Piero Carbone,
-Poesie sotto il pino-,
SCe, edizioni, 2022
La poesia schermo e rifugio
-Poesie sotto il pino-,
e la memoria va immediatamente al “Tytire, tu recubans sug tegmine fagi…”,
al Melibeo virgiliano che si rivolge sconfortato a -Titiro, tu, sereno, all’ombra di un grande faggio- , “silvestrem tenui musam meditaris avena” …- moduli un canto agreste sull’umile zufolo…- ;… “nos patriam fugimus…” , -noi(io), invece, siamo costretti ad abbandonare la nostra terra-… :
l’armonia del canto di Titiro di contro alla disarmonia ed alla violenza della realtà di Melibeo.
E non è solo il titolo a richiamare l’egloga virgiliana.
A parte che la figura di Virgilio compare già nel “Dialogo nel bosco” (‘01), un Virgilio arcadico “antico” che si contrappone al modernista “tecnologico” Marinetti, questa poesia (’22) sembra riecheggiare, in forme, strutture e pensieri, ovviamente, diversi, l’antitetica tematica di Titiro e Melibeo.
Il richiamo letterario sembra ancor più giustificato, se consideriamo gli esergo dei tanti scrittori e poeti, posti a mo’ di introduzione delle varie liriche.
E allora la domanda: ma perché in Piero Carbone tutte queste allusioni letterarie?
Sembra che il poeta Piero Carbone voglia allontanarsi in un universo poetico-letterario, ritrovarsi nel canto della poesia, il locus amoenus, uno scenario di musicale requie, desiderio, vaga aleatoria speranza.
Il canto e controcanto di Titiro e Melibeo, qui si converte in un sommesso dialogo con se stesso, un dialogo interiore tra ciò che detta la vigile coscienza
e ciò che vede l’intelligenza.
Non a caso, la parola chiave, con l’area semantica che ne deriva, è “pinzera” : assidui pensamenti tra ciò che era e ciò che è, tra ciò che dovrebbe essere e che non è, e tutto ciò non come raffronto esplicito, proposito di denuncia, ma modo di sentire il presente e il passato, come ispirazione che tracima in flusso poetico.
Come in queste due liriche che possiamo considerare un manifesto programmatico
…
Scrivu in dialettu strittu,
vaju pinzannu
ca li pinzera
comu viennu vannu
…
però na cosa sacciu, s’è puisia,
senz’essiri farina ti sazzìa.(p.28)
…
E nomentri la varcuzza scinni a picu
-ca si l’agghiutti lu putenti mari-
lu pueta talìa e si fa l’ali!
Pari ca vola , ma si catamina.
Pari cuntentu appriessu a li palori.
Cu l’uocchji chjusi sta e tuttu vidi,
cunta li stiddri, va pinzannu in rima,
scrivi na cosa dunci, ammeci è amara.
…
(p.98)
Il poeta non si lascia andare alla drammatica del reale: “…la varcuzza…
ca si l’agghiutti lu putenti mari…” è uno scenario tenuto a distanza,
che, comunque, sollecita la fantasia poetica ad alzarsi in volo “cuntentu
appriessu a li palori”… “Palori” che vorrebbero essere “na cosa dunci”,
una rappresentazione di serenità e appagamento, un anelito della coscienza, ma sotto l’occhio vigile dell’intelligenza, la “cosa” che vorrebbe essere “dunci”,
si rivela “amara”.
Come in Titiro , “…lentus in umbra…” , non oppresso dall’angoscia degli eventi,
solo l’armonia del canto, della forma poesia, in definitiva, dice il poeta,
“ti sazzìa”, cioè, ti dà rifugio, conforto, in qualche modo ti acquieta.
E se nell’egloga virgiliana è l’ambiente agreste-pastorale separato, e lontano dalle turbolenze della massa urbanizzata, in queste Poesie sotto il pino il “luogo separato” è la memoria della tramontata cultura contadina, che propriamente fa da trama ai “pinzera”.
Il fatto è che se Piero Carbone deve moralmente scegliere, sceglie il passato e non il presente, la lontananza e non la prossimità, e l’afflato poetico, per l’appunto, emerge non dall’informe caos del presente, ma dall’eco risorgente di quella cultura.
Ne è spia, peraltro, la presenza qui e là diffusa di motti, detti, aforismi, forma mentis di chi non rinnega la tradizione, anzi la accoglie come segno positivo di verace saggezza.
Un esempio per tutti
Cuogli babbaluci
…
Buttana di la luna maiulina
…
Attu ca ridu e chianciu senza frenu,
lu zuccaru mi sapi di vilenu.
…
Sorti la sorti! Si sorti nun dici,
jeccati nterra e cuogli babbaluci.
Forti cantannu, lu pienzu e lu dicu:
passa la vita e resta l’allammicu.(p.72)
E per non trascurare il nostro Virgilio, ricordiamo la poesia didascalico-morale delle Georgiche, ispirata alla poesia sapienziale del greco Esiodo.
Ma riprendiamo la poesia di Piero Carbone, dove, a scanso di equivoci, non c’è traccia del “buon tempo antico”, e , se c’è nostalgia, è una nostalgia velata, intrinseca al lirismo del verso: a significare piuttosto una non rassegnata accettazione del mondo così com’è.
Insomma, quello che andiamo dicendo significa che la poesia di Piero Carbone si configura come uno, forse inconsapevole, istintivo, schermo (il “locus amoenus”?), una conformata barriera per tenere a bada, direbbe Pasolini, “l’universo orrendo” .
La scelta pure del siciliano, lingua “antica”, è già di per se espressione di un pensiero che non intende immergersi nella realtà contemporanea .
Il linguaggio, fissato in un lessico desueto e, talora, in arcaismi(al sottoscritto sconosciuti), conferma l’interpretazione di poesia “schermo”, e le parole, con la cadenza musicale propria del dialetto, sembrano suggerire un affrancamento dalle miserie del presente.
E se noi percepiamo, sentiamo, quello che il poeta sente e trasmette, significa che il linguaggio è consono e conforme all’intenzione poetica, senza il quale, come si sa, non sussiste liricità, fondamento di ogni opera d’arte.
Nicola Lo Bianco
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