Il cammino è una ferita che non si chiude mai
di Mario Meléndez
(traduzione dallo spagnolo di Gianni Darconza)
Camminiamo sempre in compagnia della nostra ombra / la nostra ombra / che ci fa largo tra le foglie secche / e gira l’angolo prima di noi. (C. M.)
Ho sempre sostenuto che quanti più immaginari conosciamo, maggiori possibilità avremo nel momento di accostarci al processo creativo. E questo aspetto si nota perfettamente quando ci addentriamo nella poesia di Cinzia Marulli. La sua crescente inquietudine nel percepire altre estetiche, nell’avvicinarsi ad altre coordinate tanto distanti dal suo raggio d’azione, è risultata funzionale nella sua evoluzione poetica, permettendole inoltre di generare un nesso vitale con autori e proposte di grande interesse nell’attualità.
Questa seconda raccolta di poesie intitolata Percorsi si presenta come un’opera di maggior riflessione e maturità. Si pone come parte di una tradizione. Ma dialoga anche con altri riti e altre età. Fonti così diverse che vanno dalla poesia cinese a quella ispanoamericana, passando per un’infinità di temi e argomenti, fino a sfociare alla fine in quella via traversa interiore dove il silenzio accumula la sua lanugine o tesse reti di assenza.
Ma è indubbiamente il viaggio il leitmotiv attorno al quale si articola l’impalcatura di quest’opera, l’asse verso cui probabilmente i suoi affluenti più diretti, il senso dell’esistenza, la memoria, l’aspetto sociale e la morte, convergono in modo inevitabile:
a) Il senso dell’esistenza che trasmigra in infinite domande che alla fine non hanno bisogno di risposte perché, come sottolinea l’autrice, “è sempre stato così / nella natura bivalente dell’uomo giocare al bene e al male. / E che la lotta sia infaticabile / per sormontare le vette e giacere stanchi / verso un paradiso che forse non ci sarà dato di vedere: / quello che conta è la speranza che motrice impulsa la vita”.
b) La memoria che fruga, riscatta e reca testimonianza di un tempo a cui vorremmo sempre ritornare perché, parafrasando Eliot, non siamo capaci di sopportare il peso della realtà e abbiamo bisogno di creare un mondo che ci faccia da rifugio, un territorio che ci mantenga al riparo dai cattivi presagi.
c) L’aspetto sociale che si sdoppia negli innumerevoli volti che deambulano in queste pagine. Volti che vagano senza meta come fantasmi che cercano segnali del cammino. Volti e paesaggi che fioriscono tra le rovine del proprio abbandono.
d) E la morte o la premonizione della morte. Ma non si tratta di una morte triste, a volte avviene nel pomeriggio in pieno sole con il vento che accarezza le ginocchia degli alberi o come direbbe Cinzia nel ricrearla in maniera toccante: “Se un giorno leggerete le mie poesie / un giorno quando sarò terra per i ceci / non pensate a me come a un corpo morto. // Pensatemi allegra in questa morte che non è nero”.
Il celebre critico Emir Rodríguez Monegal, parlando dell’impronta nerudiana, sosteneva che il poeta cileno era un viaggiatore immobile, nel senso che gli piaceva spostarsi senza uscire dalla sua dimora. Indubbiamente faceva riferimento al portentoso viaggio dell’immaginazione. Cinzia possiede questa virtù, ci rende partecipi di quel viaggio, ci tramuta in testimoni di quelle parole che parlano per altri, perché la sua esperienza, il suo dolore, la sua sensibilità è anche negli altri, in coloro che esistono nonostante tutto.
Sono quegli abissi e rivelazioni che vengono ricreati nella sua scrittura in modo mirabile e cercano di “riparare la ferita fondamentale, lo strappo, perché tutti siamo feriti”, come direbbe l’ineffabile Alejandra Pizarnik, o nelle parole di Eduardo Galeano “perché si dovrebbe scrivere se non per unire i propri pezzi”. Però scrivendo non ripara solo quella ferita fondamentale, non unisce soltanto i propri pezzi, ma anche la ferita e i pezzi degli altri, quelli che abitano nella sua poesia e le consegnano quella luce che trapassa le cuciture del reale.
Mario Meléndez
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El camino es una herida que no se cierra nunca
Camminiamo sempre in compagnia della nostra ombra / la nostra ombra / che ci fa largo tra le foglie secche / e gira l’angolo prima di noi. (C. M.)
Siempre he sostenido que mientras más imaginarios conozcamos, mayores posibilidades tendremos a la hora de abordar el proceso creativo. Y este rasgo se aplica perfectamente al adentrarnos en la poesía de Cinzia Marulli. Su creciente inquietud en percibir otras estéticas, de acercarse a otras coordenadas tan distantes de su radio de acción, ha resultado funcional en su desarrollo poético, permitiéndole, además, generar un nexo vital con autores y propuestas del mayor interés en la actualidad.
Este segundo poemario que lleva por título Percorsi se vislumbra como una obra más decantada y madura. Se asume como parte de una tradición. Pero también dialoga con otros ritos y edades. Fuentes tan diversas que van desde la poesía china a la hispanoamericana, pasando por una infinidad de temas y subtemas, hasta derivar finalmente en esa travesía interna donde el silencio amontona su pelusa o teje redes de ausencia.
Pero sin duda es el viaje el leitmotiv en torno al cual se articula el entramado de esta obra, el eje donde tal vez sus afluentes más directos, el sentido de la existencia, la memoria, lo social y la muerte, convergen de manera inevitable:
a) El sentido de la existencia que se trasmigra en infinitas preguntas que al final no necesitan respuestas porque, como enfatiza la autora, “è sempre stato così / nella natura bivalente dell’uomo giocare al bene e al male. / E che la lotta sia infaticabile / per sormontare le vette e giacere stanchi / verso un paradiso che forse non ci sarà dato di vedere: / quello che conta è la speranza che motrice impulsa la vita”.
b) La memoria que escarba, rescata y da testimonio de una tiempo al que siempre quisiéramos volver porque, parafraseando a Eliot, no somos capaces de soportar el peso de la realidad y necesitamos crear un mundo que nos sirva de refugio, un territorio que nos mantenga a salvo de los malos presagios.
c) Lo social que se desdobla en los incontables rostros que deambulan por estas páginas. Rostros que vagan sin rumbo como fantasmas que buscan señales de ruta. Rostros y paisajes que florecen entre las ruinas de su propio abandono.
d) Y la muerte o la premonición de su muerte. Pero no resulta una muerte triste, tal vez ocurre en una tarde a pleno sol con el viento acariciando las rodillas de los árboles o como diría Cinzia al recrearla de manera conmovedora: “Se un giorno leggerete le mie poesie / un giorno quando sarò terra per i ceci / non pensate a me come a un corpo morto. // Pensatemi allegra in questa morte che non è nero”.
El destacado crítico Emir Rodríguez Monegal, hablando de la impronta Nerudiana, sostenía que el poeta chileno era un viajero inmóvil, en el sentido que le gustaba desplazarse sin salir de su morada. Sin duda, hacía referencia al portentoso viaje de la imaginación. Cinzia tiene esa virtud, nos hace parte de esa travesía, nos convierte en testigos de esas palabras que hablan por otros, porque su experiencia, su dolor, su sensibilidad también está en los otros, en aquellos que existen a pesar de todo.
Son esos abismos y revelaciones que en su escritura se recrean de manera notable e intentan “reparar la herida fundamental, la desgarradura, porque todos estamos heridos”, como diría la inefable Alejandra Pizarnik, o en palabras de Eduardo Galeano “para qué escribe uno si no es para juntar sus pedazos”. Pero al escribir no solo repara esa herida fundamental, no solo junta sus propios pedazos, es la herida y los pedazos de los otros, los que habitan su poesía y le otorgan esa luz que traspasa las costuras de lo real.
Mario Meléndez