IL CIBO DEL POETA : PETER RUSSELL
Se partiamo dal presupposto che le due arti, la cucina e la poesia, sono il risultato di un pensiero elaborato che ha funzione emotiva e che il loro obiettivo è stimolare sensazioni di piacere e godimento della cosa comunicata, possiamo con tranquillità abbracciare e fare nostro l’assunto, anche se abusato, che la cucina sia nutrimento del corpo e la poesia dell’anima.
Ma come si compenetrano le caratteristiche nutrizionali delle due arti e in che modo s’ interfacciano? La poesia per essere completa non basta dell’ispirazione o dell’afflato emotivo, ha bisogno di regole per essere eseguita e così non basta l’idea combinatoria degli alimenti per fare cucina, ma è importante conoscere quelle regole di procedura necessarie perché il risultato sia soddisfacente, per raggiungere quello che Goodman definisce “l’ottenimento di un piacere estetico e sensoriale”.[1]
Insomma sia la poesia che la cucina devono rispondere ad una grammatica che le governa perché possano comunicare l’una emozione e l’altra gusto.
In ogni caso, da sempre le due arti si sostengono nel momento in cui diventano pubbliche e cioè quando vengono “servite”.
Il cibo preparato trova la sua esternazione e finalizzazione nel momento in cui è servito, gustato, assorbito e giudicato.
Altrettanto la poesia raggiunge la sensibilità degli altri al di fuori del poeta quando viene esternata nella scrittura o nella recitazione.
La capacità dell’elemento cibo al di là della sua precipua funzionalità nutritiva di produrre piacere, soddisfazione sensoriale, partecipa e si aggiunge a tutte le altre manifestazioni naturali capaci di stimolare un’espressione poetica.
Ecco quindi la natura che lega il poeta a tutto ciò che definisce e costruisce il cibo e quindi alla cucina.
Il contatto del poeta con tutto quello che riguarda il cibo è antico, ed è espresso in quasi tutte le tematiche che riguardano le categorie poetiche.
Egli dà voce e liricità agli alimenti e da sempre li usa per esprimere satira, amore, denuncia; dà voce, attraverso la poesia, all’arte combinatoria della cucina e al suo autore, il cuoco, ma anche al territorio che quegli alimenti produce e dai quali spesso ne è caratterizzato; così Properzio nelle Nostalgie[2] fa dire all’etrusco, caratterizzandone la provenienza, “Che dire poi – ciò che mi procura grandissima fama - dei doni dell’orto che divengono preziosi nelle mie mani? L’anguria verdastra e la zucca dal ventre rigonfio diffondono il mio nome…”
Come pure è il luogo cucina che diventa all’occhio del poeta trasfigurazione del grembo materno, fonte di vita e nutrizione espresso, quasi sempre, nella poetica di tutti i tempi attraverso la figura di una donna madre o nonna che in quell’ambiente si muove ed esercita il potere magico di creare ed elargire nutrimento.
Così Umberto Saba ricorda nella Cucina la madre che al focolare stimola con il soffietto lo scaturire delle faville del fuoco necessario a cucinare le provviste che “antica donna” versa sul tavolo di cucina.
Per lungo tempo è stata la poesia di poeti comici come Crisippo, Demetrio Archestrato della summa antologica dei Deipnosofisti di Ateneo, e poi Petronio, Marziale, Ovidio per ricordare alcuni tra i grandi autori latini e Apicio su tutti, a fissare la cultura gastronomica del passato diventando la principale fonte storica di questa materia.
Ma il poeta continua a fare poesia con l’occhio rivolto al cibo e per il cibo in tutte le epoche, per personale predisposizione o perché da esso trae spunto per comunicare una sensazione.
Così in Poesie scelte di Seamus Heaney le Ostriche “Vive e violate giacevano su letti di ghiaccio…”.
Mentre Guido Gozzano, nella poesia Golose, è innamorato “… di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie…”
Alcimo, nella poesia amorosa I doni di Lesbia, [3]davanti al gusto della mela inviatagli in dono dall’innamorata sente che “…sbiadisce ogni altro frutto” la cotogna, la castagna, le noci, le prugne, addirittura “…raccapriccia la mora col suo malaugurato succo sanguigno per colpa di un amore funesto…”.
I frutti, come pure tutti gli alimenti che provengono dalla natura, hanno una posizione privilegiata nella tematica poetica di genere in quanto allo stato naturale e quindi mediatori del rapporto uomo natura.
Così Pablo Neruda riesce a sistemare, nelle sue Odi Elementari, un percorso magico attraverso il quale i sapori e gli aromi della frutta e degli ortaggi più comuni alla cucina quotidiana si trasformano con la liricità dei suoi versi in allegorie che esaltano gli affetti e l’amore mettendo “de acuerdo con el ombre y con la tierra,”[4] come dice lo stesso Neruda, e creano la sintesi più completa di quella combinazione cibo - poesia nutrimento per il corpo e per l'anima.
Ora, come per la poesia che nasce dalla recitazione e dal canto anche la cucina, in quanto trasformazione di elementi semplici in un elaborato cibo, ha perso da tempo la tradizione orale come canale di trasmissione e conoscenza ed ha bisogno, così come la poesia, di essere fissata dalla scrittura per essere conosciuta e divulgata e soprattutto riprodotta.
Consapevoli della funzione comunicativa nel loro genere delle due arti, quella poetica e quella gastronomica, e dell’importanza che arreca a livello di crescita culturale la contaminazione tra le due (ci sono svariate testimonianze soprattutto contemporanee di cuochi poeti e, anche se un po’ meno, di poeti cuochi), abbiamo pensato di dedicare queste riflessioni a Peter Russell, poeta inglese ma Toscano d’adozione per la sua residenza definitiva in Pian di Scò, paesino sulle colline aretine.
Peter Russell poeta è stato fondatore della rivista Marginalia, che Peter “confezionava in casa” per diffondere la sua poesia e la sua idea di poetica in soliloquio con il resto dell’altra poesia a lui contemporanea.
Siamo andati per questo a rovistare tra i nostri ricordi del Russell uomo e, poi nella sua produzione poetica, in cerca del gomitolo dal quale trarre il filo che servirà via, via, a svolgere quest’idea di poesia e cucina che in qualche modo gli si può attribuire.
Il rapporto di Peter con il cibo era di sopravvivenza, non ne aveva particolare attrazione, apprezzava un buon bicchiere di vino e gustava il più semplice dei cibi soprattutto il pane con l’olio o con un pezzetto di formaggio, essenziali per accompagnare le bevute.
In effetti, il suo cibo era fatto da quegli alimenti che formano la triade basilare dell’alimentazione più antica e codificante della civiltà mediterranea, espressa in modo eccellente nella cultura agricola e gastronomica della Toscana: pane, olio e vino.
Tre alimenti che continuano a mantenere nella coscienza dell’uomo moderno la loro singolarità di cibi rituali, doni degli dèi agli uomini e doni degli uomini agli dèi in nome di una millenaria riconoscenza che stigmatizza il legame indissolubile tra uomo e natura.
Peter, sentiva chiaramente quanto la sua condizione di vita fosse simile alle altre creature viventi al di fuori dell’uomo, e quanto importante fosse la generosità di dividere il cibo anche se il più povero solo per donare e non per procurarsi riconoscenze, così per amicizia.
Non a caso si accomuna ad un passero solitario, lo osserva, lo nutre con le briciole del pane che spesso gli viene donato, costruendo una catena di solidarietà che passa da uomo a uomo e da poeta a passerotto, e ferma questo rapporto speciale di sostentamento nella bella poesia che qui riportiamo.
Chiaramente il cibo di Peter non può essere che un “…un pasto frugale…” compendiato nella “fettunta all’aceto” che con la sua “anzianità” di cibo povero contadino conferma l’importanza senza tempo del pane, dell’olio e del vino nella nostra cultura alimentare.
[1] N. GOODMAN I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1991.
[2] PROPERZIO, IV, 2, 2-59
[4] Pablo Neruda, Ode al vino e altre odi elementari, Firenze, Passigli, 2002.
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