Pubblicato il 20/05/2024 06:21:51
BASQUIAT...ovvero la ‘vita’ come opera d’arte.
Introduzione /Prologo
Basquiat? Un incontro casuale con l’arte, come casuale era che quel giorno d’inizio ottobre mi trovassi a passare per Via del Corso a Roma, davanti alla Fondazione Memmo (1) viso a viso con un artista che non conoscevo. Una ‘maschera’ completamente ‘nera’ e per certi aspetti inquietante, capelli ‘rasta’ alla Bob Marley, taglio d’occhi obliqui alla Jimmy Hendrix che guardavano nel vuoto, come fossero in cerca di un supporto umano sul quale fermare lo sguardo. Ne fui letteralmente catturato. L’invito, che al dunque mi spinse ad entrare, recitava: “Basquiat: fantasmi da scacciare”, e sebbene, sul momento, non compresi se fossero ‘i miei’ o ‘i suoi’ fantasmi, entrai. Lo feci così, d’impulso, mentre riflettevo sul fatto che, in fondo, si trattava pur sempre di una mostra d’arte, e i fantasmi che vi avrei incontrato, dopo non mi avrebbero seguito per la strada e non si sarebbero insinuati nelle mie notti. Non che mi aspettassi di vedere una mostra d’arte figurativa, quanto di confrontarmi con i perché di un rifiuto che tutta l’arte cosiddetta ‘contemporanea’ da sempre esercita su di me, lasciandomi perplesso riguardo al ‘senso’ o al ‘messaggio’ che esprime, o meglio, che attraverso di essa, tanti straordinari artisti cercano di comunicare. Che siano i loro fantasmi ad aggirarsi per le gallerie e le mostre d’arte di tutto il mondo? Oppure dipende da me voler attraversare il presente con spirito imperturbabile davanti a tanta esposizione di creatività? E' innegabile che l’operato di certi artisti è condizione intrigante di un comunicare che, a loro modo, cercano di imporre all’attenzione di un pubblico più vasto, attraverso le rispettive tendenze, cosa che in questo Basquiat non fa alcuna eccezione. Spetta quindi a me, in qualità di osservatore curioso, rendermi disponibile a incontrare quell’artista che non conoscevo e che verosimilmente mi invitava ad entrare. In fondo, perché non conoscerlo di persona, cercando, in qualche modo, di comprendere quello che ha di tanto originale da comunicare, visto che gli hanno dedicato una mostra tutta sua, e che – addirittura – si propone come una “retrospettiva di grande interesse per la cultura nera metropolitana e per la storia afro-americana”? Chi è Basquiat? – mi sono chiesto e ancora oggi mi chiedo davanti alle sue opere – oltre ad essere: “uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano che, insieme a Keith Haring, è riuscito a portare quel movimento dalle strade metropolitane alle gallerie d’arte”, stando almeno a quanto scrive Olivier Berggruen (2) nella introduzione al ‘Catalogo della Mostra’ che sfoglio mentre mi approccio ad entrare. Perché è diventato improvvisamente così ‘importante’ da promuovere collaborazioni di prestatori internazionali e collezionisti, per mostre itineranti che dall’America raggiungono l’Europa e il Giappone e chissà quali altri continenti? Voglio capire che cosa c’è dietro a tutto questo che ancora sfugge alla mia comprensione dilettantesca, quando si dice: “Basquiat deve essere valutato e capito attraverso le sue opere, che racchiudono tutta la forza, le sue inquietudini, la sua visione del mondo e rappresentano un eccellente strumento per avvicinarsi alla conoscenza dell’essere umano e, non in ultimo, per comprendere la vita”? (3). Quando si pretende da me uno sforzo per collocarlo dentro questa o quella esperienza dell’arte, oppure fuori da ogni convenzionale tendenza? Una ipotesi non trascurabile questa, che lascia intravedere una certa possibilità di indagine su come il pubblico oggi si relaziona con l’arte contemporanea. E questo di là del fatto che, ‘prima’ e ‘dopo’ Basquiat, ci sia stato qualcosa, o forse qualcuno, che quest’arte ce l’ha fatta amare nella sua pur diversa espressione. E mi riferisco a un certo "fare arte" innovativa, sebbene siano in molti i critici che oggi la tacciono di ’eccedenza’ e conseguentemente come ‘non necessaria’. Che Basquiat risponda a un’esigenza esclusivamente di mercato? – il dubbio è lecito, almeno per quanto c’è di controverso in tutta l’arte contemporanea e alle strepitose battute all’asta delle sue opere. Un controsenso, se vogliamo, che si aggira tra i ‘fantasmi’ dell’arte degli anni in cui Basquiat lavora freneticamente. Se si dice che l’arte sopravviva all’artista che l’ha prodotta, di contro, l’arte deve avere necessariamente una qualche valenza fintanto che non è superata, dopodiché il ‘genio’ rimane tale se è stato in grado di trasmettere ‘emotivamente’ ciò che era il contenuto della sua ispirazione. All’opposto di questa affermazione Basquiat è riconoscibile per la sua capacità di realizzazione, di esecuzione ed evoluzione all’interno di una determinata espressione che lo contraddistingue, ma che non necessariamente lo trasforma in talento creativo, pur riconoscendogliene le potenzialità. Più interessante – a mio avviso – è l’approfondimento, rilevato nel suddetto catalogo, degli aspetti relativi all’ ‘antropologia culturale’ (4) e al ‘relativismo culturale’ (5) consoni a dare a Basquiat maggiore spessore e profondità artistica, lì dove egli va alla ricerca di quella identità referenziale che in seguito ne ha decretato la sua forma espressiva. A fronte di questa mia ‘personale’ esposizione, rilevo invece e con un certo interesse, che il ‘fantasma’ Basquiat non nasce dal nulla. Davanti ai suo lavori ammetto di provare la ‘sensazione’ di un artista che, si muove in un ‘labirinto’ mille volte percorso, fino a divenire per lui ‘autoriferimento’ (6), denuncia sociale, ‘auto-riduzionismo’ (7) che lo vede riappropriarsi dei segni e dei simboli connessi alla naturale espressività delle ‘origini’ cosiddetta del ‘multiculturalismo’ (8). Si rende qui necessario il riferimento all’aspetto antropologico di un’arte che ricorda molto da vicino quella dei popoli cosiddetti ‘primitivi’ (9). Ancor più di quegli aspetti della ‘produzione artistica’ che, ad un certo momento dell’evoluzione umana, abbiamo messo in disparte perché legata a ‘culti animisti’ (10) di provenienze diverse: dall’Africa all’America Centrale, dall’India all’Estremo Oriente. Culti questi, in cui si tende a considerare ogni cosa della natura come sede di un principio vitale (anima); nonché alla conseguente credenza negli spiriti ancestrali, ‘esseri’ superiori all’uomo che, in qualche modo, ne condizionano l’esistenza, ai quali pure si deve la grande produzione di ‘maschere’ (11), spesso orrende, legate al misticismo religioso e a riti oscuri che per ragioni inerenti questa tesi, è solo possibile citare ma che non è lecito approfondire. Il riferimento tuttavia non è casuale, e certi ‘fantasmi’ che vagavano sciolti, e che incontro nelle opere in Mostra a Roma, sì da poter anche essere autentici, se visti nell’ottica artistica di Basquiat che, pur non essendo vissuto in certi luoghi, mi è sembrato ‘viverli’ o forse ‘riviverli’ a livello inconscio, vuoi per il "colore della sua pelle" nera, vuoi per quella sorta di ‘imprinting’ (12), non necessariamente inconscio, a cui la sua discendenza vissuta con orgoglio – e voglio sperare che sia così – lo ha relegato. Un altro aspetto che invero mi ha fatto apprezzare le sue opere è un certo segno ‘calligrafico’ che le distingue da altre, prima ancora del ‘graffitaro’ che si vuole sia il suo peculiare contrassegno. E qui mi riferisco alle pezzature di colore che fanno da sfondo ai suoi numerosi ‘messaggi graffiti’ a margine di alcuni quadri, le scritte fumettistiche, le maschere ‘naif’ e i mascheramenti tipici della ‘tribal-art’ (13), la reinterpretazione pubblicitaria, le contaminazioni della ‘visual-art’ (14), e i ‘tag & crew’ (15) della computeristica, tutto efficacemente espressivo. Meno interessante ho trovato invece l’utilizzo che Basquiat fa della ‘tecnica mista’ di mettere assieme ritagli di giornali, frammenti di fotografie e altri oggetti di rinvenimento, che sono alla base del ‘collage’ (16) – si pensi alle straordinarie applicazioni che ne hanno fatto Georges Braque e Pablo Picasso all'inizio del XX secolo – quando questa tecnica divenne parte distintiva dell'arte moderna. A mio parere – e di questo sono più che mai convinto – in Basquiat credo abbia giocato un ruolo decisivo, vivere l’esperienza dell’artista di strada, quel vivere ‘on the road’, con le sue nefandezze giovanili, sfidando una città come la New York degli anni ’80 e i rischi che comportava. Il forte richiamo del ‘successo per il successo’ che ha fruttato a Basquiat quella parziale ricchezza che sperperava a piene mani; il suo giocare in diversi ruoli sociali, che lo hanno portato alla ribalta dell’arte; per non dire della sua tragica fine, pur non avendo egli mai rinunciato a quella “libertà di essere se stesso”, con il medesimo disincanto di qualsiasi artista provato. Non in ultimo, il suo rifarsi costante alla musica. Sono noti certi suoi nepotismi musicali, a cominciare da Louis Armstrong in poi, quando rompe con la tradizione per abbracciare il ‘Be-bop’ di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, e l’avanguardia ‘Jazz’ di Miles Davis e John Coltrane. Così come, successivamente, maturerà un’infatuazione per la musica ‘Reggae’ di Bob Marley, il ‘Rock’ sofisticato di Jimmy Hendrix o quello edonistico di David Bowie, e comunque tutti artisti di grande pregio che, in qualche modo, hanno contrassegnato la ‘musica contemporanea’. Ma al di là delle critiche che è pleonastico sollevare, ciò che mi ha portato a formalizzare la mia tesi sul personaggio Basquiat, è stato indubbiamente l’aspetto socio-psicologico dell’artista e il poter avvicinarmi, il più possibile, a quella ‘conoscenza’ che Olivier Berggruen abilmente auspica, nelle pagine del citato Catalogo delle sue opere, alla cui frase mi sento di aggiungere: “per comprendere infine, in quale ‘abisso’ o ‘sommità’ l’arte intende ancora condurci”. Quanto fin qui approntato o, che mi sono dubbiosamente domandato, vuole essere solo un punto di partenza per questa mia ricerca sul-campo nell’ordine di mostre, cataloghi, articoli di giornali, opuscoli, opinioni e valutazioni critiche, ecc. che sono riuscita a raccogliere, attraverso la quale, intendo qui rispondere alla domanda iniziale: “Chi è Basquiat?”, il che implica la sua partecipazione, al pari di tutti noi, di quella che parafrasando Zygmunt Bauman, possiamo definire, la ‘paura liquida’ di una "società sotto assedio" in cui ormai, chi più chi meno, ci sentiamo tutti prigionieri. Davvero l’arte contemporanea rispecchia tutto questo, oppure Basquiat ci sta comunicando qualcosa di diverso che va ‘oltre’ questa paura spesso inconfessata? È quanto mi propongo di scoprire de-visu, andando alla ricerca di un artista ‘inconsueto’ che ho appena incontrato, aggirandomi nelle sale espositive di questa e altre mostre che spero di poter visitare lungo il cammino. Per ora lancio un ‘ciao!’ a Basquiat con la consapevolezza che si tratta di un: ‘arrivederci ad un nostro prossimo incontro!’. In fondo, le ore passate in compagnia dei ‘tuoi fantasmi’ sono state preziose nel farmi conoscere la “cifra” della tua arte e comprendere l’importanza riposta nel tuo ‘vivere per un’idea’, in opposizione o col consenso degli altri che più non importa, e davvero spero di non liberarmene mai. Come del resto anche tu hai sempre fatto. Non è forse così Basquiat?
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