[ Pubblicato sul n. 22, giugno, 2010, della rivista La Mosca di Milano. Intrecci di Poesia, Arte e Filosofia ]
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da L’azzurro che c’incanta e non ci tormenta
Siamo corpi composti da materia forgiata nel centro delle stelle, dove nuclei di atomi fondono in sequenze di esplosioni in ambiente termonucleare; materia liberata nello spazio a seguito di un immane disastro, dapprima fluttuante nel più profondo silenzio, poi agglomerata in sfere infuocate su cui precipitarono meteore. A seguire, eruzioni di vulcani, vapori e poi acque e biologiche evoluzioni: amminoacidi (forse dal cielo delle comete) e poi cellule, pinne, arti e passi e…pensiero, che non sappiamo da dove arrivi. Senza ormai troppa sorpresa ci appartiene, molte volte non va più in alto della Luna, che c’immaginiamo fin troppo vicina.
Viviamo, tristi o allegri, abbracciando questo suolo, simili a una formica che pensiamo stupida quando, con il suo andare concitato, gira in tondo su una grossa biglia sospesa (basterebbe lasciarsi cadere per trovare nuovi spazi, più ampie distese, superfici altre), non pensando invece che le siamo simili in ottusità, quando, ostinatamente attaccati a questo pianeta, costruiamo la vita ritagliando via tutto ciò che sta oltre il cielo, diventando l’ultimo orizzonte l’azzurro che c’incanta e non ci tormenta, o il nero velo notturno forato da poche stelle, sotto i lumi cittadini che ci difendono dall’infinito.
L’immensità che spaventa il cuore, che s’allarga oltre, chi la pensa? Siamo qui a contare perdite e guadagni, arricchendo, provando a farlo, ansimando una vita intera appresso al folle soldo; ma chi è ricco di materia non lo è realmente, se non soltanto agli occhi di affamati e indigenti. Un solco netto d’ingiustizia divide chi possiede ciò che necessita per una vita serena e chi, povero, si rattrista sotto la greve indigenza. Con i soldi ci si accaparra qualcosa ch’è di tutti, luoghi e risorse che la natura dispone equamente sul piatto di ogni uomo: proprietà fittizia di beni frantumabili, materia che qualche stella certamente si riprenderà. Il guadagno, un tormento. Le vite si segmentano, senza una meta vera, uno sfondo che dia allegrezza. Se invece tutti potessero soddisfare le proprie esigenze primarie, cibo, cure, affetto, istruzione, rispetto, libertà, allora nuove energie potrebbero essere utilizzate nell’amare e nel conoscere…chissà come sarebbe se la vita dell’intera umanità fosse un unico fronte d’amore e conoscenza, e ogni intelligenza contribuisse alla ricerca universale. L’umanità, un unico variegato pensiero proteso verso l’universo intero, spazi remoti, oltre la Luna, oltre il Sistema Solare, verso altre stelle, alla ricerca di altri mondi e della vita universale, quella ch’è altrove, tra i miliardi di stelle-soli e pianeti.
Propongo come casa l’Universo, di cui ben poco si sa, per quanto esso sia già tutto nella nostra fantasia a soddisfare la nostra sete di infinito. Cede quello spazio sopra di noi, e ci viene addosso. Come quelle volte, troppo rare, che, per caso e distrattamente, ci troviamo a guardare in alto nel buio della notte, e un fiotto di verità esce dal pensiero, come da una ferita – che è in realtà l’unica parte sana –, a dirci ciò che siamo, così piccoli davanti all’infinito che neppure concepiamo, ma ci proviamo a farlo stare nel pensiero, finché avvertiamo ch’è meglio desistere prima di soccombere; esplode la mente nel non senso, ragionando essa, in modo errato, per spazio e tempo: se l’universo avesse una fine, dopo la fine che cosa ci sarebbe? Il pensiero s’allarga spostando le pareti universali, fino a scoppiare di contraddittoria sensazione; sulla soglia dell’assurdo ci ravviviamo, e scopriamo che nella nostra mente non è stato posto il concetto di fine, e neppure d’inizio, che a suo modo è una fine: lo spazio-tempo, un perpetuo iniziare o da sempre esserci. L’infinito e l’eterno, come sfere illimitate, sembrano essere le uniche soluzioni al non senso del finito esistere.
Chi glielo dice?
La notte in cui, camuffato tra le stelle, scoprii Saturno, e poi Giove, Marte, Venere, pensai di aver avuto la meglio su quel lontano cielo oscuro, punteggiato di lumi tutti uguali. Ma era troppo facile mettere i pianeti nel mio obiettivo, così prevedibili, avendoli scoperti, uno a uno, come in un gioco di nascondino universale. Furono invece le comete a farmi assestare quel vibrante colpo di pensiero e sguardo al cielo instabile ed enigmatico, fatto di oggetti così volubili che di notte, come un ammiraglio galattico, dovetti studiare strategie vincenti per scovare ciò che sfuggiva al mio cannocchiale. Poi, nei lunghi e appassionanti studi di astrofisica, arrivai al cospetto di ciò che non vedevo cogli occhi ma con l’intelligenza. L’intuizione mi mostrava, oltre la fantascienza, il più bello dei mondi possibile, il mio personale universo di pensieri che bucavano quel velo oscuro macchiettato di stelle e striato da comete. Suffragato dalla faticosa matematica arrivai all’inizio del tempo, dello spazio, all’origine dell’universo e alle sue più bizzarre leggi, fino all’estremo, alle teorie più affascinanti e belle che la mente sia mai riuscita a concepire. Modelli che predicono gli eventi e la sorte – come veggenti, gli scienziati, a leggere il passato dal futuro, a ogni nuovo arrivo ripartendo con più numerose domande ed enigmi entusiasmanti.
Ma chi glielo dice tutto questo a coloro che, oppressi dall’ingiustizia, ancora guardano al suolo con dolore e mestizia?
L’infinito, il simbolo
Un’anziana signora, in libreria, parla, affascinata da quello strano simbolo che spesso l’ignoranza matematica delle persone eleva a mistero, è quell’otto orizzontale contrassegno d’infinito. Parla con accento del nord Europa e, nella sua conversazione sbilenca, si riferisce finanche a quello smodato libro che ha nel titolo i numeri primi. Che insolite stupidaggini instillano i matematici, o chi per essi, con le loro scritture popolari, nelle persone assetate di conoscenza e che vivono all’ombra di quel gigante che un giorno, forse non lontano, ha rischiato di schiacciarli: la Matematica. I suoi luminari scrivono cercando la fama, come una volta i maghi e i druidi che facevano credere alla gente di essere a contatto con misteri tanto remoti all’esperienza umana.
Alcune persone parlano di quel simbolo, come la simpatica signora, con affannata convinzione, essendone venuti a conoscenza in una lettura obbligata da un contesto sociale saturo di ignoranza che propina vendita di sapere, comprato come due braghe al mercato. Ne parlano come se fosse una cosa reale e sulla quale possono dire, finalmente, la loro parola importante, sfidando l’interlocutore in una sorta di singolar tenzone, con lo sguardo tagliato di traverso come a indagare se v’è conoscenza di quel segno che adesso è nella loro mente, a risarcimento di tanta filosofia incompresa, pur ignorando la varietà, la straordinarietà, l’esuberanza e la stravaganza di tutti quei numeri che esso copre, come una statua di legno copre e nasconde il più grande mistero della vita reale di un santo, oppure come le rappresentazioni, nella storia artistica e religiosa dell’umanità, del Dio invisibile, che lo includono, rozzamente, in categorie umane immediatamente fruibili dalla spicciola trascendenza di persone spaesate dal sentore dell’innumerabile, della grandezza, dell’infinito.
La natura stessa ha posto per noi il sole a dipingere quell’azzurro del cielo, e quel fitto velo di stelle nell’oscurità del cielo notturno, al fine di non spaurire il cuore che, sincero, si pone il dilemma di dove stia quel fine e, creandone uno fittizio, lo supera, in un crescendo di limite e superamento dello stesso, fino a impaurirsi nel trovare, improvvisa nella mente, la sensazione dell’abisso, del nulla, dell’immenso, di un tutto che equivale a un niente. Quel simbolo di infinito, introdotto e usato dai matematici, è proprio così, è un faro nell’immenso, un sole nel cielo dei numeri infiniti, che mai hanno tregua nel loro susseguirsi, e rendendo quel cielo così azzurro, diventa piacevole il sostare al di qua, in un mondo finito e noto, dove quel buco disagevole, risucchio verso il nulla, è tappato, e noi, nel nostro bel mondo, confortati da confini precisi, viviamo rannicchiati e sicuri.
Togliere quel tappo sarebbe come buttarsi oltre il limite in una sorta di godimento senza conclusione, come quando, nell’amore, il corpo arriva all’apice del piacere e ci si aspetta e si attende quel suo termine che non arriva – una discesa dopo la salita che riporti alla tranquilla e fiorita valle delle normali sensazioni – ma, anzi, assume i connotati di un dolore: un naufragio imprevisto in quel vasto mare illusorio le cui onde non hanno né spiagge né bastioni su cui infrangersi. Così è quel simbolo, un’illusione, per la buona sorte del nostro pensare, una convenienza, una salvezza.