Un andamento poematico di ampio respiro quello de La misura dello zero, che abbraccia il tempo di vissuti lirici imbrigliati nel pensiero scientifico, fisico-matematico-cosmologico, che fa da sponda alle più ampie riflessioni sulla vita.
Lo zero è il punto di riferimento, il non-quid, che dà luogo alla possibilità del misurare, il nulla che rende possibile l’essere. L’essenza, tutto-niente, che commisura l’esistenza.
Lo zero è la circolarità che parte e ritorna dal vuoto, è il soffio, per restare nell’identità dell’etimo, di Zefiro proveniente dalla notte. Per far sì che si annunci la solarità e la rinascita della primavera (“Zefiro torna e il bel tempo rimena”, Petrarca).
Bruno Galluccio è il poeta per antonomasia, che non disdegna la cultura scientifica, - e pertanto assai distante dall’umanista Petrarca, - e non potrebbe farlo in quanto fisico, ma la riassume e la trascende in una concezione del mondo, che prende le distanze da una concezione positivista e materialista, per dare il là ad un canto nuovo, che pur tenendo alta la considerazione della scienza, con le sue caratteristiche e i suoi metodi, si approccia al mondo e agli uomini con un metodo nuovo, che non privilegia l’analisi, ma che porta nella sintesi la riflessione, il pensiero e la parola con una concezione nuova e diversa da quella oggi prevalente anche nella quotidianità, per gridare in modo forte il ruolo del poeta e della poesia anche in questa contemporaneità, dove tutto sembrerebbe essere ridotto (il riduzionismo) a quei minimi termini esplicativi, sulla falsa-riga della scienza, che disdegna, per lo più, una visione olistica, dove la comprensione e la contezza del fatto che la somma è sempre maggiore delle parti va in deroga a qualunque possibilità di misura che non sia appunto la cum-prehensione del tutto.
La silloge è composta da cinque sezioni: Misure, Sfondi, Matematici, Transizioni, Curvature.
Lo zero rappresenta il vuoto spaesamento davanti al mondo, davanti al mistero della vita e lo stupore insorge a ricucire lo strappo e lo fa attraverso la parola. Il linguaggio si fa allora strumentale per la scienza e in tal modo perde per strada lo stupore e acquista la freddezza che spaesa ancora di più. A meno che anche la scienza non ceda ad un linguaggio altro che non si perda nei rivoli dell’inconcludenza e dell’inautenticità.
Bruno Galluccio da buon conoscitore della scienza, in quanto anche scienziato, sa bene di che cosa si sta parlando e allora non carica di priorità il linguaggio scientifico, talora lo usa in figure retoriche e lo metaforizza, andando addirittura contro il metodo scientifico, e cede al linguaggio che solo può portare a salvezza l’uomo. Il linguaggio della poesia, che travalica ogni linguaggio strumentale, tecnico, scientifico, sociologico, giuridico, storico, etc., e che attraverso la ricerca non solo e non tanto della verità si apre alla ricerca prioritaria del senso, che viaggia su percorsi etici ed estetici. La poesia che si crogiola nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, cercando così questa sua verità, che pur avendo rilevanza sul piano cognitivo non può basarsi solo ed esclusivamente su una dimensione epistemica.
E lo zero, e quel vuoto che implica, è la misura incommensurabile di qualunque impossibilità, che neppure la scienza può sanare, ammesso che quel vuoto esista, in quanto enigma, e che rimarrà pur sempre mito, “lo zero/ è una funzione fantasma/ un valore esatto che non si può raggiungere”:
il vuoto sempre un enigma e un mito
abitante con orrore delle prime
domande infantili sull'universo
quando uscire dalla casa è pensiero
e l'oltre era segnato
dall'incubo dell'abbandono
e quel vuoto sembrava proprio
lì fuori di casa in agguato
un agguato lontano e incombente
un allontanarsi dal cieco
o muoversi senza ragione
abbandonando i punti cardinali
oggi sappiamo che il vuoto non esiste
ci sono ovunque fluttuazioni quantistiche
ovunque perturbazioni di campo
che fanno apparire fotoni o materia
perché anche qui lo zero
è una funzione fantasma
un valore esatto che non si può raggiungere
E così la morte di ogni uomo e l’eventuale estinzione del genere umano non potrà essere un ritorno all’infinito da cui si proviene, ma per paradosso sarà un abbandonare questo stesso infinito e l’universo non potrà sapere di questa “minima frazione” in cui l’universo si è riassunto in un così breve periodo:
morire non è ricongiungersi all’infinito
è abbandonarlo dopo aver saggiato
questa idea potente
quando la specie umana sarà estinta
quell’insieme di sapere accumulato
in voli e smarrimenti
sarà disperso
e l’universo non potrà sapere
di essersi riassunto per un periodo limitato
in una sua minima frazione
Se in Misure, il linguaggio, seppur trasfigurato, è prevalentemente quello strumentale della fisica della matematica della geometria della cosmologia, in Sfondi si entra nella dimensione della terrestrità e della quotidianità:
senti la terra delle parole
il seme del distendersi
vanno tracciando dritto per i campi
con una strana impazienza ti affretti
alla casa degli anni
il capogiro è da gerani del ricordo
dall’eco dei gelsomini evocato nella polvere
la prima notte qui sarà una notte
di presenze e di deformazioni
altra polvere dentro casa che aspetta
in armi di estraneità e abitudine
giorni su giorni da non poter combattere
dolorosa assenza di odori di cucina
ragnatele che toccano il viso
e una litania di verbi andati
E dopo il passaggio nella breve sezione di Matematici, composta da tre composizioni dedicate a tre eminenti figure di matematici intitolate Pitagora, Evariste Galoise e Kurt Gödel, significative per il fatto di evidenziare come dietro la scienza ci siano comunque degli uomini, delle persone con una loro singolarità biografica ed esistenziale, ci si avvia a quello che è il pezzo forte della poesia di Galluccio, ovvero alle ultime due sezioni di Transizioni e Curvature, che rappresentano il culmine della dimensione lirica di questa silloge.
Il linguaggio diventa ora piano, si addolcisce nell’abbandono del linguaggio strumentale, diventa il docile pass-partout della quotidianità e travalica lo spaesamento gnoseologico ed epistemologico per approdare al turbamento dello stupore esistenziale.
Si entra in una dimensione che da cosmica si fa terrestre, familiare per l’umanità e si apre al paesaggio mondano, alla natura, ai travagli urbani, al mondo degli affetti, delle passioni, delle speranze, delle illusioni, delle disillusioni, del passato, del presente e del futuro, e di ritorno al confronto diuturno con la vita e con la morte. E così non si percorrono più gli anni luce dello spazio cosmico, ma si rientra nel ricordo di un agosto caduto nel tempo di una passeggiata:
andando a ritroso coprendo le cadute di tempo
entriamo nell'agosto di quella passeggiata
la domanda negli occhi scuri
l'impazienza e il dolore per quello
che allora era futuro
malgrado il ruvido che a volte affiorava
e prendeva alla fronte alla voce
eravamo dalla stessa parte
la passeggiata era a tratti contenuta
da un passamano di corda
assecondava le rientranze della roccia
nei punti di sporgenza sul mare
ci prendeva l'aria
Il tempo e lo spazio sono ora quelli cittadini e quelli casalinghi e tutto è giocato nei tre tempi di presente futuro e soprattutto passato, per quanto “chi ricorda è perduto”. E lo stato di veglia si affastella ad uno stato quasi onirico che dona al sogno una carica di verità che spiazza la realtà della veglia. E i corpi celesti si misurano con i corpi terrestri di uomini e cose:
la luna onora le finestre chiuse
hanno sogni di rarità
perciò proiettano disegni
lungo le pareti
la nascita le attraversa
ma adesso non tutto è sogno
il tempo preserva le sue ore
nel bruciare discreto delle dita
il plastico curvarsi delle scapole
nello strisciare ferendosi la bocca
amano quindi come si può
durante una caduta
in oscura verità
dove più si tende la scena
e imitazioni di ombre diventano corpi stellari
In Curvature, ultima sezione della silloge,si ha il compimento della poesia di Bruno Galluccio con una perfetta embricazione del cosmico e del terrestre, in un olismo che sa comprendere in sé con l’acribia del poeta, e che solo un poeta potrebbe portare a compimento, scienza e humanitas nonché tutta la realtà fisica e metafisica nell’orizzonte e alla stregua non di un Rinascimento e di un Umanesimo, che avrebbero portato all’individualismo e al solipsismo radicatosi nella modernità e ancor più nella post-modernità, ma nella dimensione comunitaria e universalizzante del nostro Medioevo e forte di una tradizione realistica a datare dalla Commedia di Dante.
Straniati e spaesati, gli uomini, su questa terra e in questo mondo, tentano di fare luce e di dare tepore a questa vita come in una chiesa buia, dove il sereno è donato dal cielo di un quadro che per quanto malmesso fa da contraltare al buio e all’ombra, che quasi rassomiglia a quella di un carcere.
Coloro che portano i ceri a far luce, i poeti, tentano di avere “lingue forti” e alla luce della parola invitano ad attendere e a sperare; con il miracolo della poesia, che imprime curvature su linee di senso, che fanno incontrare le rette di fisica e metafisica, che ormai da troppo tempo stanno aspettando di ritrovarsi ad un in-crocio:
gli uomini entrano e portano ceri
li conducono nell’ostacolo delle inferriate
nella foresta dei banchi e dei legni
le concavità dell’ambiente mangiano la luce
e all’improvviso come una tagliola
il freddo
coperture sono ammonticchiate testi di peccati
polvere di buone intenzioni e insofferenze
lì sempre a camminare in un dominio
che proviene dall’oscurità
inginocchiatoi tarlati appoggi
umido nelle mani infiltrazioni nel collo
e il sereno del cielo nel dipinto
malmesso all’ingresso
già è lontano e irricevibile
timbri e sigilli dietro i sottili fumi allungati
hanno tentato di essere forti le lingue
e loro portano ceri e lo sanno
e vanno dicendo
qui avete posto da attendere