Pubblicato il 04/06/2024 18:13:13
Basquiat: Omologazione e riconoscimento sociale.
Nel solco di quanto fin qui affermato, viene da chiedersi se la rivelazione ‘artistica’ di Basquiat abbia avuto luogo nella tradizione o fuori della tradizione storicistica dell’arte? O se l’impatto dei mass-media con l’evolversi dell’arte contemporanea, può aver prodotto una sorta di ‘finzione’ mediatica, di cui Basquiat è soltanto un interlocutore più o meno pregiudicato. Ma queste non sono che domande cui si sta ancora cercando di dare delle risposte concrete. Seppure – come già ho avuto modo di esprimere – sia convinta del fatto che l’arte contemporanea possa essere frutto della ‘futilità’ di un ‘presente storico’, provvisorio e deteriorato che noi tutti stiamo vivendo e, al quale, comunque, sto cercando di dare un senso. Le sale espositive, i grandi spazi semivuoti della Mostra di Roma – rammento – non facevano che aumentare in me sensazioni contrastanti che, solo dopo attenta riflessione, mi hanno fatto chiedere se si trattava di ‘finzione’. Qui nel senso più esteso di ‘dubbio’ che, quelle ‘figurazioni’, che pure avevo di fronte, e le molte altre ‘immagini ’ che le sue opere suscitavano in me, non fossero autentiche, bensì simulazioni tuttavia non vere. Cioè allucinazioni dovute a quella sorta di ‘immaginario’ cui Basquiat faceva spesso riferimento durante la sua costante esposizione alla droga, almeno stando al suo biografo più accreditato Phoebe Hoban (1), cui sembra l’artista facesse ricorso, e che eccitava la sua creatività. Indubbiamente la pressione che le sue opere esercitavano su di me, era la riprova che l’artista probabilmente doveva averle sentite sulla propria pelle, e verosimilmente si riflettevano nei suoi dipinti al pari di una proiezione ‘olistica’ (2) della realtà. È come se egli avesse voluto far sparire il mondo, o almeno quel mondo riduttivo che lui interpretava, in quello che era il ‘testo’ delle sue opere, in contrapposizione alla concretezza della realtà, dura perché amara, che si trovava a vivere. Non mi è però capitato di trovare nelle sue opere quella ‘spiritualità’ che è alla base della funzione creativa dell’arte, cui gran parte degli artisti spesso fanno riferimento, anche se non lo ammetterebbero mai. Come pure non mi è sembrato vi fosse la trattazione di un’idea particolarmente geniale; piuttosto la tensione idealizzata di un’artista votato all’arte per l’arte. Ciò che più saltava all’occhio, era l’utilizzo di ‘stereotipi’ presi qua e là che, in qualche modo, raccontavano il mutare emotivo della sua sensibilità nella scelta dei colori e nelle forme. Ancora oggi, di fronte alle sue opere, mi trovo a condividere su Basquiat la stessa idea di quanti hanno tessuto il suo profilo artistico e che, paradossalmente, lo pongono al di fuori degli schemi dell’arte. Affermazione scaturita dalla dedizione che Basquiat riservava a quella libertà priva di vincoli oggettivi specifica dell’ “arte contemporanea” in cui si trovò ad operare, e che dagli ormai lontani anni ’50/’60 è poi arrivata a noi, attraverso la teorizzazione e la sistematizzazione di un possibile ritorno alla manualità, alla materia e al colore. Infine contestualizzata come una delle correnti del ‘postmodernismo’ (3), e ascrivibile a quel passato che proprio con Basquiat, sembrava avviato a “concludersi con uno scacco matto per chi ha aperto la partita”. Da questo punto di vista, nel quadro convenzionale in cui Basquiat si attesta, hanno ben voglia i critici e gli estimatori d’arte a sproloquiarsi sul “assomiglia a questo o a quello...” o che ha “raccolto l’eredita di...”, quando al contrario, egli dimostra con tenacia, che non c’è partita che si giochi, o si possa dire giocata. Ciò, per il semplice fatto che egli, non essendo artista sedimentato nelle spire dell’arte, fuoriesce dal discorso prettamente ontologico da impedire qualsiasi sua classificazione, e l’unico rapporto oggettivo in cui è possibile inserirlo è quello dell’intuizione (geniale o meno), e comunque, esclusiva manifestazione del presente. Dacché possiamo intuire come in tutto ciò giochino un ruolo importante non soltanto le opere esposte, ma anche lo stato emotivo di chi le osserva. Usando un’espressione metaforica di Umberto Galimberti (4), possiamo interpretare le sue opere come connubio di “sentimento nel sentimento”, e non sconsolato abbandono; bensì forza: “... La forza d’essere se stessi al di là di tutte le convenienze, di tutti i calcoli, di tutte le opportunità”. Ed ovviamente, applicabile all’autore delle opere esposte quanto a chi le osserva emotivamente, scomponendo e anatomizzando i colori, i segni e le forme, di cui l’artista nel suo operare inconsciamente emotivo, talvolta sembra non rendersi conto. Nella sua “teoria delle emozioni”, Keith Oatley (5), associa l’emotività a un avvenimento causato dal mondo esterno che, grazie alla percezione riusciamo a comprendere e risalire così, alla causa che l’ha prodotto. Cioè di tutto quanto contribuisce all’ ‘autoaffermazione’ (6) rispetto agli altri, quindi anche rispetto alle cose, alla luce, ai colori, al tempo meteorologico che interagiscono e s’influenzano a vicenda, conseguentemente a un’esperienza emotiva ambiguamente conflittuale. Ma se le emozioni rappresentano una realtà complessa e in gran parte ancora misteriosa, l’essere critici, o acritici, è sempre un’esperienza soggettiva che assume valenza se la si esplicita (o non) mettendola in relazione con gli ‘altri’, i quali, interagiscono con la nostra emotività, attraverso le suggestioni e i sentimenti che siamo stati in grado di suggerire loro. In ogni caso c’è una spinta che deriva dalla conoscenza, precipua del sapere, che se proficuamente usata ci permette di ottenere risultati congrui alle nostre e alle altrui aspettative. Altrimenti viene da chiedersi perché visitare una mostra d’arte contemporanea, pittorica, cinematografica o avveniristica che sia? Devo ammettere che in occasione della Mostra su Basquiat alla Fondazione Memmo, da me visitata a più riprese durante la stesura di questa mia tesi, ho riscontrato un certo afflusso di gruppi di giovani e giovanissimi che, insperatamente, sembravano subire una sorta di richiamo ‘antropologico’ proveniente a loro dall’arte di Basquiat, improvvisamente elevato a protagonista della scena pubblica, al pari di un idolo ‘rapper’ o della ‘break dance’, e che s’infervoravano nei commenti, oltre ai lazzi e alle risa, ad eccitazioni da ‘rave’ tribale, come per un possibile ritorno alle origini. Divagazioni a parte, Basquiat – secondo me – ha richiamato attorno a sé uno stuolo di ragazzi e ragazze indubbiamente alla ricerca di un qualche riconoscimento personale, suggerito loro da dinamiche di ‘gruppo di coesione sociale’ (7) e altri fattori di facile divulgazione, per lo più dovuti al lavoro, talvolta fuorviante, dei mass-media conseguentemente elaborati: “Secondo alcune teorie relative alla ‘Social cognition’ (8) – infatti – esistono varie motivazioni in base alle quali si percepisce la propria appartenenza ad un gruppo. (..) Non si intende necessariamente la somiglianza fisica, ma affinità di pensiero, interesse e stile di vita che equivalgono ad appartenere ad un gruppo anche quando non c’è somiglianza nelle idee o nei bisogni, ma con motivazione per lo più inconscia di identificazione all’altro”. Tale forma di ‘riconoscimento’, secondo una teoria sviluppata da Mario Manfredi (9), è determinata da fattori non esclusivamente emotivi che portano alla coesione. Al di là di voler essere una ricerca del significato della vita intesa come recupero di quella che è stata individuata come ‘immaginazione mitica’ (10), tendente a creare una sorta di ‘mitologia personale’ che, a lungo andare, influenza la coscienza. E questo perché “...gli individui si comportano in modo diverso in situazioni analoghe a causa delle proprie diversità, ma che tuttavia attuano comportamenti che sono complementari gli uni agli altri, secondo un modello elaborato e complesso” (11). Puntiamo invece su Basquiat come ‘esempio di omologazione dell’interiorità conoscitiva’ per cui “essere riconosciuto” è per lui sinonimo di quel ‘successo’ che desidera fortemente e che sappiamo, determinato al riscatto di se stesso davanti alla società. Da cui si evince la presenza di un problema non più riservato che lo ha portato a una crescente consapevolezza della propria esistenza e dei molteplici ruoli che lo hanno visto misurarsi con le diverse discipline artistiche cui lo hanno portato i suoi interessi: dai ‘graffiti’ metropolitani, all’entusiasmo per la pittura, all’esaltazione ‘rave’ della musica, allo ‘sballo’ del cinema e tant’altro, per cui nell’‘essere riconosciuto’ accresceva il proprio ‘status sociale’. Ma c’è un’altro aspetto nell’opera e nella vita di Basquiat che non è stato ancora analizzato, o meglio dovrei dire, osservato da vicino, ed è il suo rapporto con la musica. E subito sorge una domanda alla quale mi è possibile dare solo una risposta circoscritta a quello che si rintraccia nelle sue opere pittoriche. Per il resto non conosco Basquiat nei panni di musicista, ma solo quello del ragazzo ‘nero’ che abbiamo visto al cinema e alla TV, che gira per la strada con a tracolla un grande stereo tenuto ad alto volume che sembra portare sempre con sé, e che tiene acceso mentre ‘lavora’ alle sue opere. Ma come vive Basquiat la musica? Apparentemente come un ‘luogo’ dove abitare la notte insieme ai suoi ‘fantasmi’, vissuto come una zona franca, libera da regole, dai ritmi diurni: “...come uno spazio fisico e mentale sottraibile alle cadenze e alle norme imposte da modelli di organizzazione sociale, uno spazio finalmente di libertà dove - egli - può temporaneamente svestirsi dei ruoli sociali, per indossare gli abiti dell’evasione e le maschere del gioco” (12). Molte sono le opere, eseguite con la tecnica dello ‘spray-paint’ oppure con colori ‘oil-paintstick’ su ‘metal panel’, che Basquiat dedica alla musica, ai suoi “grandi” favoriti del Jazz e non solo, come: “Blue Gyp Stock” del ....., misto di acrilico, olio e collage su tela, dove è indicativo l’anagramma del titolo, in cui “Gyp Stock”, è l’equivalente di un nome dato dagli Rom zingari a una squadra di baseball, e “Blue chip stock” erano i fondi capitalistici che ricordano il crack degli anni ’30. Interessante è analizzare le parti che compongono quest’opera in cui la tela ha una superficie quasi completamente bianca, presenta in alto sette volti bianchi con la scritta ‘testimoni’. Al centro, un volto e il tronco di una persona di colore, con sopra la scritta “Negro” con in testa un cappellino da baseball. Di fronte alcune note escono dalla cassa di un sintetizzatore con la scritta “frustration”, in parte cancellata. A sinistra un accalappiacani bianco con la rete, a destra un battitore bianco che al massimo della gioia colpisce una palla. Poi però la freccia rossa trasforma la mazza in un bastone che picchia un cane madido di sudore. Il ‘negro’, proprio come il cane, è in trappola tra battitore e ricevitore, cerca inutilmente la fuga in un mondo dominato dai ‘bianchi’. Lì dove forse la musica rappresenta la sua unica via di salvezza. A ben guardare però si nota che lo strumento potrebbe in realtà essere un utensile meccanico, una sega, forse simbolo dello sfruttamento delle minoranze, ma il manico assomiglia molto all’impugnatura di una pistola. Che sia un incitamento alla rivolta? “Non so come descrivere il mio lavoro, perché non è mai la stessa cosa, sarebbe come chiedere a Miles Davis: com’è il suono della tua tromba?”, ha detto una volta Basquiat intervistato in occasione di una sua mostra. Pur tuttavia, la scelta di interpreti e strumentisti tutti rigorosamente ‘di colore’, la dice lunga sul proprio “orgoglio nero” e il suo “amore per la musica”. “Horn-players” del 1983, su tre pannelli telati, e “Charles the first” del ..... vuole essere un omaggio a Charlie Parker dove ‘Ornitology’ fa riferimento a una sua composizione dal titolo ‘Ear and alchemy’, con preciso richiamo alle qualità di ‘fusione’ e ‘improvvisazione’ tipiche della musica jazz. Sulla tela si trova inoltre il nome di un altro musicista straordinario: Dizzy Gillespie. Molte altre opere sono dedicate alla musica o ai musicisti neri: “King of the Zulus” del 1986, è dedicato invece a Louis Amstrong; “Zydeco” del 1984, si rifà invece a un genere musicale dei francofoni della Louisiana, dove si suona la fisarmonica: fusione di ‘rhytm’n blues’, ‘rock’n’roll’, ‘valzer’, musica ‘caraibica’ cantata sia in inglese che in francese. "Jimmy Best” del 1981, rappresenta invece il suo momento di passaggio dall'esperienza di ‘graffitista’ a quella di pittore vero e proprio. L’opera è dedicata a un giovane pugile di colore segnato dall’esperienza del riformatorio. La tela contiene una frase emblematica che recita: "Jimmy Best sulla sua schiena per i colpi bassi presi nella sua infanzia” o, in un’altra traduzione, “Jimmy mandato a tappeto da un pugno imprevisto dei suoi ricordi d’infanzia”. Una volta Renè Ricard (13), noto critico d’arte di quegli anni, così commentò questo dipinto: "Come può dirti chiunque abbia passato un po' di tempo nel penitenziario di Rivehead, gli uomini neri e latini più alti forti, ambiziosi e intelligenti vengono sistematicamente demotivati e discreditati. Jimmy non potrà mai dimenticare la sua incarcerazione come giovane delinquente, né la sua vita distrutta dal sistema carcerario. Questa è l'esperienza che l'uomo di colore fa della giustizia bianca". Ben venga dunque, anche la musica, attraverso la quale Basquiat da sfogo a una diversa ‘maschera’ di sé, perché la musica ignora la separazione tra soggetto e oggetto (forse anche quella tra individuo solista e gruppo), e si rapporta direttamente col corpo che si fa “immagine” ancor prima dall’essere suscitata dalla “parola” e, a ritroso, “suono”, che viene prima dell’immagine e utilizza il linguaggio evocativo delle sonorità per ‘comunicare’ sensazioni ed emozioni. Per Basquiat la musica non racconta storie, non propone percorsi narrativi da seguire, alla sollecitazione degli allucinogeni si muove sulle onde della ‘visual-arts’ e dell’ ‘electronic-arts’ (14), come un diverso modo di vedere e di rappresentare. È libera di diffondersi nell’aria come i pensieri, fa presa sul flusso sonoro delle preoccupazioni e le cancella, in brevi frammenti musicali senza inizio né fine, ripetuti indistintamente all’infinito, consumati nel presente senza lasciare nulla al dopo.
(continua)
« indietro |
stampa |
invia ad un amico »
# 0 commenti: Leggi |
Commenta » |
commenta con il testo a fronte »
I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore Giorgio Mancinelli, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa può sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.
|