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Quinta elementare

di Marina Pacifici
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Pubblicato il 22/07/2011 09:54:45


Campeggia il tuo sorriso
nel bianco e nero
della foto
che dalla parete
non smette sulla mia solitudine
dolcemente di vegliare.

La prima neve sotto le guglie della Madunina,
il giorno di Natale le gioie e le attese
nello sguardo scuro d’una bambina.

Una vita povera,
speranzosa,
umile,
alacre,
con poche pretese.

La sera sul Naviglio della Martesana,
lo sguardo all’alba ancora assopita e lontana.

Il tuo antico nome,
anagramma del mio
si perde nella dissolvenza brumoso
d’estiva aurora carminia.

Un sorriso dolce,
languido che l’ombra opaca della stanza
non smette di rischiarare.

La quinta elementare
il tuo traguardo conseguito.

Gli inizi del secolo,
Milano nell’alba industriale.
La miseria, l’approssimarsi della guerra
E la memoria nel bianco e nero
di anni remoti liberamente erra.

Una foto color seppia,
una bimba alta, bruna, timida
con fiocco e grembiule
i capelli ornati di viole
in mezzo ai numerosi compagni.

Arcigno e severo lo sguardo della grigia maestra,
lo sguardo fanciullesco oltre l’inchiostro ed il calamaio
nella gioia della neve lenta lenta
che turbinava fuori dalla finestra.

Foto ricordo della classe quinta,
alla periferia operaia di Milano,
il volo della ghiandaia
al bosco di nostalgia lontano.

Quarta figliola di famiglia contadina,
finita la scuola
già andavi a lavorare bambina.

Le sere a ricamare
corredi nuziali
al lume a petrolio d’una consunta, povera lanterna,
mentre nella piana
gemeva gelida l’inverna.

Piccole, candide mani d’alabastro
a correr veloci sulla macchina da cucire,
fanciulla sartina,
nel tuo bel vestito la domenica alla messa
fra i bruni capelli il setoso celeste nastro.

Ed il tuo instancabile desiderio di conoscere
da autodidatta
a piedi alla piccola biblioteca parrocchiale
i libri il tuo tesoro nella sporta di tela scarlatta.

E già calava la sera
sulla tua esistenza.
L’ultimo volo
di bruna, dolce capinera
fra la nebbia in dissolvenza.

Le domeniche sul sagrato della chiesa
la pudica passeggiata insieme ai severi fratelli
nel chiarore lombardo della piazza.

E d’estate alla fabbrica del riso
nel vercellese
già partivi, laboriosa, mite ragazza
nel tuo vestito di tela turchese,
in tasca qualche monetina di risparmio per le frugali spese.


Il pianto mesto del fischio del treno
e via si partiva alla monda,
rondine prigioniera del dedalo di profitto moderno.

Lontano il fumo del focolare,
nel cuore il desiderio
del rientro al nido familiare,
il calore del casolare
nelle sere nevose
nel vento d’inverno.

A trentanove anni
dileguava troppo presto il sogno
della tua fugace vita.

Nella pioggia fredda d’un maggio,
orfano dei colori di giugno
la carezza del tuo sorriso incenerita.

Il tuo canto risuona ancora
nel silenzio ombroso
oltre il pergolato di glicine
nell’antica corte,
nel verde occhieggiare dell’orto.

Profuma di Te
la modesta casetta a ringhiera,
lo stridore dei filobus sui binari,
Milano s’assopiva nella sera,
il turbine di foglie morte.

L’armonia d’un sorriso
fragrante di lillà nei balli paesani nell’allegra corte,
colmo di luce e d’amore
che vince lo sguardo cupo, ingannatore
il gioco crudele e baro della morte.


Alla memoria di mia nonna Erminia, ex mondina ed operaia.

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