Un omaggio di Alessandro Ticozzi al regista Mario Monicelli
Il regista Mario Monicelli ha accompagnato la mia vita, spiegandomela, mentre la vivevo, quasi passo dopo passo, in qualità di testimone e narratore dei fatti e dei mutamenti sociali succedutisi in Italia dal secondo dopoguerra all’affermazione della tv commerciale.
Monicelli - questa è la ragione per cui l’ho sempre ammirato - ha saputo farlo, a differenza di altri, senza nessuna edulcorazione o abbellimento, essendo un “idealista senza illusioni”, come lo definì Pietro Germi. Qualcuno lo giudicò cinico, accusa dalla quale egli si difese dicendo che l’avere i piedi ben piantati per terra non è esattamente la stessa cosa.
Di fatto il pregio di questo grande regista, al quale Alessandro Ticozzi rende omaggio con questa pubblicazione, fu la sincerità con la quale distrusse i falsi miti: ideologici, religiosi, sociali, mettendo a nudo i meccanismi del potere e la loro influenza sugli atteggiamenti e le scelte dell’uomo medio.
Il titolo di questo lavoro: “Ci vorrebbe la rivoluzione” rimanda spesso alle dichiarazioni che il regista, ormai vecchio, rilasciò nel corso dell’intervista per Raiperunanotte il 26 marzo del 2010, pochi mesi prima del suo suicidio, gesto (del tutto consono alla lucidità ed al coraggio del suo carattere) con il quale preferì uscire dal mondo dopo la diagnosi di un’ inguaribile malattia.
Il regista, in questa intervista, ripercorre in sostanza la sua carriera, raccontandola come uno specchio veritiero ed attento del progressivo decadimento di una società che ai valori del fare, della solidarietà, della dignità (espresse nel secondo dopoguerra), dopo le accensioni utopiche della lotta di classe, dopo l’imborghesimento del proletariato, già a partire dal fallimento del 1968 (del quale egli svela le false aperture democratiche e dell’alta borghesia e degli intellettuali con un film alla rovescia che è “Amici miei”, un ritratto giocoso anche se infantilistico di quegli adulti odiati dai ragazzi della contestazione) ha sostituito l’acquiescenza, il culto del consumismo, la chiusura nell’egoismo anche più cinico e violento, l’appoggio ad un regime di tipo fascista, come definisce quello berlusconiano, la corruzione, la sopraffazione.
E anche se Monicelli, come il prete che pronuncia l’orazione funebre per il figlio di “Un borghese piccolo piccolo”, sembra augurarsi la morte generale dell’umanità, mostrando di non volere più scommettere sul futuro, prima lancia una provocazione definendosi Comunista in un’epoca in cui questa ideologia è tramontata (e certamente, più che per nostalgia nei confronti del passato, per desiderio di un futuro di valori); e poi lascia un testamento aspro ed eroico, affermando che bisogna smetterla di sperare poiché la Speranza è una trappola del potere. E infatti, in uno dei suoi ultimi interventi in un’aula universitaria, parlando ai giovani studenti, consegna loro il compito di fare la rivoluzione e distruggere “un mondo di rassegnati che non combattono” in uno stato che si dice democratico senza esserlo. Meravigliosa contraddizione di uno spirito rimasto sempre giovane, sempre ribelle, pronto al mutamento in nome dei valori fondanti dell’uomo.
Del resto la “rivoluzione” Monicelli la portò avanti da sempre, girando film che non piacevano alla Chiesa, alla DC, agli stessi partiti di sinistra, a giornalisti e uomini ed istituzioni del potere. Denunciando la stupidità e la vanagloria dello Stato fascista e dei suoi ufficiali che condussero tanti poveri soldati provenienti da ogni parte d’Italia, senza preparazione ed equipaggiamento adatti, non verso un’avanzata trionfale, ma verso una carneficina (La grande guerra, 1959); smontando l’impianto del romanzo cavalleresco e dei suoi falsi eroi con “I soliti ignoti”, i cui protagonisti, invece che al Santo Graal, approdano ad un piatto di pasta con i ceci. E, ancora, accusando la morale cattolica di avere imbalsamato per secoli l’ordine sociale allo scopo di mantenere privilegi ed assetti di potere in “L’armata Brancaleone”, in cui l’età medievale viene descritta secondo quello spirito corrosivo ed ironico (veicolato anche da un godibilissimo “pasticcio” linguistico), che fu proprio anche di Calvino; affermando i diritti femminili, se non addirittura il progetto di un mondo governato dalla volitività, dalla duttilità e dalla solidarietà femminile (in “La ragazza con la pistola”; “Romanzo popolare” e “Speriamo che sia femmina”).
Ticozzi racconta tutto questo con una prosa chiara, agile, documentata, sostenuta da una profonda ammirazione per il regista Monicelli. Il suo lavoro sta fra due interessanti cornici: la prefazione di Ugo Gregoretti e l’intervista a Mimmo Calopresti. Di Gregoretti è interessante la definizione di Monicelli come cattivista, in quanto “un po’ cattivo è, ma molto finge di esserlo”; e del secondo l’affermazione che per il grande regista il “popolare” era “un’idea di semplicità rivoluzionaria”, come dire che in lui durò sempre la nostalgia di una società più povera materialmente, ma più ricca di valori e più credibile, qual era quella ritratta ne “I soliti ignoti” e in “Guardie e ladri”.
Voglio concludere con delle idee personali sul film che, a mio parere, è il più cupo ma anche il più ambiguo tra quelli girati da Monicelli, e perciò il più difficile da comprendere per lo spettatore medio. Si tratta di “Un borghese piccolo piccolo”. Nel 1977, quando esso fu proiettato nelle sale cinematografiche (due anni prima avevano assassinato Pasolini) avevo già 30 anni; ero disoccupata pur essendo laureata, mi ero resa conto pienamente del “disastro” del 1968 e assistevo con angoscia ai fatti drammatici di quelli che furono chiamati anni di piombo. Lo vidi insieme a mio padre e ricordo ancora le nostre diverse reazioni. Lui, sconcertato dalla violenza del protagonista, e tuttavia fortemente simpatizzante con lui (perfino commosso), per una istintiva identificazione con il padre di famiglia privato del suo unico figlio e perciò spinto alla crudeltà per “amore”; io del tutto ammutolita di fronte a un così grave sconfinamento del sentimento in una forma patologica; lui convinto che la predica del prete in occasione dei funerali del figlio fosse rivolta a condannare la violenza dell’attentatore ed a quelli come lui; io, invece, che fosse diretta al protagonista e, in ultima analisi, a tutti gli italiani borghesi del tempo, guastati dalla pratica della raccomandazione, privi di qualsiasi dimensione del sociale, ma anche a tutto quel meccanismo politico che aveva favorito un tale sfascio morale. Io, dunque, non so a chi Monicelli pensasse di rivolgersi, se già non avesse messo in conto che questa figura del padre seviziatore sarebbe piaciuta, nonostante tutto, allo spettatore medio, specie se adulto.Cominciai a leggere vari articoli sul film, tutti contraddittori, ovviamente; ma quello che più mi fece pensare fu uno in cui si diceva che il film era privo di un giudizio o di una condanna ideologici. E, infine, dopo tante letture, ricavai la triste impressione che proprio in quel momento Monicelli avesse cessato di avere fiducia nell’uomo e nella sua capacità di tracciare confini tra il bene ed il male. Ne fui intensamente amareggiata, come se lui mi avesse tolto l’ultimo appoggio per credere ancora in qualcosa. Oggi penso che fosse stato scritto per svergognare le caste al potere, compresa quella religiosa, poiché, infine, l’omelia di quel prete, essendo priva d’ogni misericordia, è, in sostanza, immorale.
Tutte queste digressioni non vanno certo considerate come una mancanza d’attenzione nei confronti del testo: “Ci vorrebbe la rivoluzione” di Ticozzi; tutt’altro; ma, non essendo esso né un testo narrativo, né un testo poetico, né un saggio vero e proprio, e nemmeno un trattato, come l’autore stesso lo definisce nella sua e-mail di presentazione, non vi si adatta una recensione, ma piuttosto una serie di riflessioni e di ricordi che la sua lettura suscita.
Di certo il taglio che Alessandro Ticozzi sceglie per raccontare Monicelli è quello più adatto a sottolinearne l’umanità schiva, lo sguardo lucido, la carica rivoluzionaria, la singolarità della visione.
Ma, quel che è più importante, “Ci vorrebbe la rivoluzione” c’interroga sullo stato di cose attuali, ci costringe a rivedere la qualità e l’utilità del nostro impegno personale. Abbiamo ancora nelle orecchie la condanna netta e risentita di Monicelli della paura degli intellettuali, della loro piattezza morale, del loro attaccamento al più o meno ampio potere personale già acquisito.
Dovremmo tenerne conto, tutti.