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Dovevo partire
Ricordo che qualche giorno prima della partenza con il Vespucci mi ritrovai influenzato, proprio mentre stavo a casa dai miei genitori per qualche giorno di licenza. Dovevo partire, ma la mia inerzia mi avrebbe fermato lì, a casa, lasciandomi allettato dalla pigrizia e dalle amorevoli cure della mia famiglia, sereno tra quattro mura domestiche, sarebbe stato facilmente realizzabile con un semplice certificato medico. Ma dentro di me qualcosa ribolliva e una pressione interiore sollevava i coperchi del mio quieto vivere, era l’avventura, erano il mare, il cielo e il vento che battevano i loro piedi vicino al mio letto, piedi-tamburi, un suono assordante, diventato in breve una tempesta di sogni che sollevò il mio corpo e mi pose in macchina, con la mia famiglia al seguito ad accompagnarmi fin sulla banchina del porto di Livorno, dal quale salpai per un’avventura la cui durata sarebbe stata di cento giorni. Furono più di tre mesi di navigazione attraverso il mare insieme ai miei compagni di corso, portati da un immenso soffio di leggerezza su vele aperte nell’azzurro, galleggiando su inesauribili profondità oceaniche pronte ad inghiottire tutti noi, qualora ci fossimo svuotati della nostra stravagante audacia. Invece avemmo la meglio sull’oceano, che rimase vinto dalla potenza della nostra giovinezza, dall’orgoglio di rassomigliare agli uomini che avevamo già pensato di essere. Fu la nave a raccogliere ansie e tristezze, attese e illusioni nella sua anima di acciaio, legno e tela, e con questa forza attraversò tutti i mari e ci riportò a casa illesi e un poco più uomini, uomini allegri. Avevamo vinto, non sapevamo su chi o che cosa, sapevamo però che qualcosa in noi era cambiato, era stato il mare, non ci aveva scontato nulla, ci aveva sorretti così come ci avrebbe inghiottiti; dipese, la vita o la morte, solo da noi, fummo i fautori del nostro destino.
La guerra è passata esattamente in mezzo alla mia adolescenza, devastandola. Sono della generazione Flakhelfer, come vengono comunemente chiamati i nati del 1926-27. Ero un soldato bambino tedesco. Pertanto fui impiegato da Hitler nel programma Luftwaffenhelfer, implementazione dell’ordine di “Kriegshilfseinsatz der Jugend bei der Luftwaffe” e cioè “Utilizzazione dei giovani per supportare lo sforzo di guerra delle forze aeree”, emesso il 22 gennaio 1943. L’ordine chiedeva l’arruolamento di intere classi scolastiche maschili di studenti nati nel 1926 e 1927 (successivamente esteso per includere i nati nel 1928 e 1929), in un corpo militare supervisionato da personale della Gioventù Hitleriana e della Luftwaffe. Prevedeva un indottrinamento ideologico, doveri militari e una continuazione limitata del normale curriculum scolastico. Per diversi mesi feci parte del programma ma non riuscirono mai a innestarmi nel sistema, rimasi sempre segretamente dissidente, finché riuscii a fuggire in Svizzera con i miei genitori contadini, dove vissi fino alla fine della guerra, ospite di alcuni nostri lontani parenti: i coniugi Huber. Viveva con loro il nipote Karl, un ragazzo austriaco rimasto orfano. Il capofamiglia si chiamava Gerg, la moglie, Adelmute. Era una famiglia molto generosa che in tempo di guerra sfruttò ogni occasione per contrastare il nazismo con atti concreti di accoglienza e sostegno alla Widerstand, la Resistenza tedesca, oggi celebrata da una scritta sul Monumento di Berlino eretto in onore di tutti i resistenti: 'Ihr trugt die Schande nicht, Ihr wehrtet Euch, Ihr gabt das große ewig wache Zeichen der Umkehr, opfernd Euer heißes Leben für Freiheit, Recht und Ehre.'
Auguro alle generazioni future di non fare la stessa vita che ho fatto io: intimamente nascosta. Bensì, di essere cittadini liberi in uno Stato libero, in cui i diritti siano garantiti a tutti, senza distinzione di età, genere, colore della pelle, degli occhi, dei capelli, tendenza affettiva o sessuale, sanità o disabilità fisica o psichica, appartenenza sociale o etnica, fede religiosa o credo politico, eccetera. Di tutte queste io, cristiano e cattolico, sono stato discriminato per il mio orientamento affettivo e sessuale, perché ritenuto non conforme all’etica e alla morale religiosa, cristiana-cattolica, dominante in Italia.
Pertanto, avendo permesso, i politici che hanno governato prima e dopo la mia nascita, gravi intromissioni della politica Vaticana nella vita dello Stato italiano, sono stato costretto, da costoro, a non vedere riconosciuti i miei diritti affettivi e a vivere, a causa di una dilagante e imbarazzante, non contrastata, omofobia, nel segreto e in estrema misura privatamente il manifestarsi di ciò che di più bello caratterizza la vita e la persona umana: la sua capacità di innamorarsi.
Per vivere la mia fede nella comunità cattolica, ho dovuto nascondere i miei sentimenti e affetti, pur essendo essi un mio diritto naturale e un dovere in quanto uomo. Li ho dovuti nascondere perché la maggior parte dei miei fratelli cattolici sono persone dall’intelligenza e dal cuore compressi dal loro bigottismo e hanno, in tal modo, scandalosamente potuto decidere della vita di minoranze, pensando soltanto alla falsa immagine che si sono fatti di Dio, nella presunzione di interpretare il suo volere e sostituirsi ad esso nel giudizio.
Ma, nonostante loro, non ho mai nascosto a Dio la mia natura più intima, non l’avrei nascosta neanche se avessi potuto farlo perché, così facendo, avrei messo in atto lo stesso atteggiamento codardo di quando, nel giardino dell’Eden, l’uomo e la donna si nascosero perché si videro nudi. La nudità di cui si parla nei testi sacri era, forse, rappresentativa di una coscienza-conoscenza che non corrispondeva a ciò che pensavano, l’uomo e la donna, che Dio pensasse di loro: si giudicarono da soli e si nascosero. Ecco il peccato che io non voglio assecondare e che molte persone vorrebbero che io assecondassi, giudicandomi e nascondendomi a Dio.
Auguro alle generazioni future prosperità e libertà di decidere e disporre della propria vita secondo la loro più pura e libera coscienza, dove risiede ciò che ciascun uomo-donna è realmente.
Personalmente mi ritengo responsabile del compromesso che ho scelto per il quieto vivere e che, da ora in poi, non posso più accettare.
In quanto agli extraterrestri, ebbene, io ne ho fatto l’esperienza, lo sono stato. Ma, alla fine, ho deciso di tenere il corpo e lo spirito umani, così come mi sono stati dati.
[...] La guerra è passata esattamente in mezzo alla mia adolescenza, devastandola. Sono della generazione Flakhelfer, come vengono comunemente chiamati i nati del 1926-27. Ero un soldato bambino tedesco. Pertanto fui impiegato da Hitler nel programma Luftwaffenhelfer, implementazione dell’ordine di “Kriegshilfseinsatz der Jugend bei der Luftwaffe” e cioè “Utilizzazione dei giovani per supportare lo sforzo di guerra delle forze aeree”, emesso il 22 gennaio 1943. L’ordine chiedeva l’arruolamento di intere classi scolastiche maschili di studenti nati nel 1926 e 1927 (successivamente esteso per includere i nati nel 1928 e 1929), in un corpo militare supervisionato da personale della Gioventù Hitleriana e della Luftwaffe. Prevedeva un indottrinamento ideologico, doveri militari e una continuazione limitata del normale curriculum scolastico. Per diversi mesi feci parte del programma ma non riuscirono mai a innestarmi nel sistema, rimasi sempre segretamente dissidente, finché riuscii a fuggire in Svizzera con i miei genitori contadini, dove vissi fino alla fine della guerra, ospite di alcuni nostri lontani parenti: i coniugi Huber. Viveva con loro il nipote Karl, un ragazzo austriaco rimasto orfano. Il capofamiglia si chiamava Gerg, la moglie, Adelmute. Era una famiglia molto generosa che in tempo di guerra sfruttò ogni occasione per contrastare il nazismo con atti concreti di accoglienza e sostegno alla Widerstand, la Resistenza tedesca, oggi celebrata da una scritta sul Monumento di Berlino eretto in onore di tutti i resistenti: “Ihr trugt die Schande nicht, Ihr wehrtet Euch, Ihr gabt das große ewig wache Zeichen der Umkehr, opfernd Euer heißes Leben für Freiheit, Recht und Ehre.”
Me lo potrebbe tradurre Eccellenza? Il tedesco non è il mio forte…
Significa: “Voi non avete portato la vergogna, vi siete difesi, avete dato il grande, per sempre vivo, segno del cambiamento, sacrificando la fiamma della vostra vita, per la libertà, la giustizia e l’onore.”
Nella Germania nazista anche le Chiese Cattolica e Protestante, nonostante una decisa inclinazione, per me imperdonabile, a non contrapporsi alle linee di governo, ebbero, tra le loro fila, alcuni oppositori che attaccarono con coraggio e apertamente, anche in pubblico, il regime inumano di Hitler: aiutarono gli ebrei ma senza riuscire ad allineare le intere comunità religiose contro il regime. Tra questi ricordo Martin Niemöller e il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer (assassinato dai nazisti), o la Bekennende Kirche, formazione critica all’interno della Chiesa Protestante. Personaggi autorevoli, quali i vescovi cattolici Clemens August von Galen e Theophil Wurm, protestarono contro l’attuazione del cosiddetto “Programma eutanasia”, ossia l’eliminazione o la sterilizzazione di tutte le persone affette da malattie genetiche. Tutti costoro agirono in modo individuale e rimasero isolati senza ricevere alcun appoggio da parte delle loro Istituzioni.
Rimasi in Svizzera circa un anno, dove riuscii, tra un lavoretto e l’altro, a continuare i miei studi, mentre i miei genitori aiutavano Gerg e Adelmute negli impegni della fattoria. Arrivavano le notizie tragiche della guerra ma, nonostante tutto, sentivamo vicina la liberazione.
Karl aveva la mia stessa età, era un ragazzo biondo, magro, con gli occhi azzurri e un bel volto ariano, diventammo subito molto amici. La domenica mattina, solitamente, dopo colazione, andavamo a fare un’escursione in montagna.
Partivamo presto, camminavamo ore per arrivare sui picchi dai quali si potevano ammirare le pianure circostanti e un bellissimo lago che mi ricordava il lago di Bodensee, dove d’estate andavo a rinfrescarmi con la mia famiglia.
Karl e io, durante la settimana, la mattina studiavamo mentre nel pomeriggio ci dedicavamo a fare dei lavori che i nostri genitori programmavano per noi. La convivenza era snella, serena, ognuno faceva il proprio dovere, per quanto, talvolta, si trattasse di piccole cose. Eravamo tutti coscienti che soltanto così, lì dove eravamo, nella nostra apparente impotenza, avremmo potuto avere la meglio sulla distruzione nazista.
Un giorno arrivò alla fattoria una camionetta. L’autista era un omaccione barbuto, quando scese si guardò intorno e, dopo aver stretto la mano a Gerg e a mio padre, entrò in casa al loro seguito. Uscirono dopo un quarto d’ora dirigendosi tutti e tre verso la camionetta, dalla quale, a un richiamo dell’autista, scesero, da dietro, tre giovani uomini. Si vedeva chiaramente che erano militari in borghese, vestiti malamente con taglie non loro e con la barba incolta. Erano tedeschi disertori.
Poco dopo il camion si rimise in moto e partì lasciando dietro di sé i tre giovani tedeschi circondati da una fumata nera che lentamente si dileguò nell’aria. In silenzio furono accompagnati nella baracca adiacente alla stalla, dove erano stati allestiti, già da tempo, alla bene e meglio, dei giacigli. Uno di loro, forse il più giovane dei tre, passandomi vicino alzò lo sguardo da terra e mi sorrise, ricambiai. Ricordo i suoi occhi chiari e luminosi che mi indussero a pensare alla terribile perdita che sarebbe stata la sua morte: quegli occhi, così vivi e fieri, che rivelavano lo spazio immenso e forse irraggiungibile dell’anima, rappresentarono, per me, quella di ogni uomo. Come sarebbe stato il mondo senza quel ragazzo? Quanti sguardi simili la guerra aveva oscurato? E quante anime aveva cacciato via dai corpi?
Tra me e me pensai a Dio, non so perché ma davanti a quegli occhi mi posi il problema dell’esistenza di Dio, per la prima volta la pensai necessaria. Tutto il dolore che la guerra aveva portato, tutte quelle morti di donne e uomini, di bambini, giovani e anziani, le persecuzioni, le torture, avrebbero trovato, senza Dio, il loro riscatto, il loro perché? Dio mi parve necessario per riscattare tutti, non poteva non esserci, la sua assenza sarebbe stata un’ingiustizia immensa nei confronti di tutti loro. In quegli istanti, mentre seguivo con lo sguardo i tre soldati che andavano verso il loro alloggio, pensai: “Non è possibile che la morte possa annientare la coscienza e la bellezza che ogni uomo porta in sé.” Mi pareva assurdo, inconcepibile, doveva esserci un modo per salvare tutto questo. In quel mentre Karl mi diede una pacca sulla spalla e fu come se mi svegliasse. Stavo in una nuvola di pensiero tutta mia, è straordinario come il nostro cervello riesca a isolarci dal mondo, sollevandoci in luoghi personalissimi, terribili o sublimi. Sorrisi a Karl e ci avviammo a fare il nostro lavoro programmato, dovevamo tagliare la legna. Era la fine dell’estate del 1944, bisognava iniziare a fare le provviste per l’inverno.
Il giorno dopo, Karl, mi disse che aveva parlato con i tre giovani soldati, ai quali aveva portato del latte e del pane per la colazione, erano soldati della Schutzstaffel, le famigerate SS. La cosa mi inquietò e non poco, però mi rasserenai appena Karl mi disse che erano stati assegnati non da molto a tale reparto e proprio per quella loro assegnazione avevano disertato. Non avevano trucidato nessuno… per fortuna.
Il giorno successivo al loro arrivo, tra lo studio e alcune commissioni in paese, rimasi fuori tutto il giorno. A sera, Karl, quando mi vide arrivare in lontananza, mi venne incontro in bicicletta e fece l’ultimo pezzo di strada insieme a me a piedi. Mi disse che nel pomeriggio aveva accompagnato i tre soldati a passeggiare tra i prati, gli avevano raccontato le atrocità della guerra, dei campi di sterminio e del pericolo che correvano le loro famiglie se si fosse scoperta la loro diserzione. Erano tre ventenni che provenivano dallo stesso paese della Germania, diventati amici sotto le armi.
Poche settimane prima riuscirono ad avere, contemporaneamente tutti e tre, quattro giorni di licenza. Fu in quell’occasione che, tramite una persona a conoscenza dell’antinazismo segretamente custodito dalle loro famiglie, si misero in contatto con la Resistenza tedesca e organizzarono la loro diserzione e scomparsa prima che qualche ufficiale delle SS li costringesse a compiere dei crimini.
Alcuni uomini della Resistenza riuscirono a simulare il loro sequestro proprio durante il rientro in caserma dopo la licenza, nel bel mezzo di un tratto di strada disabitato per chilometri, con tanto di fuoco incrociato e spargimento di sangue. Una gallina fu sacrificata, in modo da spargere del sangue sul mezzo che li trasportava; insomma, fu un sequestro simulato e compiuto ad arte, proprio in una zona della Germania in cui era totalmente insospettabile la presenza della Resistenza, infatti, il loro era uno dei distretti in cui la popolazione sosteneva maggiormente il Führer, con varie attività propagandistiche e ingenti donazioni alla causa. Non sarebbe stata facile una rappresaglia, poiché abitavano in quell’area molte famiglie e parenti di ufficiali nazisti. Fu la Gestapo a gestire il caso, con indagini che finirono nel silenzio quando uno dei comandanti della stessa Gestapo, proprio originario di quel distretto, impartì l’ordine che nessuno lì dovesse essere toccato. Così si limitarono, su disposizione del comandante, ad aumentare la presenza della polizia segreta e dell’esercito sul territorio. I boschi, dove frange della Resistenza potevano avere il loro rifugio, vennero setacciati in lungo e in largo ma senza risultati.
I tre soldati, opportunamente nascosti, furono portati in Svizzera. Le loro famiglie vennero aiutate, nel loro sostentamento, con una colletta dell’intera comunità, incosciente del loro antinazismo, e i figli inneggiati a eroi finiti nelle mani dei traditori, forse per essere giustiziati. Invece vennero presi in consegna da una sezione svizzera della Resistenza, capeggiata da un amico di Gerg, e portati da noi. Si seppe poi che le famiglie furono messe sotto stretta sorveglianza, non si riuscì a capire se per proteggerle, per attendere eventuali contatti dei rapitori o se per controllarne i movimenti nel dubbio che fossero collusi con i resistenti. Questi ultimi furono attivi in Germania negli anni dal 1938 al 1944. Furono responsabili di diciassette attentati alla vita di Adolf Hitler, l’ultimo dei quali, il complotto del 20 luglio del 1944, causò la cattura e l’esecuzione di più di duecento oppositori del regime (certi o solo sospettati), il movimento ricevette un colpo mortale e venne praticamente stroncato, anche se alcune piccole cellule rimasero attive, tra queste c’era proprio quella che aiutò i tre soldati a fuggire.
Il soldato, che il primo giorno del loro arrivo mi aveva sorriso, si chiamava Jürgen, era un ragazzo molto cordiale. Fui colpito dalla sua bellezza, portava i capelli rasati, aveva lo sguardo sereno, si rispecchiava nei suoi occhi il verde dei campi, le labbra rosse erano scolpite sul chiaro della carnagione ed era evidente la sua dentatura perfetta. In quei giorni di fine estate, la sera, andava a correre nei campi, quando era distante dall’abitazione si toglieva la maglietta e rimaneva a petto nudo, aveva un fisico invidiabile.
La domenica successiva all’arrivo dei tre soldati, io e Karl, li accompagnammo a fare una gita in montagna, passammo una giornata stupenda, tra un gioco, una chiacchiera e uno scherzo ci raccontarono le loro esperienze militari. Ben presto diventammo molto amici e confidenti, eravamo una sorta di banda, una piccola brigata partigiana contro i nazisti; stavamo pensando di metterci a disposizione della Resistenza, qualora fosse stato necessario, di rientrare in Germania per dare sostegno logistico ai resistenti.
Un pomeriggio Karl, Jürgen e un altro di loro, Curd, andarono al fiume. Io e il terzo, Eilmar, rimanemmo a casa a preparare la cena per tutti, a tavola eravamo ben nove, se poi c’erano degli ospiti, arrivavamo tranquillamente a fare la stessa tavolata dell’“Ultima cena”, e succedeva spesso. Mi pare di ricordare che preparammo un ottimo brodo di gallina e polenta con erbe raccolte nei campi.
Quella sera Karl, Jürgen e Curd stavano ritardando a rientrare, la cena era ormai pronta da un pezzo, li stavamo tutti aspettando, impazienti per la fame e leggermente preoccupati.
Arrivarono di corsa, trafelati, consci del ritardo e scusandosene. Karl mi guardò fisso negli occhi, come se volesse verificare se avevo qualche domanda da fargli. Da un gesto che fece mi parve ansioso di parlare con me. Jürgen era sorridente, come sempre, ma anche lui mi guardava con uno sguardo diverso, sembrava in cerca di complicità, spostava lo sguardo su Curd e Karl, si sorridevano l’un l’altro, non li capivo, era successo qualcosa ma non capivo che cosa.
Finita la cena, svoltasi in serenità, Karl mi chiese se potevo andare con lui in camera nostra, dormivamo nella stessa stanza in due letti separati. Lo seguii incuriosito, a mia volta seguito dallo sguardo luminoso di Jürgen e quelli di traverso di Curd ed Eilmar. Mi fece entrare in stanza. Dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno sul pianerottolo, chiuse la porta. Andò a sedersi sulla sedia a dondolo vicino alla finestra, io mi sedetti sul letto. Mi guardò e disse: “Sei capace di tenere un segreto, anche se quanto ti dico non trovasse il tuo favore? Per amicizia?” Dissi di sì, continuò: “Oggi è stata una bella giornata, con Jürgen e Curd siamo arrivati al fiume, quasi rincorrendoci l’un l’altro, avevamo voglia di tuffarci, di scrollarci di dosso la pesantezza di questi giorni tremendi in cui arrivano, da tutta Europa, notizie preoccupanti, terribili, disgustose. Arrivati al fiume, nel solito posto che conosci, ci siamo spogliati… io e te teniamo sempre addosso le mutande, loro due, invece, si sono spogliati completamente. Non nego che ero in imbarazzo: se ne sono accorti, così mi sono venuti vicino e mi hanno tolto le mutande, sono rimasto pietrificato. Vedendomi paralizzato, Jürgen mi ha detto: ‘Che piccolo!’ Riferito al mio membro, a quel punto siamo scoppiati tutti e tre in una fragorosa risata e ci siamo buttati in acqua, rimanendo in ammollo, tra una burla e l’altra, per una ventina di minuti. Usciti dall’acqua ci siamo stesi sull’erba, al sole. Si stava così d’incanto che ci siamo addormentati, penso che abbiamo dormito una mezz’oretta. Il primo a svegliarsi sono stato io. Mi sono stropicciato gli occhi e, rimanendo seduto, mi sono messo a osservarli. Non avevo mai visto, così da vicino, due corpi integralmente nudi, erano belli, distesi in quel silenzio scrosciante d’acqua e nel verde della natura. Jürgen era vicino a me, sembrava immerso in un sonno profondo ma, all’improvviso, ha aperto gli occhi; intimidito ho distolto bruscamente lo sguardo dal suo corpo ma, ormai, si era accorto che lo stavo contemplando. Fissandomi negli occhi si è fatto più vicino: mi sono sentito imprigionato dai suoi occhi verdissimi, i denti bianchi come il marmo, le labbra rosse come amarene. Il suo volto si avvicinava sempre di più al mio, con lentezza, mi fissava e io non riuscivo a distogliere lo sguardo, penso che i serpenti facciano una cosa simile per incantare le loro prede, la paura ha lo stesso effetto immobilizzante e attrattivo della passione che monta. Iniziavo a sperare che non si fermasse e infatti non lo ha fatto: ha continuato il suo percorso fino ad arrivare con la sua bocca vicino alla mia, ne sentivo il respiro, a quel punto una fortissima eccitazione mi ha spinto verso di lui. È successo come quando si avvicina una calamita a un pezzo di ferro, dapprima quello resta fermo ma quando la calamita arriva a una certa distanza fa uno scatto improvviso e si attacca alla calamita. Così ho fatto io, gli sono caduto sulle labbra, perdendomi in un lungo bacio, sia io che lui abbiamo avuto un’erezione. Curd si è svegliato proprio quando Jürgen stava allungando la sua mano verso i miei genitali, lo vedevo soltanto io, Jürgen non se ne era accorto e continuava. Con gli occhi sbarrati guardavo Curd, non riuscivo a muovermi, nessuno mai mi aveva toccato i genitali, ero in estasi. Curd, anziché avere un motto di repulsa, disgusto o sorpresa, si è avvicinato a noi e ha iniziato a carezzare Jürgen da dietro, poi ha iniziato a baciarlo sulla schiena e a carezzare anche me. Abbiamo giocato così, in tre, per lunghi minuti, finché siamo arrivati all’apice del piacere. A quel punto ci siamo accasciati nuovamente sull’erba e siamo rimasti così abbracciati fino a quando abbiamo pensato che forse, vista l’ora tarda, era il caso di rientrare, e di corsa. Ecco tutto.”
Davanti a quel racconto non rimasi né scandalizzato né stupito ma solo incuriosito e anche un po’ eccitato a mia volta. Posso dirlo no? Anche noi vecchi siamo stati giovani e anche noi preti siamo uomini. Karl disse che tra Jürgen e Curd non era la prima volta che succedeva, anche Eilmar ne era a conoscenza ma lui, pur favorevole a quei loro incontri amorosi, non partecipava. Jürgen e Curd avevano avuto anche delle ragazze, almeno così dissero a Karl, ma non gli dispiaceva giocare tra loro, la cosa era nata proprio sotto le armi. Se li avessero beccati sarebbero stati giustiziati ma, disse, erano stati sempre molto prudenti, Eilmar, di cui si fidavano come un fratello, faceva loro da spalla.
Una notte Karl si alzò, nonostante nel vestirsi si muovesse cautamente, mi svegliai, gli chiesi dove stesse andando. Disse che aveva voglia di incontrare Jürgen, gli chiesi allora se non gli dispiacesse che lo accompagnassi. Fu molto contento della mia richiesta, mi vestii e scendemmo insieme. Era una notte di Luna quasi piena e i grilli cantavano a più non posso, il paesaggio, così illuminato, sembrava fantastico.
Il riflesso della Luna sul selciato davanti a casa, l’ombra degli abeti, i profumi sparsi di quella notte, portavano con loro, per me, la mia infanzia trascorsa a Marktl, dove vissi felice insieme alla mia famiglia. Si aprì un varco nel tempo e vi entrai, per un attimo mi smarrii nel passato, dove scorsi un disegno d’amore a cui non avevo mai fatto caso. Ero cristiano ma non praticante, eppure quella notte, davanti a quello scenario in connessione col mio passato, vidi chiaro un disegno d’amore infinito, una voragine d’amore inglobava la mia vita, Karl e tutto il creato, anche quell’assurda e stupida guerra. Pensai che forse era stato Dio, in quel momento inaspettato, ad aprire per me il Paradiso.
Poco prima chiesi a Karl di andare con lui da Jürgen, perché avevo voglia di affetto, di amore, ma uscendo da casa trovai quest’ultimo lì davanti a me, nel creato, nel ricordo degli anni passati, nel bene ricevuto, nelle sofferenze subite, come una medaglia che da un lato ha la croce e dall’altro la resurrezione, in mezzo essendoci lo spessore di un’esistenza, la mia, per quanto fosse ancora breve. Mi commossi.
Karl aveva già svegliato Jürgen e Curd, stavano uscendo dalla baracca e mi facevano cenno di seguirli nella campagna. Andammo veloci, correndo nei prati, ma ero ancora scosso ed emozionato per quella visione interiore che, come un godimento, tardava a scemare, anzi, persisteva. Arrivammo in prossimità di un fosso asciutto, al riparo di un abete altissimo, con i suoi rami più bassi lo nascondeva, nel fosso c’era un muschio soffice. Io e Karl andavamo spesso lì a riposare al riparo dalla calura estiva, talvolta a leggere.
I raggi lunari riuscivano a penetrare fin sotto i rami, illuminando a chiazze il terreno e i nostri volti. Disposti in cerchio, ci guardavamo sorridenti, eccitati, finché iniziammo a baciarci l’un l’altro in un vortice d’amore e a spogliarci all’impazzata. Tornammo all’alba, quando tutti ancora dormivano ignari della nostra nottata, tranne Eilmar.
Mi porto quella notte in cuore come un dono d’amore. È incredibile no?, Daniele, come un vescovo della Chiesa Cattolica possa portarsi un’esperienza siffatta nel bagaglio della propria vita e pensarla, addirittura, come un’esperienza divina, un incontro con Dio: il momento esatto in cui sentii la chiamata al sacerdozio anche se, in quel momento, non sapevo che fosse la mia chiamata.
Il sacerdozio! Che cos’è se non un allargare le braccia sul creato in cui Dio si è compiaciuto? Che cos’è se non il recupero del Paradiso perduto nel cuore dell’uomo al centro del Creato? Quella notte mi parve di capirne il senso e il significato, vidi il Cosmo tra le mani di Dio, lo spazio e il tempo contratti in un solo punto dentro la mia anima, assaporai l’amore irrinunciabile di Dio per me e per ogni uomo, anche nell’eccitazione, tra le carezze di quegli amici: l’amore è una promessa che nessuna spada potrà ferire, nessuna disgrazia, nessun delitto, nessun peccato, non certo la morte.
Eccellenza, queste sue ultime parole mi portano alla mente certe vicende bibliche in cui sembrano mescolarsi sacro e profano, con slanci verso il divino a partire dalla debolezza della natura umana, senza complicati moralismi: Sara, non riuscendo ad avere figli da Abramo, pur avendo una promessa di Dio riguardo alla loro discendenza, permise alla sua schiava, Agar, di essere ingravidata da Abramo, per poi farla partorire tra le sue gambe, una modalità ora impensabile per l’artificiale morale cattolica.
A questo punto mi sorge una domanda, mi scusi, Eccellenza, se è indiscreta: ha avuto altre esperienze di natura omosessuale?
No, Daniele. Non ne ho più avute da quella notte. Anzi, nei giorni successivi incontrai in paese una ragazza di cui mi innamorai. Era una bella ragazza mora, occhi neri, magra, alta quanto me, un anno più piccola. Era la figlia del macellaio. La notai un giorno mentre stavo passando, con affanno, davanti al loro negozio, correvo perché ero in ritardo, avevo un appuntamento con il verduraio, al quale dovevo portare delle verdure che coltivavamo alla fattoria e che lui vendeva alla sua bancarella.
Avevo una cesta pesantissima sulle spalle ma non potei non incantarmi quando vidi Landeline in piedi sulla soglia della bottega del macellaio. I miei occhi si piantarono su di lei e non riuscii a distoglierli, se non quando scappucciai sull’orlo del marciapiede e finii in terra con tutte le verdure che rotolavano intorno. Lei corse in mio soccorso, insieme ad alcuni passanti mi aiutò a raccogliere le verdure, la ringraziai e, salutandola, me ne andai frastornato.
Il giorno dopo riuscii a indurre in casa la necessità di carne, così mi offrii per andare a comprarla dal macellaio del paese. Quando varcai la soglia della macelleria il padre di lei ricambiò il mio saluto e mi chiese che cosa desiderassi; notai la ragazza in un angolo, nascosta dietro il bancone di marmo mentre stava spennando un pollo, la salutai con un sorriso. Il padre mi richiese, stavolta malamente, che cosa desiderassi, dissi: “Un pollo, grazie”, sebbene alla fattoria avessimo polli a bizzeffe. Landeline mi riconobbe. Ricordo i suoi occhi su di me mentre il padre, voltatosi di spalle per andare a prendere un pollo appena spennato da lei, non poteva vederla. Le feci un ampio sorriso, da lei corrisposto.
Pagai e me ne andai con il pollo in un cartoccio da cui pencolava la testa, ero così incantato a pensare alla bellezza di Landeline che, appena uscito dalla macelleria, un cane gli diede un morso staccandogliela.
Il giorno successivo raccontai a Karl di chi mi ero invaghito, lui conosceva molto bene la famiglia di Landeline, così andò a trovarli con la scusa di portargli delle verdure, in tal modo riuscì a dare di nascosto a Landeline un mio biglietto. Le scrissi per chiederle se potevamo stare un po’ insieme per conoscerci; se voleva rispondermi bastava che desse il suo biglietto al figlio del verduraio, già amico di Karl e Landeline e diventato, poi, anche mio amico. Il ragazzo, opportunamente istruito da me, sarebbe stato discretissimo. Se Landeline gli avesse dato il biglietto avrebbe dovuto raggiungermi subito e io l’avrei in qualche modo ripagato della cortesia.
Ricevetti ben presto il tanto sperato biglietto, nel quale ella scrisse che era rimasta molto attratta da me, le piacevano i miei occhi allegri e il mio fare un po’ goffo per la timidezza, avrebbe voluto conoscermi di più. Ci incontrammo lungo un sentiero che attraversava il bosco vicino a casa sua, dove lei era solita fare, da sola, una passeggiata la domenica mattina dopo la Messa, in attesa del pranzo. Quella domenica, caso eccezionale, andai anch’io a Messa, poi la seguii di lontano, quando si inoltrò nel bosco, lungo il sentiero, al riparo da sguardi indiscreti, la raggiunsi.
Be’, devo dire che la Messa fu interessante. Venne letto il Vangelo in cui Gesù chiese, a quelli che sarebbero poi stati i suoi apostoli, di tornare, dopo una pesca fallimentare, a gettare le reti nel lago, promettendo loro che, sulla sua parola, avrebbero pescato tantissimi pesci. Lo fecero e, per quanto dubbiosi, pescarono i pesci promessi, anzi, ne pescarono così tanti che dovettero chiamare altre barche ad aiutarli. Quel Vangelo fu come un dardo infuocato che centra il suo bersaglio, il bersaglio ero io.
Andai all’incontro con Landeline, ancora pensando a quanto avevo ascoltato. Le chiesi se il Vangelo l’avesse colpita, disse che non se lo ricordava, sorrisi. Passeggiammo e parlammo divertiti di noi. Quando per lei fu il momento di andare a pranzo ci salutammo, ma prima le chiesi se avrebbe avuto piacere di incontrarmi nuovamente. Disse di sì, intenzionata a chiedere a suo padre se la domenica successiva avrebbe potuto, con due sue care amiche, venire a fare una gita in montagna con Karl e me. E così avvenne: la domenica successiva andammo in montagna. I tre soldati rimasero a casa, era meglio lasciare le donne in maggioranza, il padre di lei sarebbe stato più tranquillo.
Andammo a prendere Landeline a casa sua, dove già stavano le sue due amiche ad aspettarci, io e Karl non entrammo in casa, appena ci videro arrivare, le tre ragazze, uscirono velocemente. Mentre ci allontanavamo vidi il padre e la madre di Landeline che ci stavano osservando attraverso i vetri della finestra, lei si voltò verso di loro, la salutarono con un gesto delle mani.
La giornata passò bene, fu una gita spensierata di adolescenti, camminammo, mangiammo e giocammo sui prati, le ragazze erano molto simpatiche. La sera le riaccompagnammo a casa. Lasciate le due amiche davanti alle rispettive case, Karl si propose per presentarmi al padre di Landeline, lei fu entusiasta di quell’idea.
Il padre venne alla porta con uno sguardo burbero, prevenuto ma, quando la figlia, raggiante, gli si gettò con le braccia al collo, si sciolse in un vasto e prolungato sorriso, le accarezzò il volto e disse: “Figlia mia com’è andata la gita? Sei stata bene?”. “Sì papà, molto bene. Abbiamo camminato, corso e sorriso molto. Lui”, rivolta a me, “si è anche arrampicato per raccogliere questo bellissimo fiore, solo perché quando l’ho visto lassù in alto”, e indicò con il dito un punto imprecisato, “ho detto: ‘Quello è il fiore della regina delle montagne’.” Il padre mi guardò di sbieco come a intendere: “Non aspettarti che ti ringrazi, anzi stai bene attento a te.” Poi rivolgendosi a Landeline disse: “Vai in casa a salutare la mamma.” Lei andò di corsa. Rimasi con Karl e il padre. Karl prese la parola interrompendo il mio imbarazzo, mi presentò al padre dicendo che ero un suo cugino, figlio di bravissima gente venuta dalla Germania perché antinazisti. A quelle parole il padre si rasserenò, mise via l’artiglieria fittizia e accennò un sorriso stringendomi la mano. Stranamente, dopo due mie battute azzeccate, gli rimasi simpatico e mi invitò a cena con Karl per il sabato seguente. Landeline, che era appena tornata sull’uscio, appresa la notizia esultò, io con lei.
Io e Landeline ci frequentammo per tutto l’inverno come amici, non eravamo fidanzati. Nel corso di quei mesi non ci demmo mai neppure un bacio. Passammo anche il Natale insieme, le nostre famiglie con quella di lei. Non osavo chiedere la mano di Landeline perché sapevo che prima o poi avrei dovuto lasciare la Svizzera per tornare nella mia patria.
Tra aprile e maggio del 1945 tutto precipitò, la Germania iniziò a capitolare, l’esercito sovietico e quello statunitense si incontrarono, il 25 aprile, tagliando la Germania in due. Le prime unità a prendere contatto furono la 69ª divisione di fanteria statunitense e la 58ª divisione sovietica, vicino a Torgau, sul fiume Elba. Hitler si suicidò il 30 aprile, la guerra finì. E tutto precipitò anche su di me, i miei decisero di rientrare in Germania, di tornare a casa, c’era da ricostruire la Nazione. Ero disperato, lì avevo Landeline, Karl, nuovi amici, in Germania non avevo nessun amico come loro.
…
Scusa Daniele, ecco suor Ermenegilda. Prego, venga, Daniele la stava aspettando con l’acquolina in bocca.
Chiedo scusa per il disturbo ma questi pasticcini non possono più attendere, iniziano a manifestare una certa insofferenza, vorrebbero essere gustati. Ecco qua, anche per lei Eccellenza. Questa sera le farò il brodino, ora può fare il goloso.
Grazie suor Ermenegilda, non vedo l’ora di assaggiare il suo brodino, se poi vorrà metterci dentro qualche cappelletto, sarà una festa.
Vedremo Eccellenza, vedremo. Non mi trattengo ché vi so impegnati. Buona continuazione. Ciao Daniele.
Grazie suor Ermenegilda. È sempre molto gentile. Arrivederci.
Continuo. Tu Daniele mangia pure, se vuoi prendi anche i miei pasticcini, in ogni caso il brodino è assegnato.
I tre giovani soldati, Jürgen, Curd e Eilmar partirono alla fine di maggio, tornarono dalle loro famiglie, erano felici. La mia partenza fu invece uno strazio, Landeline era affranta dalla notizia, le dissi: “Se sarà volontà di Dio tornerò.” Non so perché dissi così, non era una affermazione che mi apparteneva, mi era uscita dalla bocca senza volerlo, e lo notai.
La sera che seppi la data della mia partenza feci arrivare un messaggio a Landeline, la quale, molto scossa, volle a tutti i costi vedermi. Trovammo una copertura grazie a una sua carissima amica, una delle due ragazze della prima gita in montagna. Disse ai genitori che sarebbe andata da lei e, invece, venne da me.
Arrivò nel buio, le corsi incontro. Mi abbracciò piangendo, anch’io la abbracciai molto forte, finché smise di piangere. Sentivo il profumo dei suoi capelli salire nelle mie narici, aveva intorno alla testa un alone “luminoso” per l’olfatto; quel profumo gliel’avevo sempre sentito addosso ma solo ora diventava per me così necessario e scoprivo quanto avrei voluto averlo sempre nelle mie narici, ogni notte, con lei tra le mie braccia: Landeline e io, insieme per sempre. Mi destai da questi pensieri quando mi fece una carezza sul volto. Le baciai la mano e decisi di portarla nella “Fossa della luna e dell’amore” (così avevamo chiamato la fossa sotto l’abete dopo quella notte d’amore con Karl, Jürgen e Curd).
Lì nascosti, nel silenzio della sera illuminata da una debole luna primaverile, ci stringemmo l’un l’altra, senza troppe parole. Il battito del suo cuore sul mio e il suo respiro vicino al mio orecchio, erano tutto ciò che pensavo di desiderare per la mia vita futura. La scostai un poco per guardarla in volto, dove i raggi di luna toccavano la sua pelle, la rendevano chiara come alabastro, gli occhi lucidi erano come due perle; non potrò mai dimenticare lo sguardo d’amore di Landeline mentre si avvicinava lentamente con il suo volto, fino ad appoggiare le sue labbra sulle mie, restammo così, a occhi chiusi, nei fiati si rimescolavano anche i nostri pensieri. Infine non resistetti, aprii la bocca e la baciai, facemmo l’amore. Fu come un frutto maturo che si dischiuse da solo, all’improvviso. Lo gustammo dolcemente.
Restammo a lungo sdraiati nella fossa, fintanto che l’ora tarda e il freddo ci imposero di tornare alle nostre case, la accompagnai. Camminavamo abbracciati e in silenzio. Sembrava preoccupata, forse perché mi aveva donato qualcosa che non avrei più potuto ridarle ma era felice, mi disse proprio così: “Sono felice”.
Personalmente avevo il timore che fosse rimasta incinta, non mi ero infatti regolato e, andando via, la lasciavo sola. Pensai però che non avrei esitato a tornare, qualora fosse successo il fatto, ma non sapevo come dirglielo. Aveva anche lei quella stessa preoccupazione? Decisi di informare Karl dell’accaduto, gli imposi il segreto e la discrezione e di vegliare su di lei; gli dissi che se avesse avuto anche solo il vago sentore di una sua gravidanza di farmelo immediatamente sapere, sarei in qualche modo tornato.
Di lì a pochi giorni partii con la mia famiglia, avevo ormai diciotto anni.
Gli anni passarono e non rividi mai più Landeline. Continuammo a scriverci lettere per cinque o sei mesi dal nostro distacco, poi, rassicurato da Karl, decisi di entrare in Seminario, la informai, di comune accordo interrompemmo la corrispondenza. La decisione di entrare in Seminario mi entrò in cuore e non tornai più indietro. Dovevo diventare veramente sacerdote? Forse sì, oggi posso dire che c’è un’altissima probabilità che fosse proprio quello che Dio chiedeva a me… ma la certezza assoluta non ce l’ho.
Tutta la mia vita fu decisa in quell’anno di esilio svizzero. Feci l’esperienza omosessuale, l’esperienza eterosessuale e l’esperienza del sacerdozio universale, scelsi quest’ultimo e la castità che richiedeva. Quando entrai in Seminario, il primo giorno, mi sentii alleggerito e libero, molto semplicemente pensai: “Se son rose fioriranno.” In tutti questi anni posso dire di essere stato fedele alla mia scelta: con la grazia di Dio, almeno fino a ora, sono state rose fiorite… ma anche spine.
La vita è una questione di fedeltà, dalla quale si evidenziano la forza e la personalità di un individuo. Fai una scelta e sii fedele alla scelta, cambia la rotta soltanto quando il mare che stai navigando non è in tempesta, così insegnava Sant’Ignazio di Loyola.
Ci vogliono discernimento e capacità di attesa, qualche volta bisogna saper sdrammatizzare e sorridere dei nostri errori, in tal modo si riesce a vedere la strada anche nella notte; poi arriva l’alba e le motivazioni tornano chiare.
La maggior parte dei problemi, derivanti dalle nostre scelte, sono dovuti alla modesta scorta di “viveri”, alias fede e motivazioni, che facciamo alla partenza e che non ci permettono di arrivare neanche alla prima tappa, siamo cioè degli sprovveduti.
Perché scegliamo di percorrere una certa strada? Per opportunismo? Per prestigio? Perché tutti lo fanno? Per paura di quello che altrimenti potrebbe pensare la gente?
Penso che una strada vada scelta e percorsa perché siamo intimamente certi, in coscienza, in un momento di profonda verità con noi stessi, che quella è per noi la Strada. Allora facciamo scorte sufficienti per arrivare almeno alla prima tappa e partiamo.
Caro Daniele, riguardo alla mia storia ci sarebbero da dire molte altre cose, ma ciò che mi interessava era parlarti delle tre possibili vie che mi si presentavano davanti.
Perché ho scelto proprio questa in cui mi vedi? Non lo so. So solo che, in un momento di verità con me stesso, ho pensato che questa fosse la mia, anche confermata da chi di dovere. Ti faccio notare che le altre due opzioni sarebbero state entrambe possibili, non è che non le ho scelte per moralismo cattolico, o perché conoscevo la dottrina della Chiesa sul peccato e pertanto, per paura dell’Inferno, ho messo da parte la scelta omosessuale, no, non le ho scelte semplicemente perché questa soltanto, in cui mi vedi, ho avvertito essere la via adatta a me. Perché lo era? Boh, potrei raccontarti mille fatti che cercherebbero soltanto vagamente di giustificarmi, ma non riuscirei mai a farti vedere ciò che io vidi in me e intorno a me, per cui la scelsi. È stata una chiamata? Forse. Ma poteva essere una chiamata anche vivere la mia vita con Landeline, oppure con un uomo, con Karl? Con Jürgen? Con Curd? Con tutti e tre? La chiamata di Dio è una chiamata alla vita piena, è un invito a andare incontro a sé stessi e al Dio in noi; la nostra coscienza sa quello che siamo e quello che effettivamente dobbiamo fare per arrivare alla casa del Padre, come bambini in corsa che solo lì hanno rifugio e riposo. Ci sono delle aspirazioni profonde che Dio mette in noi e che ci costituiscono.
Dunque la domanda che ti devi porre è: “Che cosa vedo davanti a me? Quale strada mi mette nella pace? Che cos’è che veramente vorrei realizzare nella mia vita? Se fossi sul letto di morte, che rimpianto avrei, che cosa non ho fatto e che avrei dovuto o voluto fare?” A te la risposta per te stesso. [...]
Prediligo i gatti perché affusolati e leggeri sono indipendenti.
Ma Lapo era un cane che sapeva il fatto suo:
aveva il giusto abbaio e tra i libri era soddisfatto.
All’apertura del portone di casa – all’apice delle scale – appariva il suo muso incuriosito dall’ospite e a difesa inequivocabile dei suoi possessi avanzava e poi rientrava festante scalpicciando sul pavimento.
Padrone delle padrone per affetto e decisione saltava sulla poltrona in attesa di una riverenza (abituato all’agilità felina mi appariva impacciato).
Le carezze gliele ho sempre date ma lui preferiva odorare molto a fondo con quel suo naso umido e lo sguardo a chiedere un biscotto.
Lapo – ne sono certo – è rimasto soddisfatto del suo essere stato al mondo.
Se n’è andato seguendo la pista dei cani bravi e senza museruola.
Il suo ricordo è anche nella letteratura ma lui corre nella nuova terra canina
dove in nessun luogo è scritto Cave canem.
[ Testo pubblicato in Per Lapo, Autori Vari, Edizioni Gazebo, 2011. Raccolta di testi e testimonianze in memoria di Lapo, bracco tedesco dal mantello roano, nato presumibilmente nel mese di dicembre del 1998, adottato l'11 novembre 1999 dall'amica Gabriella Maleti a Firenze presso il canile comunale. Lapo è deceduto il 27 maggio 2011. Questo testo è la mia testimonianza di affetto per Lapo e per Gabriella. ]
Id: 1331 Data: 02/01/2012 14:11:15
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Sono zio, finalmente
Il giorno in cui sei nato
Il giorno in cui mi hanno annunciato che stavi per nascere ero alla stazione ad attendere un intollerabile treno che doveva riportarmi a Roma, città dalla quale ero arrivato due giorni prima, sperando che la tua nascita potesse avvenire proprio in quei giorni che stavo a Carrara. Ero in partenza, obbligato dal dovere del lavoro, ma il mio pensiero era quello di tornare da te, che saresti nato a momenti, per vedere come eri fatto, a chi rassomigliavi, come se non avessi mai visto un neonato prima di te.
Molto lentamente nella mia testa stava espandendosi l’idea che sarei diventato zio e un sangue simile al mio finalmente sarebbe scorso nelle vene di un bambino, il cui comune nome avrebbe significato amore incancellabile.
Quella stessa sera al notiziario della stazione annunciavano la morte di quarantuno persone in Pakistan, pellegrini uccisi in un attentato rivendicato dai Talebani. La tua mamma era ancora in travaglio. La tua vita stava per sbocciare, mentre persone ne uccidevano altre. Caro Pietro, ancora dovevi nascere e già pensavo di doverti dire una cosa a cui credo fermamente, la vita non è mai esaurita, mai persa, quello che tu inizi è il viaggio dell’eternità, è la meravigliosa esperienza dell’esistenza che già era prima di te ad attenderti e mai più ti lascerà.
Sei nato il 4 aprile 2011, il giorno dopo del mio ritorno a Roma. Ho saputo della tua nascita dalla zia Laura mentre uscivo dalla palestra con Giuliano, mi è arrivato un messaggio che diceva: “Siamo ziiiii:-)!!!”. Sei nato alle 18:23 di un giorno di primavera. Eri il fiore appena sbocciato. Insieme ad altri coloravi il giardino della vita, mentre noi, già alberi, ti osservavamo da quassù, non potendo fare altro che darti ora ombra ora sole, a nostra fantasia, pensando sempre di farti del bene… ma il sole, il tuo sole, la tua vera gioia, raggiungilo, cercalo e facci capire dove sta. Cerca quel sole e non permettere che la nostra chioma ti tolga luce. Nel giorno in cui sei nato molti hanno perso quella luce, adombrati da altri. C’erano guerre, anche vicino a casa, il popolo arabo cercava la sua libertà. In tante parti del pianeta che ci ospita, la Terra, vi erano persone in lotta per la giustizia e l’equità; anche la nostra amata Patria, dove tu sei nato, era oppressa dalle nefandezze di uomini politici corrotti, v’era un capo del Governo che ci stava disonorando in tutto il mondo, doveva essere processato, ma stava cercando di piegare il Parlamento, il tuo, quello della Repubblica Italiana, a realizzare leggi ad personam per salvare sé stesso dalla giustizia.
In quello stesso giorno in cui sei nato, nonna Marosa ha terminato la tua culla, l’ha cucita per te, e ha ricamato a mano lenzuola con canarini gialli, è felice perché sei arrivato.
Ti devo dire anche un’altra cosa importante, non è stato facile averti. La tua mamma e il tuo papà ti hanno desiderato molto. A un certo punto ho pensato di andare dalla tua mamma celeste, eri là con lei, il suo nome è Maria. Le ho chiesto di te, anche scrivendole, affinché tu potessi arrivare facendo felici mamma e papà insieme a tutti noi, nonni, zii, cugini e amici. Ho saputo che anche altri le hanno chiesto di farti arrivare, da dove non lo sappiamo. L’ho ringraziata, perché, sappilo, la gratitudine attira il bene, sii sempre grato alla vita e a chi ti ha desiderato più di ogni altra cosa.
Mi piacerebbe, quando sarai grande e potrai andare in giro da solo, che tu andassi a Ortonovo, al Santuario, lì la mamma celeste, alla quale ti affido, gioirà di te, portale un fiore, solo uno, tanto basta, e ringraziala.
E adesso una cosa divertente. Appena dopo aver saputo della tua nascita, stavo tornando a casa e per strada c’era il manifesto con la pubblicità del film di Nanni Moretti, Habemus Papam. Pietro, Pietro, che birbone…
Un bacio da zio Roberto.
Id: 932 Data: 04/04/2011 22:25:15
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L’infinito da una ferita
[ Pubblicato sul n. 22, giugno, 2010, della rivista La Mosca di Milano.Intrecci di Poesia, Arte e Filosofia ]
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da L’azzurro che c’incanta e non ci tormenta
Siamo corpi composti da materia forgiata nel centro delle stelle, dove nuclei di atomi fondono in sequenze di esplosioni in ambiente termonucleare; materia liberata nello spazio a seguito di un immane disastro, dapprima fluttuante nel più profondo silenzio, poi agglomerata in sfere infuocate su cui precipitarono meteore. A seguire, eruzioni di vulcani, vapori e poi acque e biologiche evoluzioni: amminoacidi (forse dal cielo delle comete) e poi cellule, pinne, arti e passi e…pensiero, che non sappiamo da dove arrivi. Senza ormai troppa sorpresa ci appartiene, molte volte non va più in alto della Luna, che c’immaginiamo fin troppo vicina.
Viviamo, tristi o allegri, abbracciando questo suolo, simili a una formica che pensiamo stupida quando, con il suo andare concitato, gira in tondo su una grossa biglia sospesa (basterebbe lasciarsi cadere per trovare nuovi spazi, più ampie distese, superfici altre), non pensando invece che le siamo simili in ottusità, quando, ostinatamente attaccati a questo pianeta, costruiamo la vita ritagliando via tutto ciò che sta oltre il cielo, diventando l’ultimo orizzonte l’azzurro che c’incanta e non ci tormenta, o il nero velo notturno forato da poche stelle, sotto i lumi cittadini che ci difendono dall’infinito.
L’immensità che spaventa il cuore, che s’allarga oltre, chi la pensa? Siamo qui a contare perdite e guadagni, arricchendo, provando a farlo, ansimando una vita intera appresso al folle soldo; ma chi è ricco di materia non lo è realmente, se non soltanto agli occhi di affamati e indigenti. Un solco netto d’ingiustizia divide chi possiede ciò che necessita per una vita serena e chi, povero, si rattrista sotto la greve indigenza. Con i soldi ci si accaparra qualcosa ch’è di tutti, luoghi e risorse che la natura dispone equamente sul piatto di ogni uomo: proprietà fittizia di beni frantumabili, materia che qualche stella certamente si riprenderà. Il guadagno, un tormento. Le vite si segmentano, senza una meta vera, uno sfondo che dia allegrezza. Se invece tutti potessero soddisfare le proprie esigenze primarie, cibo, cure, affetto, istruzione, rispetto, libertà, allora nuove energie potrebbero essere utilizzate nell’amare e nel conoscere…chissà come sarebbe se la vita dell’intera umanità fosse un unico fronte d’amore e conoscenza, e ogni intelligenza contribuisse alla ricerca universale. L’umanità, un unico variegato pensiero proteso verso l’universo intero, spazi remoti, oltre la Luna, oltre il Sistema Solare, verso altre stelle, alla ricerca di altri mondi e della vita universale, quella ch’è altrove, tra i miliardi di stelle-soli e pianeti.
Propongo come casa l’Universo, di cui ben poco si sa, per quanto esso sia già tutto nella nostra fantasia a soddisfare la nostra sete di infinito. Cede quello spazio sopra di noi, e ci viene addosso. Come quelle volte, troppo rare, che, per caso e distrattamente, ci troviamo a guardare in alto nel buio della notte, e un fiotto di verità esce dal pensiero, come da una ferita – che è in realtà l’unica parte sana –, a dirci ciò che siamo, così piccoli davanti all’infinito che neppure concepiamo, ma ci proviamo a farlo stare nel pensiero, finché avvertiamo ch’è meglio desistere prima di soccombere; esplode la mente nel non senso, ragionando essa, in modo errato, per spazio e tempo: se l’universo avesse una fine, dopo la fine che cosa ci sarebbe? Il pensiero s’allarga spostando le pareti universali, fino a scoppiare di contraddittoria sensazione; sulla soglia dell’assurdo ci ravviviamo, e scopriamo che nella nostra mente non è stato posto il concetto di fine, e neppure d’inizio, che a suo modo è una fine: lo spazio-tempo, un perpetuo iniziare o da sempre esserci. L’infinito e l’eterno, come sfere illimitate, sembrano essere le uniche soluzioni al non senso del finito esistere.
Chi glielo dice?
La notte in cui, camuffato tra le stelle, scoprii Saturno, e poi Giove, Marte, Venere, pensai di aver avuto la meglio su quel lontano cielo oscuro, punteggiato di lumi tutti uguali. Ma era troppo facile mettere i pianeti nel mio obiettivo, così prevedibili, avendoli scoperti, uno a uno, come in un gioco di nascondino universale. Furono invece le comete a farmi assestare quel vibrante colpo di pensiero e sguardo al cielo instabile ed enigmatico, fatto di oggetti così volubili che di notte, come un ammiraglio galattico, dovetti studiare strategie vincenti per scovare ciò che sfuggiva al mio cannocchiale. Poi, nei lunghi e appassionanti studi di astrofisica, arrivai al cospetto di ciò che non vedevo cogli occhi ma con l’intelligenza. L’intuizione mi mostrava, oltre la fantascienza, il più bello dei mondi possibile, il mio personale universo di pensieri che bucavano quel velo oscuro macchiettato di stelle e striato da comete. Suffragato dalla faticosa matematica arrivai all’inizio del tempo, dello spazio, all’origine dell’universo e alle sue più bizzarre leggi, fino all’estremo, alle teorie più affascinanti e belle che la mente sia mai riuscita a concepire. Modelli che predicono gli eventi e la sorte – come veggenti, gli scienziati, a leggere il passato dal futuro, a ogni nuovo arrivo ripartendo con più numerose domande ed enigmi entusiasmanti.
Ma chi glielo dice tutto questo a coloro che, oppressi dall’ingiustizia, ancora guardano al suolo con dolore e mestizia?
L’infinito, il simbolo
Un’anziana signora, in libreria, parla, affascinata da quello strano simbolo che spesso l’ignoranza matematica delle persone eleva a mistero, è quell’otto orizzontale contrassegno d’infinito. Parla con accento del nord Europa e, nella sua conversazione sbilenca, si riferisce finanche a quello smodato libro che ha nel titolo i numeri primi. Che insolite stupidaggini instillano i matematici, o chi per essi, con le loro scritture popolari, nelle persone assetate di conoscenza e che vivono all’ombra di quel gigante che un giorno, forse non lontano, ha rischiato di schiacciarli: la Matematica. I suoi luminari scrivono cercando la fama, come una volta i maghi e i druidi che facevano credere alla gente di essere a contatto con misteri tanto remoti all’esperienza umana.
Alcune persone parlano di quel simbolo, come la simpatica signora, con affannata convinzione, essendone venuti a conoscenza in una lettura obbligata da un contesto sociale saturo di ignoranza che propina vendita di sapere, comprato come due braghe al mercato. Ne parlano come se fosse una cosa reale e sulla quale possono dire, finalmente, la loro parola importante, sfidando l’interlocutore in una sorta di singolar tenzone, con lo sguardo tagliato di traverso come a indagare se v’è conoscenza di quel segno che adesso è nella loro mente, a risarcimento di tanta filosofia incompresa, pur ignorando la varietà, la straordinarietà, l’esuberanza e la stravaganza di tutti quei numeri che esso copre, come una statua di legno copre e nasconde il più grande mistero della vita reale di un santo, oppure come le rappresentazioni, nella storia artistica e religiosa dell’umanità, del Dio invisibile, che lo includono, rozzamente, in categorie umane immediatamente fruibili dalla spicciola trascendenza di persone spaesate dal sentore dell’innumerabile, della grandezza, dell’infinito.
La natura stessa ha posto per noi il sole a dipingere quell’azzurro del cielo, e quel fitto velo di stelle nell’oscurità del cielo notturno, al fine di non spaurire il cuore che, sincero, si pone il dilemma di dove stia quel fine e, creandone uno fittizio, lo supera, in un crescendo di limite e superamento dello stesso, fino a impaurirsi nel trovare, improvvisa nella mente, la sensazione dell’abisso, del nulla, dell’immenso, di un tutto che equivale a un niente. Quel simbolo di infinito, introdotto e usato dai matematici, è proprio così, è un faro nell’immenso, un sole nel cielo dei numeri infiniti, che mai hanno tregua nel loro susseguirsi, e rendendo quel cielo così azzurro, diventa piacevole il sostare al di qua, in un mondo finito e noto, dove quel buco disagevole, risucchio verso il nulla, è tappato, e noi, nel nostro bel mondo, confortati da confini precisi, viviamo rannicchiati e sicuri.
Togliere quel tappo sarebbe come buttarsi oltre il limite in una sorta di godimento senza conclusione, come quando, nell’amore, il corpo arriva all’apice del piacere e ci si aspetta e si attende quel suo termine che non arriva – una discesa dopo la salita che riporti alla tranquilla e fiorita valle delle normali sensazioni – ma, anzi, assume i connotati di un dolore: un naufragio imprevisto in quel vasto mare illusorio le cui onde non hanno né spiagge né bastioni su cui infrangersi. Così è quel simbolo, un’illusione, per la buona sorte del nostro pensare, una convenienza, una salvezza.
Id: 926 Data: 31/03/2011 22:13:29
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Carrapateira
Il vento di ponente batte la costa gridando il suo delirio di acqua e sale alla sabbia fuggiasca dietro le dune: l’oceano indifferente e potente contro la scogliera innalzando al cielo le sue mani bianche, subito ritirate; le onde allungandosi il più possibile verso la terra, spumeggianti e informi di forme impreviste lasciando lucida sabbia a specchio del cielo. Una vaporosa nube di salsedine permea l’intera spiaggia biancheggiando l’etere sospeso di tenue luce diffusa. Il sole dà il senso dell’ardore alle cose esistenti, il verso del giorno, dell’est e dell’ovest, della notte che arriverà con le stelle guardiane dei segreti delle cose che scompaiono nel buio e che già ora camuffano l’eterno di luce e colore.
In tutto questo, cammino, cercando di vedere il mistero sublime, il legame misterioso che affiora dalle cose, dai loro movimenti e dalle parole che vibrano in esse. Mi allontano dal mare verso le dune dove è immediato il volo del silenzio nelle orecchie, dove la sabbia soffice e calorosa ha i disegni del vento, non v’è ’impronta, ed è accolto, il piede, dalle molteplici parole degli innumerabili granelli. Piante e sassi sono come sospesi nel bianco e onde di sabbia nel gesto dello spumeggiare prima dello schianto, immobilizzate come in un ripensamento ché si sa le cose ruoli non scambiano non essendo acqua ma roccia triturata. Tra quelle immobili onde una colonia di gabbiani in riposo e attesa, non troppo disturbati dalla mia inattesa presenza – lanciando striduli versi in difesa – qualcuno accenna un breve volo.
Il letto di un corso d’acqua esce tortuoso dal bosco e s’espande essiccato tra le dune dove ristagna tiepido: a ben guardare creature inconsistenti vi si muovono adagio. Un morbido tappeto di erba su un lato del fiume rende piacevole il piccolo guado; l’acqua sale fino all’inguine per poi ridiscendere fino all’appoggio del piede sull’erba fresca come in una carezza d’oasi.
Voltandomi vedo un mondo d’azzurro e bianco, sento il suono dell’oceano e parole che fuggono via, anche quest’oggi, solitarie nella loro bellezza.
(tratta da "Cielo indiviso", Manni Editori, 2008 :: http://www.cieloindiviso.it)
Id: 251 Data: 12/10/2008 02:27:07
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Come due braghe al mercato
Un’anziana signora, in libreria, parla, affascinata da quello strano simbolo che spesso l’ignoranza matematica delle persone eleva a mistero, è quell’otto orizzontale contrassegno d’infinito. Parla con accento del nord Europa e, nella sua conversazione sbilenca, si riferisce finanche a quello smodato libro che ha nel titolo i numeri primi. Che insolite stupidaggini instillano i matematici, o chi per essi, con le loro scritture popolari, nelle persone assetate di conoscenza e che vivono all’ombra di quel gigante, che un giorno, forse non lontano, ha rischiato di schiacciarli: la Matematica. I suoi luminari scrivono cercando la fama, come una volta i maghi e i druidi che facevano credere alla gente di essere a contatto con misteri tanto remoti all’esperienza umana.
Alcune persone parlano di quel simbolo, come la simpatica signora, con affannata convinzione, essendone venuti a conoscenza in una lettura obbligata da un contesto sociale saturo di ignoranza, che propina vendita di sapere, comprato come due braghe al mercato. Ne parlano come se fosse una cosa reale e sulla quale possono, finalmente, dire la loro parola importante, sfidando l’interlocutore in una sorta di singolar tenzone, con uno sguardo tagliato di traverso come a indagare se v’è conoscenza di quel segno che adesso è nella loro mente, a risarcimento di tanta filosofia incompresa, pur ignorando la varietà, la straordinarietà, l’esuberanza e la stravaganza di tutti quei numeri che esso copre, come una statua di legno copre e nasconde il più grande mistero della vita reale di un santo, oppure come le rappresentazioni, nella storia artistica e religiosa dell’umanità, del Dio invisibile, che lo includono, rozzamente, in categorie umane immediatamente fruibili dalla spicciola trascendenza di persone spaesate dal sentore dell’innumerabile, della grandezza, dell’infinito. La natura stessa ha posto per noi il sole a dipingere quell’azzurro del cielo, e quel fitto velo di stelle nell’oscurità del cielo notturno, al fine di non spaurire il cuore che, sincero, si pone il dilemma di dove stia quel fine e, creandone uno fittizio, lo supera, in un crescendo di limite e superamento dello stesso, fino a impaurirsi nel trovare, improvvisa nella mente, la sensazione dell’abisso, del nulla, dell’immenso, di un tutto che equivale a un niente. Quel simbolo di infinito, introdotto e usato dai matematici, è proprio così, è un faro nell’immenso, un sole nel cielo dei numeri infiniti, che mai hanno tregua nel loro susseguirsi, e rendendo quel cielo così azzurro, diventa piacevole il sostare “al di qua”, in un mondo finito e noto, dove quel buco disagevole, risucchio verso il nulla, è tappato, e noi, nel nostro bel mondo, confortati da confini precisi, viviamo rannicchiati e sicuri. Togliere quel tappo sarebbe come buttarsi oltre il limite in una sorta di godimento senza compimento, come quando, nell’amore, il corpo arriva all’apice del piacere e ci si aspetta e si attende quel termine subitaneo, come una discesa dopo la salita che riporti alla tranquilla e fiorita valle delle normali sensazioni, ma invece, sulla cima, non si trova la discesa, solo permanenza, e anche dal versante della salita, la discesa è franata e si è costretti a rimanere in quel piacere, che diventa disagevole e assume i connotati di un dolore, fino a sostare per sempre in quel vasto mare le cui onde non hanno né meta né conclusione. Così è quel simbolo, un’illusione, per la buona sorte del nostro pensare, una convenienza, una salvezza.
Id: 225 Data: 07/09/2008 21:34:55
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Il rispetto
(Al modo di Sophia de Mello)
Prosegui lungo la costa, oltre Praia do Norte, sulla strada che affianca i campi di granoturco ancora verdi. In prossimità di una casetta isolata troverai una strada stretta e bianca, inoltrati nel suo silenzio fatto di cielo azzurro del mattino e di mais dalle foglie tremolanti sotto il soffio del Ponente insistente, e dalle quali rivoli di luce scendono verso la terra abbandonando le vie del cielo. Così andando cammina lentamente, avrai la gioia dell’azzurro, fino a che la stradina si allargherà. Lì troverai, a terra, ben ordinate ad essiccare, alghe dell’oceano, bada bene a non calpestarle e passa oltre, vedrai aprirsi davanti a te l’orizzonte, udrai le parole del mare giungere da oltre una vasta distesa di rocce scure, tra le quali ristagna acqua marina, popolata da alghe e piccoli pesci.
Laggiù il mare si è adagiato nella bassa marea, oltre i gabbiani che riposano sulle ultime scogliere, dove s’infrangono onde che sopraggiungono schiumando e alzando bianchi e silenziosi – perché lontani – pennacchi.
Guarda bene i colori, indaga le forme, annusa gli odori, appoggia una mano sulla roccia, provane il gusto e avanza, quasi fin dove riposano i gabbiani, inizieranno a spiccare il volo e a riadagiarsi su rocce circostanti e leali, quando li vedrai destarsi, agitàti e pronti al volo della fuga, ferma lì il tuo andare e rivolgiti al mare, quella è la distanza dalla quale esso ascolta il tuo tono sommesso, riverente e sincero. Lì, solitario, rivolgi il tuo cuore al vero, guarda il passato e inventa le tue storie future, non chiedere nulla, ti sarà dato.
Poi, quando il mare comincerà ad avvicinarsi e i gabbiani saranno volati altrove in striduli versi, quello sarà l’avviso, allontanati, il mare ti vuole, ma egli uccide chi abbraccia di passione.
Tornando indietro troverai alcuni sacchi posati a terra vicino alle alghe e un anziano signore rubicondo con un cappello parasole in testa. Sta raccogliendo con un rastrello le alghe ormai essiccate, non ti dirà il vero ma sarà cordiale e sorridente, è un amico del mare, fuggi da lui e abbi rispetto per sempre.
Id: 202 Data: 16/08/2008 11:25:58
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Diario di navigazione (estate 1988)
Pubblico alcuni brevi pezzi del diario di bordo del mio viaggio verso l’Europa del Nord fino all’allora città di Leningrado (oggi Sanpietroburgo) come vertice estremo di una crociera di addestramento sulla nave scuola Amerigo Vespucci, passando per Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Scozia, Svezia, Finlandia e ex Unione Sovietica, in tutto cento giorni di intensa navigazione a vela. I pezzi del diario li pubblico come li scrissi allora, di getto, senza il tempo di rivederli e soprattutto sull’onda delle emozioni del ventenne che ero.
14 giugno 1988
Oggi è iniziata la vera vita di bordo con i turni di guardia, vita iniziata abbastanza bene, dato che ho iniziato come vedetta, riuscendo così a rimanere a contatto con il mare che tanto mi ha consolato; osservancdolo sono riuscito a farmi passare quel senso di malessere che ha attanagliato gran parte dei compagni di corso causato dal mare agitato. E poi in quelle notti passate sotto quel cielo stupendo, in cui la Via Lattea sembrava veramente degna del suo nome, ogni tanto solcata da strisce luminose di stelle cadenti, ho ritrovato una gioia immensa sentendomi inglobato in una natura tanto stupenda. Sono sensazioni di un’enfasi trascendentale, quasi inenarrabili con semplici parole.
16 luglio 1988
Stamani il primo posto di manovra alle vele, è stato emozionante. La paura che avevo prima di salire sui pennoni è a poco a poco scomparsa lasciando anzi un certo senso di contentezza. E’ bellissimo vedere la nave dall’alto circondata da solo mare.
18 luglio 1988
Oggi ho svolto una giornata di guardia che è stata veramente emozionante, dopo le precedenti due giornate quasi di monotonia passate al brogliaccio. La nave aveva aperte solo le gabbie ed il vento era lieve e costante quando all’improvviso si è scatenata la burrasca. Un forte vento ha iniziato ad alzarsi, arrivando sulla formagetta a una velocità di 60 nodi, ed ha iniziato a far schiumeggiare le onde del mare, che all’improvviso è diventato un paesaggio fantastico. Immediatamente è scattata l’emergenza alle vele e in un momento tutta la nave è andata in subbuglio. Purtroppo io non sono riuscito ad andare a riva (salire sui pennoni) a chiudere le vele che erano gonfissime, ma ci sono tornato dopo per risistemarle con i marinai quando il vento è cessato. E’ proprio ciò che desideravo, una vita che ha sostituito quella flemmatica dell’Accademia Navale, (che è sempre pur importante ed ha gettato le basi perché questa navigazione possa avere luogo), sostituendola con questa meravigliosa realtà che per quanto sicura non è mai certamente tale e che quindi solo così riesce a creare quel senso di avventura che cercavo.
Malaga, 20 luglio 1988
La navigazione da Livorno a Malaga è stata la prima navigazione della mia vita che durasse più di un giorno e come tale è stata una esperienza affascinante e di adattamento alla vita di bordo, alle sue regole e a quelle del mare. C’è stato un periodo di tre giorni in cui il mare agitato ha sconvolto gran parte dell’equipaggio, io, per quanto scombussolato di stomaco, non sono stato male, forse perché non volevo stare male e ho reagito; volevo godermi quella prima navigazione e così ho passato gran parte del tempo, che gli altri hanno passato sdraiati sul ponte della nave, ad osservare il mare. Un mare meravigliosamente celeste e blu che non sembrava più nemmeno quel mare davanti alla costa da cui siamo partiti. Successivamente verso il quarto giorno di navigazione il mare si è calmato e la navigazione è continuata tranquilla fino a Malaga. Per quanto riguarda la vita di bordo, essa è caratterizzata da alcune regole che io non immaginavo. Per la logistica non ci sono problemi, l’armadietto, per quanto piccolo, contiene tutto ciò che può servire; e dormire sull’amaca è comodo, ci sono un caldo e un rumore continui che all’inizio mi hanno creato difficoltà nel dormire. Tutte queste continue guardie, e questo ritmo, hanno fatto sì che in breve tempo ottenessi una notevole stanchezza, dormirei sempre e ovunque. Ma non posso certo negare che svegliarsi alle quattro del mattino mi piace, sì, mi piace alzarmi ed uscire sul ponte di notte quando il cielo è pieno di stelle e sdraiarmi sul ponte ad osservarle mentre si muovono fra quei tre alberi immensi e ogni tanto vedere qualche stella cadente. Mi piace anche fare la vedetta e precisamente lo stare un po’ spostati al di fuori della nave con una certa brezza che accarezza la faccia ad osservare l’orizzonte del mare. Ma ancora più bella è stata l’emergenza alle vele quando il vento è aumentato improvvisamente creando un certo scompiglio sulla nave e trasformando in breve tempo il paesaggio marino; ciò dimostra che il mare, per quanto amico, in un momento possa trasformarsi imprevedibilemente in un nemico e che quindi per andare per mare è necessaria una grande esperienza marinara.
24 luglio 1988
Oggi in mattinata è avvenuta la partenza del Vespucci dal porto di Malaga, ritardata da una fitta nebbia che è calata all’improvviso. Verso sera siamo arrivati nei pressi di Gibilterra. Non mi sarei mai immaginato di arrivare a vedere due continenti contemporaneamente: l’Africa e l’Europa. Gran parte dell’equipaggio era sul ponte a fare fotografie. Già si iniziava a sentire un venticello piuttosto fresco che veniva dall’Atlantico. Ma oltre a questo vento una schiera di delfini ci veniva incontro entrando nel Mediterraneo, ce ne erano a centinaia. L’Atlantico è un mare immenso rispetto al Mediterraneo dove si temeva che il mondo finisse. era abbastanza calmo e di un colore molto scuro.
Id: 111 Data: 09/05/2008
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La Desolata »
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Pubblicato sulla rivista "Larea di Broca" - Amicizia/Cooperazione - 75, XXIX, gennaio - giugno 2002.
Dice Kyrilla Spiecker: ”Vedere Dio costa la vita”. Forse vedere Dio significa soltanto porsi l’interrogativo serio della sua esistenza e del rapporto con Lui. Questo interrogativo, posto anche una sola volta, può costare un’intera vita?
Dio. Basta questo nome a far accapponare la pelle, è un nome serio, inscindibile dall’impegno, dall’amore, dalla fratellanza...dall’amicizia. Chi lo conosce dice: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici”. Bisogna essere amici per amare; per diventarlo, c’è da amare: ”Ama il tuo nemico”; cioè diventaci amico. E’ stato un giorno qualunque mentre passeggiavo per strada con Davide, un compagno di studi universitari. Eravamo un po’ spensierati, un po’ pensosi – in quell’età dei vent’anni in cui frullano per la testa i più grandi sogni, che per me erano veri e propri ideali. A un certo punto Davide dice: “Entro un attimo in chiesa”. Una piccola chiesa che non avevo mai visto prima, lo giuro, di quelle incastonate tra le case, che non si notano. Di certo non ero un frequentatore di chiese, ma lo osservo bene per un attimo e dico: “Ti accompagno”. Entriamo, ci sediamo, dopo poco, su quel silenzio tipico, fatto di navate e altari, inizia la lettura del Vangelo. Non sapevo chi era Lui, quello che chiamavano Gesù, non che ora lo sappia, ma una cosa è certa che la sua parola, se sua è, quel giorno e in quell’ora precisa, mi ha attanagliato alla gola, offuscato i pensieri residui e ingarbugliati di pochi istanti prima, indicandomi una direzione, uno scopo: l’amore universale e particolare. Che cosa voglia dire non lo so, sono di quelle idee che entrano fisse e non ti mollano più. Non nego che è uscita anche qualche parola dal cuore, penso che si chiamino preghiere. Però non ho pensato molto. L’unica cosa che ho detto, una volta fuori di chiesa, è stata: “Chissà chi avremo pregato, forse noi stessi?”, e poi silenzio, fino a casa. Comunque sia ho aderito immediatamente a quelle parole, ammagliato e circuito dal mio stesso cuore che da allora ha iniziato, per un caso fortuito, a stringere un’amicizia tutta particolare con Cristo; non ho potuto non credere che Cristo è il Figlio di Dio. Mi son chiesto: “E ora? Che cosa faccio?”. Perché non si esce indenni nell’esigenze di azione dopo aver letto le più belle parabole del Vangelo. L’umanità, il primo pensiero, il dolore, la prima vocazione, la gioia di poter scegliere di stare tra i poveri, un po’ come faceva Gesù. Come potevo non vedere “coloro che non hanno”, gli emarginati, i ghettizzati, gli affranti, i vecchi i “parcheggiati”, gli oppressi dall’ingiustizia e, di contro, gli oppressi dalla giustizia, i carcerati. Ricordo Angela, un’anziana signora che viveva in una casa di riposo. Nessuno l’andava a trovare, almeno non ho mai visto nessuno andarci; eravamo contenti quando ci vedevamo. E’ morta sola, con me che piangevo. O Primo, che di storie della sua vita me ne ha raccontate, grazie al cielo, ora sono sicuro che è in Paradiso, perché se lui non ci va, i santi non ci sono di certo. E Italia, una vecchietta dagli occhi azzurri e dal sorriso di mamma. O Franco, ergastolano studente che un giorno non aveva voglia di studiare e mi ha raccontato tutta la sua vita, quante lacrime. Penso che qualsiasi strada noi prendiamo nella vita, sia necessario avere dei compagni di viaggio, amici o nemici che siano. Non nego che ho avuto la fortuna di incontrare molti amici. Poi, un giorno, ho conosciuto alcuni giovani che aderivano alla spiritualità del Movimento dei Focolari, proprio quando l’esigenza di vivere insieme con altri la mia esperienza spirituale e umana di cristiano, si faceva più forte. Penso che questa sia una esigenza tipica di tutte le religioni ed in particolare lo debba essere, e lo è, per un cristiano. Infatti Gesù diceva: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”, oppure: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”. Volevo e dovevo avere qualcuno con cui condividere l’amore, l’agape, per generare la presenza di Cristo fuori di me, in mezzo a noi. E così è stato. Il fuoco dell’amore era tra noi, un fuoco che ci ha fuso, non senza difficoltà legate soprattutto alle nostre diverse personalità e culture, al di là della nostra umanità stessa e nella più totale diversità, persino religiosa. Un Ideale potente, lo stesso che aveva animato Gesù fino alla croce, vivere e morire per l’unità, fino alle estreme conseguenze del grido assurdo di un Dio crocifisso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E’ un grido misterioso che ha squarciato l’indifferenza della storia ponendo decisamente Dio dalla parte degli ultimi. E se Cristo ha vissuto questa orrenda divisione penso che sia stato per indicare una direzione, una sua presenza in un luogo determinato dello spazio-tempo: proprio lì, negli ultimi, nei divisi, nei sofferenti, nei senza luce, è lì che ha deciso di stare Gesù, ed è lì che abbiamo cercato e non è presuntuoso dire che abbiamo trovato il mistero luminoso del Paradiso...e c’è da crederci che vedere Dio costa la vita.
Id: 24 Data: 05/12/2007
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sullarte e sul silenzio
Sull’arte… (dedicato ai miei allievi)
Cose straordinarie possono avvenire alla nostra presenza senza che ce ne accorgiamo. Un violino Stradivari può suonare armonie sublimi nell’indifferenza delle nostre orecchie. Un ballerino può muovere i più bei passi davanti all’imbarazzo del nostro cuore, il quale si chiede come sia possibile che tale armonia avvenga proprio qui e ora nella gratuità di un luogo qualunque, invece che a caro prezzo nei territori assegnati all’arte, dove risiede artefatta, sui palcoscenici. All’arte dobbiamo sempre dare un luogo e un tempo importanti, altrimenti diventiamo stolti, incapaci di riconoscere la metamorfosi sublime ch’essa induce in una musica, in un ballo, in un quadro…siamo ottusi e pensiamo che debba essere vidimata dai palchi, dai prezzi e da tanto scalpore; invece può nascere silenziosa al nostro cospetto e lasciarci ammutoliti e attoniti, ci è difficile ammettere la sua gratuità, come un improvviso e momentaneo raggio verde che risplende nel tramonto del sole. E’ l’allievo che supera la soglia imposta dal maestro e crea quello che non c’era, richiama la bellezza; è lo sconosciuto a cui non interessa mostrare nulla a chicchessia ma è soltanto allietato dall’esposizione di sé stesso a sé stesso, e poco oltre, come un passatempo che riempie l’anima di armonie che vengono da lontano, molto lontano, che mai si riusciranno a obbligare sui palcoscenici del mondo.
…e sul silenzio (dedicato alle molte idee silenziose di molti)
E se finalmente qualcuno tace non è detto che egli non abbia idee e pareri adeguati in relazione alle situazioni che lo trovano silenzioso. Piuttosto un’intelligenza acuta sa assieparsi nel silenzio e attendere lo svolgersi dei fatti; poi, quando le mode, i pensieri e le azioni degli altri, dettati dalla presunzione, scemano nel nulla da dove provengono come fuochi fatui, allora il silenzioso custode delle proprie idee sa continuare a perseverare nella conoscenza e a progredire verso lidi sconosciuti agli stolti, i quali, con le loro altisonanti parole, credono di stupire, manifestando invece solo pochezza d’animo.