delle emozioni”, Keith Oatley (*), associa l’emotività a un avvenimento causato dal mondo esterno che, grazie alla percezione riusciamo a comprendere e risalire alla causa che l’ha prodotto, a conferma della capacità (e della possibilità) di adattamento e un significativo controllo di sé (autoaffermazione), capacità di esprimere e dominare (o inibire) i propri affetti, i propri desideri e le pulsioni. Cioè tutto quanto contribuisce all’affermazione di se stessi rispetto agli altri, quindi anche rispetto alle cose, alla luce, ai colori, al tempo meteorologico che, nell’insieme interagiscono e s’influenzano a vicenda, conseguentemente a un’esperienza emotiva multiforme, anche ambiguamente conflittuale, spesa nell’acquisizione di un certo ‘prestigio’ personale, di una maggiore conoscenza, e di un accresciuto ‘potere’, come – ad esempio – di poter disporre di più mezzi critici.

Ma se le emozioni rappresentano una realtà complessa e in gran parte ancora misteriosa, l’essere critici (o acritici) è sempre un’esperienza soggettiva che assume valenza se la si esplicita (o non) mettendola in relazione con gli altri, i quali, interagiscono con la nostra emotività attraverso le suggestioni e i sentimenti (le emozioni) che siamo stati in grado di suggerire loro. In ogni caso c’è una spinta che deriva dalla conoscenza (propria del sapere) che, se proficuamente usata, ci permette di ottenere risultati congrui alle nostre e alle altrui aspettative. Altrimenti ci si dovrebbe chiedere perché visitare una mostra d’arte pittorica, cinematografica o avveniristica che sia (?). Devo ammettere che in occasione della Mostra su Basquiat alla Fondazione Memmo, da me visitata a più riprese, in ottemperanza alla stesura di questa mia tesi, ho riscontrato un certo afflusso di gruppi di giovani e giovanissimi che, insperatamente, sembravano subire una sorta di richiamo ‘antropologico’ nell’arte di Basquiat che, elevato a protagonista della scena pubblica, al pari di un idolo ‘rapper’ o di ‘parkour’, s’infervoravano nei commenti (lazzi e risa) ed eccitazioni da rave tribale, come per un possibile ritorno alle origini.

Divagazione a parte, Basquiat, ha richiamato attorno a sé uno stuolo di ragazzi e ragazze in cerca di un qualche riconoscimento personale, sebbene influenzato da dinamiche di ‘gruppo di coesione sociale’ (*) e fattori di facile divulgazione, grazie anche al lavoro talvolta fuorviante dei mass-media conseguentemente elaborata: “Secondo alcune teorie relative alla ‘Social cognition’ – infatti – esistono varie motivazioni in base alle quali si percepisce la propria appartenenza ad un gruppo. (..) Non si intende necessariamente la somiglianza fisica, ma affinità di pensiero, interesse e stile di vita che equivalgono ad appartenere ad un gruppo anche quando non c’è somiglianza nelle idee o nei bisogni, ma con motivazione per lo più inconscia di identificazione all’altro”. (*)

Tale forma di ‘riconoscimento’, secondo una nota teoria sviluppata da Mario Manfredi (*), è determinata da fattori non esclusivamente emotivi che portano alla coesione, al di là di voler essere una ricerca del significato della vita intesa come recupero dell’immaginazione mitica, tende a creare una sorta di ‘mitologia personale’ che, a lungo andare, influenza la coscienza di noi moderni. E questo perché gli individui si comportano in modo diverso in situazioni analoghe a causa delle proprie diversità, ma che tuttavia attuano comportamenti che sono complementari gli uni agli altri secondo un modello elaborato e complesso, la cui comprensione, scrive Jo Brunas-Wagstaff (*): “...non può prescindere dai contributi della psicologia cognitiva e della psicologia sociale” (delle quali, per ovvie ragioni, non ci occuperemo in questa sede).

Puntiamo invece su Basquiat come ‘esempio di omologazione dell’interiorità conoscitiva’ per cui “essere riconosciuto” è per lui sinonimo di quel ‘successo’ che desidera fortemente e che sappiamo, determinato per un possibile riscatto di se stesso. Da cui si evince la presenza di un problema non più riservato che lo ha portato a una crescente consapevolezza della propria esistenza e dei molteplici ruoli che lo porteranno a misurarsi con le diverse discipline artistiche cui rivolgerà i suoi interessi: dai graffiti metropolitani, all’entusiasmo per la pittura, all’esaltazione ‘rave’ della musica, allo ‘sballo’ del cinema e tant’altro. Per cui ‘essere riconosciuto’ accresce il proprio status sociale, cui si contrappone la patologia di ‘misconosciuto’, che apre la porta a patologie di negazione e di conflitto.

Ma c’è un’altro aspetto nell’opera e nella vita di Basquiat che non abbiamo ancora analizzato, o meglio, dovrei dire, osservato da vicino, ed è il suo rapporto con la musica. E subito sorge una domanda alla quale mi è possibile dare solo una risposta circoscritta a quello che si rintraccia nelle sue opere pittoriche. Per il resto non conosco Basquiat nei panni di musicista, ma solo quello del ragazzo ‘nero’ che abbiamo visto tante volte al cinema e alla TV, che gira per la strada con a tracollo un grande stereo tenuto ad alto volume, che sembra portasse sempre con sé e che teneva acceso mentre ‘lavorava’ alle sue opere.
Ma come vive Basquiat la musica? Apparentemente come un ‘luogo’ dove abitare la notte insieme ai suoi ‘fantasmi’, vissuto come una zona franca, libera da regole, dai ritmi diurni: “...come uno spazio fisico e mentale sottraibile alle cadenze e alle norme imposte da modelli di organizzazione sociale, uno spazio finalmente di libertà dove - egli - può temporaneamente svestirsi dei ruoli sociali, per indossare gli abiti dell’evasione e le maschere del gioco”. (*) Molte sono le opere, eseguite con la tecnica dello ‘spray-paint’ oppure con colori ‘oil-paintstick’ su ‘metal panel’, che Basquiat dedica alla musica, ai suoi “grandi” favoriti del Jazz e non solo, come: “Blue Gyp Stock” (*), acrylic, oil paintstick e collage on canvas, dove è indicativo l’anagramma del titolo dove “Gyp Stock”, è l’equivalente di un nome dato dagli zingari a una squadra di baseball, e “Blue chip stock” erano i fondi capitalistici che ricordano il crack degli anni ’30.
Interessante è analizzare le parti che compongono quest’opera in cui la tela ha una superficie quasi completamente bianca, con in alto sette volti bianchi con la scritta “testimoni”. Al centro un unico viso e tronco di una persona di colore, con sopra la scritta “Negro”, con in testa un cappellino da baseball. Di fronte delle note escono da uno strumento, una cassa di sintetizzatore , forse, con la scritta “frustation”, cancellata. A sinistra un accalappiacani bianco con la rete, a destra un battitore bianco che al massimo della gioia colpisce una palla. Poi però la freccia rossa trasforma la mazza in un bastone che picchia un cane madido di sudore, che cerca inutilmente la fuga. Il nero, proprio come il cane , è in trappola tra battitore e ricevitore, in un mondo dominato da bianchi. Forse la musica è la sua unica via di salvezza. A ben guardare si vede però che lo strumento potrebbe in realtà essere un utensile meccanico, una sega, forse simbolo dello sfruttamento delle minoranze, ma il manico assomiglia molto all’impugnatura di una pistola. Che sia un incitamento alla rivolta?

“Non so come descrivere il mio lavoro, perché non è mai la stessa cosa, sarebbe come chiedere a Miles Davis: com’è il suono della tua tromba?”, ha detto una volta Basquiat intervistato in occasione di una sua mostra. Pur tuttavia, la scelta di interpreti e strumentisti tutti rigorosamente ‘di colore’, la dice lunga sul proprio “orgoglio nero” e il suo “amore per la musica”. “Hornplayers” (*) del 1983, acrylic and oil paintstick on three canvas panels, e “Charles the first” (*) del ..... è un omaggio a Charlie Parker dove ‘ornitology’ fa riferimento a una sua composizione dal titolo ‘ear e alchemy’, con preciso richiamo alle qualità di ‘fusione’ e ‘improvvisazione’ tipiche della musica jazz. Sulla tela si trova inoltre il nome di un altro musicista straordinario: Dizzy Gillespie,
Molte altre opere sono dedicate alla musica o ai musicisti neri: “King of the Zulus” del 1986, è dedicato invece a Loius Amstrong; “Zydeco” del 1984, si rifà invece a un genere musicale dei francofoni della Lousiana, dove si suona la fisarmonica: fusione di rhytm’n blues, rock’n’roll, valzer, musica caraibica cantata sia in inglese che in francese. "Jimmy Best” (*) del 1981, che rappresenta il suo momento di passaggio dall'esperienza di graffitista a quella di pittore, è costituito da una frase che emblematicamente recita: "Jimmy Best sulla sua schiena per i colpi bassi presi nella sua infanzia” o, in un’altra traduzione, “Jimmy mandato a tappeto da un pugno imprevisto dei suoi ricordi d’infanzia”, e dedicato ad un giovane pugile di colore segnato per sempre dall’esperienza del riformatorio.
Una volta, Renè Ricard critico d’arte, commentò così questo dipinto: "Come può dirti chiunque abbia passato un po' di tempo nel penitenziario di Rivehead, gli uomini neri e latini più alti forti, ambiziosi e intelligenti vengono sistematicamente demotivati e discreditati. Jimmy non potrà mai dimenticare la sua incarcerazione come giovane delinquente, né la sua vita distrutta dal sistema carcerario. Questa è l'esperienza che l'uomo di colore fa della giustizia bianca". Ben venga dunque, anche la musica, attraverso la quale Basquiat da sfogo a una diversa maschera di sé, perché la musica ignora la separazione tra soggetto e oggetto (forse anche quella tra individuo solista e gruppo), e si rapporta direttamente col corpo che, si fa “immagine” ancor prima dell’essere suscitata dalla “parola” e, a ritroso, “suono”, che viene prima dell’immagine e che utilizza il linguaggio evocativo delle sonorità per ‘comunicare’ (ancora una volta ritorna) sensazioni ed emozioni. La musica non racconta storie, non propone percorsi narrativi da seguire, alla sollecitazione degli allucinogeni si muove sulle onde della ‘visual-art’, della ‘electronic-art’, come un diverso modo di vedere e di rappresentare. È libera di diffondersi nell’aria come i pensieri, fa presa sul flusso sonoro delle preoccupazioni e le cancella, in brevi frammenti musicali senza inizio né fine, ripetuti indistintamente all’infinito, consumati nel presente senza lasciare nulla al dopo.


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