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La misura dello zero

Poesia

Bruno Galluccio
Einaudi

Recensione di Maurizio Soldini
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Pubblicato il 25/09/2015 12:00:00

 

Un andamento poematico di ampio respiro quello de La misura dello zero, che abbraccia il tempo di vissuti lirici imbrigliati nel pensiero scientifico, fisico-matematico-cosmologico, che fa da sponda alle più ampie riflessioni sulla vita.

Lo zero è il punto di riferimento, il non-quid, che dà luogo alla possibilità del misurare, il nulla che rende possibile l’essere. L’essenza, tutto-niente, che commisura l’esistenza.

Lo zero è la circolarità che parte e ritorna dal vuoto, è il soffio, per restare nell’identità dell’etimo, di Zefiro proveniente dalla notte. Per far sì che si annunci la solarità e la rinascita della primavera (“Zefiro torna e il bel tempo rimena”, Petrarca).

Bruno Galluccio è il poeta per antonomasia, che non disdegna la cultura scientifica, - e pertanto assai distante dall’umanista Petrarca, - e non potrebbe farlo in quanto fisico, ma la riassume e la trascende in una concezione del mondo, che prende le distanze da una concezione positivista e materialista, per dare il là ad un canto nuovo, che pur tenendo alta la considerazione della scienza, con le sue caratteristiche e i suoi metodi, si approccia al mondo e agli uomini con un metodo nuovo, che non privilegia l’analisi, ma che porta nella sintesi la riflessione, il pensiero e la parola con una concezione nuova e diversa da quella oggi prevalente anche nella quotidianità, per gridare in modo forte il ruolo del poeta e della poesia anche in questa contemporaneità, dove tutto sembrerebbe essere ridotto (il riduzionismo) a quei minimi termini esplicativi, sulla falsa-riga della scienza, che disdegna, per lo più, una visione olistica, dove la comprensione e la contezza del fatto che la somma è sempre maggiore delle parti va in deroga a qualunque possibilità di misura che non sia appunto la cum-prehensione del tutto.

La silloge è composta da cinque sezioni: Misure, Sfondi, Matematici, Transizioni, Curvature.

Lo zero rappresenta il vuoto spaesamento davanti al mondo, davanti al mistero della vita e lo stupore insorge a ricucire lo strappo e lo fa attraverso la parola. Il linguaggio si fa allora strumentale per la scienza e in tal modo perde per strada lo stupore e acquista la freddezza che spaesa ancora di più. A meno che anche la scienza non ceda ad un linguaggio altro che non si perda nei rivoli dell’inconcludenza e dell’inautenticità.

Bruno Galluccio da buon conoscitore della scienza, in quanto anche scienziato, sa bene di che cosa si sta parlando e allora non carica di priorità il linguaggio scientifico, talora lo usa in figure retoriche e lo metaforizza, andando addirittura contro il metodo scientifico, e cede al linguaggio che solo può portare a salvezza l’uomo. Il linguaggio della poesia, che travalica ogni linguaggio strumentale, tecnico, scientifico, sociologico, giuridico, storico, etc., e che attraverso la ricerca non solo e non tanto della verità si apre alla ricerca prioritaria del senso, che viaggia su percorsi etici ed estetici. La poesia che si crogiola nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, cercando così questa sua verità, che pur avendo rilevanza sul piano cognitivo non può basarsi solo ed esclusivamente su una dimensione epistemica.

E lo zero, e quel  vuoto che implica, è la misura incommensurabile di qualunque impossibilità, che neppure la scienza può sanare, ammesso che quel vuoto esista, in quanto enigma, e che rimarrà pur sempre mito, “lo zero/ è una funzione fantasma/ un valore esatto che non si può raggiungere”:

 

il vuoto sempre un enigma e un mito

abitante con orrore delle prime

domande infantili sull'universo

quando uscire dalla casa è pensiero

e l'oltre era segnato

dall'incubo dell'abbandono

 

e quel vuoto sembrava proprio

lì fuori di casa in agguato

un agguato lontano e incombente

un allontanarsi dal cieco

o muoversi senza ragione

abbandonando i punti cardinali

 

oggi sappiamo che il vuoto non esiste

ci sono ovunque fluttuazioni quantistiche

ovunque perturbazioni di campo

che fanno apparire fotoni o materia

perché anche qui lo zero

è una funzione fantasma

un valore esatto che non si può raggiungere

 

E così la morte di ogni uomo e l’eventuale estinzione del genere umano non potrà essere un ritorno all’infinito da cui si proviene, ma per paradosso sarà un abbandonare questo stesso infinito e l’universo non potrà sapere di questa “minima frazione” in cui l’universo si è riassunto in un così breve periodo:

 

morire non è ricongiungersi all’infinito

è abbandonarlo dopo aver saggiato

questa idea potente

 

quando la specie umana sarà estinta

quell’insieme di sapere accumulato

in voli e smarrimenti

sarà disperso

e l’universo non potrà sapere

di essersi riassunto per un periodo limitato

in una sua minima frazione

 

Se in Misure, il linguaggio, seppur trasfigurato, è prevalentemente quello strumentale della fisica della matematica della geometria della cosmologia, in Sfondi si entra nella dimensione della terrestrità e della quotidianità:

 

senti la terra delle parole

il seme del distendersi

vanno tracciando dritto per i campi

con una strana impazienza ti affretti

alla casa degli anni

il capogiro è da gerani del ricordo

dall’eco dei gelsomini evocato nella polvere

la prima notte qui sarà una notte

di presenze e di deformazioni

altra polvere dentro casa che aspetta

in armi di estraneità e abitudine

giorni su giorni da non poter combattere

dolorosa assenza di odori di cucina

ragnatele che toccano il viso

e una litania di verbi andati

 

E dopo il passaggio nella breve sezione di Matematici, composta da tre composizioni dedicate a tre eminenti figure di matematici intitolate Pitagora, Evariste Galoise e Kurt Gödel, significative per il fatto di evidenziare come dietro la scienza ci siano comunque degli uomini, delle persone con una loro singolarità biografica ed esistenziale, ci si avvia a quello che è il pezzo forte della poesia di Galluccio, ovvero alle ultime due sezioni di Transizioni e Curvature, che rappresentano il culmine della dimensione lirica di questa silloge.

Il linguaggio diventa ora piano, si addolcisce nell’abbandono del linguaggio strumentale, diventa il docile pass-partout della quotidianità e travalica lo spaesamento gnoseologico ed epistemologico per approdare al turbamento dello stupore esistenziale.

Si entra in una dimensione che da cosmica si fa terrestre, familiare per l’umanità e si apre al paesaggio mondano, alla natura, ai travagli urbani, al mondo degli affetti, delle passioni, delle speranze, delle illusioni, delle disillusioni, del passato, del presente e del futuro, e di ritorno al confronto diuturno con la vita e con la morte. E così non si percorrono più gli anni luce dello spazio cosmico, ma si rientra nel ricordo di un agosto caduto nel tempo di una passeggiata:

 

andando a ritroso coprendo le cadute di tempo

entriamo nell'agosto di quella passeggiata

 

la domanda negli occhi scuri

l'impazienza e il dolore per quello

che allora era futuro

 

malgrado il ruvido che a volte affiorava

e prendeva alla fronte alla voce

eravamo dalla stessa parte

 

la passeggiata era a tratti contenuta

da un passamano di corda

assecondava le rientranze della roccia

 

nei punti di sporgenza sul mare

ci prendeva l'aria

 

Il tempo e lo spazio sono ora quelli cittadini e quelli casalinghi e tutto è giocato nei tre tempi di presente futuro e soprattutto passato, per quanto “chi ricorda è perduto”. E lo stato di veglia si affastella ad uno stato quasi onirico che dona al sogno una carica di verità che spiazza la realtà della veglia. E i corpi celesti si misurano con i corpi terrestri di uomini e cose:

 

la luna onora le finestre chiuse

hanno sogni di rarità

perciò proiettano disegni

lungo le pareti

la nascita le attraversa

 

ma adesso non tutto è sogno

il tempo preserva le sue ore

nel bruciare discreto delle dita

il plastico curvarsi delle scapole

nello strisciare ferendosi la bocca

amano quindi come si può

durante una caduta

 

in oscura verità

dove più si tende la scena

e imitazioni di ombre diventano corpi stellari

 

In Curvature, ultima sezione della silloge,si ha il compimento della poesia di Bruno Galluccio con una perfetta embricazione del cosmico e del terrestre, in un olismo che sa comprendere in sé con l’acribia del poeta, e che solo un poeta potrebbe portare a compimento, scienza e humanitas nonché tutta la realtà fisica e metafisica nell’orizzonte e alla stregua non di un Rinascimento e di un Umanesimo, che avrebbero portato all’individualismo e al solipsismo radicatosi nella modernità e ancor più nella post-modernità, ma nella dimensione comunitaria e universalizzante del nostro Medioevo e forte di una tradizione realistica a datare dalla Commedia di Dante.

Straniati e spaesati, gli uomini, su questa terra e in questo mondo, tentano di fare luce e di dare tepore a questa vita come in una chiesa buia, dove il sereno è donato dal cielo di un quadro che per quanto malmesso fa da contraltare al buio e all’ombra, che quasi rassomiglia a quella di un carcere.

Coloro che portano i ceri a far luce, i poeti, tentano di avere “lingue forti” e alla luce della parola invitano ad attendere e a sperare; con il miracolo della poesia, che imprime curvature su linee di senso, che fanno incontrare le rette di fisica e metafisica, che ormai da troppo tempo stanno aspettando di ritrovarsi ad un in-crocio:

 

gli uomini entrano e portano ceri

li conducono nell’ostacolo delle inferriate

nella foresta dei banchi e dei legni

le concavità dell’ambiente mangiano la luce

e all’improvviso come una tagliola

il freddo

 

coperture sono ammonticchiate testi di peccati

polvere di buone intenzioni e insofferenze

lì sempre a camminare in un dominio

che proviene dall’oscurità

 

inginocchiatoi tarlati appoggi

umido nelle mani infiltrazioni nel collo

e il sereno del cielo nel dipinto

malmesso all’ingresso

già è lontano e irricevibile

timbri e sigilli dietro i sottili fumi allungati

 

hanno tentato di essere forti le lingue

e loro portano ceri e lo sanno

e vanno dicendo

qui avete posto da attendere

 


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