Non ci insegnano a scrivere perché hanno paura che la penna ci serva a scrivere lettere amorose: non ci permetterebbero nemmeno di leggere, se non dovessimo servirci del libro di preghiere.
Così confessava a Goethe nel 1787 un'amica milanese: la proibizione, curiosamente, riguardava solo l'istruzione, dato che, per il resto (feste, viaggi, amicizie), alla ragazza era concesso un ampio margine di libertà. La testimonianza - tanto più sorprendente se si pensa che viene resa in piena età dei Lumi - solleva il velo su una realtà sconcertante: dalle famiglie del tempo, la cultura viene ritenuta una delle principali fonti di corruzione delle fanciulle.
Il nuovo secolo assiste ad un ulteriore irrigidimento di questa posizione, complici il clima severo della Restaurazione e, successivamente, l'avanzata delle idee socialiste e l'aumento della manodopera femminile nelle fabbriche.
La donna lavoratrice, in particolare, desta preoccupazione, poiché la sua attività extra-domestica - che per di più assorbe la maggior parte della giornata - viene vista da molti come un pericoloso fattore di disgregazione familiare e di destabilizzazione dell'ordine sociale.
Per la maggior parte delle donne dell'epoca, lavorare non è un'opzione, ma una dura necessità: tuttavia giovinette e madri di famiglia potrebbero apprezzare il lavoro - per faticoso e poco gratificante che sia - come mezzo per raggiungere l'autosufficienza economica e per acquisire consapevolezza delle proprie potenzialità.
Da qui, l'eventualità concreta che ne siano "sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia", come afferma Leone XIII nella Rerum Novarum (1891).
Un vecchio pregiudizio misogino, inoltre, vede nella donna un essere estremamente manipolabile, a motivo della sua accentuata sensibilità, di una innata debolezza di carattere e di una congenita inferiorità intellettuale: non deve stupire, quindi, se nell'immaginario maschile la donna che varca le mura domestiche divenga una facile preda per tutte le idee più sovversive e corruttrici.
Sempre nella sua famosa enciclica sociale, papa Pecci sottolinea i germi di degrado morale insiti nella situazione, avvertendo che "per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l'integrità dei costumi corre pericolo nelle officine."
Urge una soluzione efficace in grado di arginare tali sviluppi: le autorità, tanto civili quanto religiose, la trovano nell'immagine dell'angelo del focolare. Niente di nuovo: basta esaltare e assolutizzare un modello già consolidato, avvalendosi dei canali di diffusione attivi soprattutto in ambito cattolico (come la devozione mariana). Scrive ancora Leone XIII:
Certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l'onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il benessere della casa.
L'angelo del focolare, infatti, è moglie e madre: una creatura pia, riservata e morigerata senz'altra aspirazione che non sia la cura della casa e dei suoi familiari. Tale dedizione ha come caratteristica imprescindibile la radicalità: è, infatti, spinta fino al sacrificio e alla totale spersonalizzazione.
Nella sua applicazione pratica, questo ideale di perfezione muliebre si configura come un potente strumento di controllo sociale, perché riconosce alla madre un posto privilegiato nella trasmissione di valori e schemi comportamentali.
Nell'adesione a questo canone, come si può ben immaginare, l'acculturazione, la coscienza di sé stesse e la realizzazione personale non solo non sono previste, ma vengono addirittura considerate d'ostacolo. Ad accettare di buon grado questo modello non è solo l'universo maschile, bensì le stesse donne. Perché?
Il diritto inalienabile alla propria dignità di persona è, per il mondo femminile, una conquista recente. Fin dal basso medioevo si cristallizza infatti, nella civiltà occidentale, la tendenza a riconoscere alla donna un valore "condizionato" dall' inquadramento in una categoria ben precisa: monaca o moglie.
Ciò può spiegare come mai la donna, in pieno XIX secolo, non trovi nulla di strano nell'adeguarsi ad un prototipo solo per essere socialmente "in regola". In tal senso, l'angelo del focolare è il modo più immediato di acquisire un'identità, al quale però, paradossalmente, si arriva proprio con la rinuncia alla propria identità.
Il compromesso, come spesso accade, porta con sé conseguenze dolorose: conformarsi evita lotte impegnative e dall'esito incerto, ma rende la quotidianità vuota e alienante.
In questo contesto si inserisce la scrittura della novarese Maria Antonietta Torriani (1840 –1920), letterata, giornalista, protofemminista, sociologa e co-fondatrice del Corriere della Sera, meglio nota al pubblico del suo tempo con lo pseudonimo di Marchesa Colombi.
La multiforme attività della Marchesa Colombi mira a supportare un unico intento: la denuncia della condizione femminile del tempo. Più che sensibilizzare gli uomini, tale denuncia intende in primo luogo suscitare una reazione nelle donne.
Da donna e da scrittrice, infatti, la Torriani è conscia della sua responsabilità: e per questo, mentre utilizza il romanzo popolare nella sua funzione "canonica" di diletto e di svago, propone esempi, personaggi e situazioni dalla forte valenza didattica.
A questo scopo, l'autrice pone l'accento sulla sfasatura che intercorre tra la facciata imposta dalle convenzioni - l'angelo del focolare, appunto - e l'urgenza di restituire alla donna la propria dignità di persona dotata di intelligenza e volontà. Per farlo, è fondamentale eliminare dalla scrittura i filtri, le affettazioni e gli altri fronzoli con cui le donne sono abituate ad addolcire o peggio ancora a mascherare la realtà. Si spiega così l'affinità della Marchesa con temi e moduli di stampo verista.
Fra le analogie più evidenti che possiamo riscontrare fra l'opera della novarese e il ciclo verghiano dei vinti c'è la rassegnazione: in mancanza di una via d'uscita, la reazione non è di insofferenza o di rivolta, ma di piena accettazione del proprio destino.
Nonostante ciò, la Torriani mantiene una sua indipendenza dai canoni verghiani, prima di tutto nel rifiuto della regressione al livello mentale e culturale dei personaggi. E’, questa, l'eredità della tradizione manzoniana che costituisce il tratto distintivo del cosiddetto "verismo nordico".
Dei ritratti verghiani, questa particolare versione del verismo conserva il realismo (spesso crudo e impietoso), ma lo stempera con l'apertura manzoniana ai valori positivi della gentilezza, della bontà e delle buone maniere, visti nella loro utilità correttiva e "redentiva" di qualsiasi umanità.
Ma c'è di più. Al "verismo nordico" della Marchesa, infatti, non sembra appartenere l'impegno - tipicamente verghiano - verso l'opera che pare "essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale; senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine", come chiarisce lo stesso Verga nell'introduzione alla novella L'amante di Gramigna.
Con il Verga, Maria Antonietta condivide sicuramente l'interesse per la scienza del cuore umano, per "quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico"; in lei, tuttavia, tale indagine ha finalità differenti che devono, proprio per la loro peculiarità, seguire la strada del dialogo e della reciprocità, e che presuppongono quindi la presenza - massiccia e ben percepibile - della voce narrante.
Con la Marchesa Colombi, anzi, si va ben oltre il manzoniano fare capolino tra le pieghe del racconto: l'autrice si guarda bene dal lasciare sole le sue lettrici anche solo per un attimo, deve assicurarsi che stiano ascoltando, recependo, elaborando. Non può rischiare che la sua prosa fallisca l'obiettivo, e che il suo pubblico si abbandoni - ancora una volta - alla trappola del fittizio, dell'illusorio, del fantastico.
Per questo, la Marchesa utilizza il mezzo più incisivo a sua disposizione: l'ironia. Non c'è niente di meglio di una battuta ben piazzata, infatti, per riportare con i piedi per terra un intelletto da sempre educato (o auto-educato) ad alienarsi dalla realtà. Così, proprio nel bel mezzo di una situazione da comédie larmoyante, l'ironia si inserisce come una staffilata, sottile ma bruciante, per mostrare l'intrinseca assurdità di valori e codici di comportamento universalmente accettati.
Basta poco: il "pungolo" può essere un semplice commento, un rapido intercalare, una nuda parola, insomma un segno, anche piccolo, di partecipazione personale capace di trasformare la trama del racconto in un'interazione, da autrice a lettrice (e viceversa!), da donna a donna.
Avevano diciott'anni, povere bimbe! E le loro nudità avariate non ispiravano piú peccati di desiderio.
Primo obiettivo di questa "arma bianca" non poteva che essere l'attesa del principe azzurro, fulcro attorno al quale ruota la quotidianità delle ragazze e delle loro famiglie. Dalla Torriani, il tema viene splendidamente dispiegato, in tutte le sue componenti sociali e psicologiche, nel romanzo-capolavoro Un matrimonio in provincia.
... alla lunga, quell'ammirazione di passaggio, e di gente ignota, mi venne a noia, o almeno non mi commosse piú. Ero impaziente che la Titina trovasse marito, per potermi vestire come le altre ragazze della mia età. Ero vicina ai diciassette anni. Non potevo star tutta la vita coi piedi fuori dalle gonnelle e pettinata da collegiale perché mia sorella non era maritata. Tanto piú dacché la matrigna aveva detto che, vestita a modo, in otto giorni, avrei trovato marito. Ed io in quella casa brutta con quelle abitudini laboriose e casalinghe e quell'uggioso marmocchio sulle spalle, colla sua faccina vecchia da figlio di vecchi, mi struggevo di maritarmi.
Un altro strale è diretto all'uomo dell'epoca, spogliato dei suoi luminosi panni di eroe romantico e rivelato nel suo essere infido, ottuso, opportunista e dispotico. Il vertice di questa mediocrità è rappresentato, senza dubbio, dalla figura del padre di famiglia: uno per tutti, il patriarca di Un matrimonio in provincia, rara mistura di egoismo, misoginia, pregiudizio e scarsa intelligenza.
Non ci mandava neppure a scuola, perché diceva che tutte quelle ore di immobilità sono micidiali. C'insegnava lui di quando in quando a leggere, scrivere e far di conto. E durante le nostre passeggiate faceva la nostra educazione letteraria.
Strettamente connesso alla critica della mentalità patriarcale del tempo è lo svelamento del preconcetto sull'educazione femminile, di cui spesso le donne non son solo vittime ma, ahimè, anche sostenitrici. Le parole della matrigna di Un matrimonio in provincia ne sono una chiara conferma:
Il babbo insinuò modestamente che ci «raccontava i classici» passeggiando, ma lei diede una crollatina di spalle e disse: — Sí, va bene; ma possono anche farne a meno. Io non so neppure cosa siano, ed ho trovato marito lo stesso. Un po' tardi, soggiunse con la franchezza imperturbabile che faceva passar la voglia di burlarla, ma insomma, l'ho trovato. Dunque, a correre tutto il giorno non s'impara nulla. Di «leggere, scrivere e far di conto» ne sanno a sufficienza, le ragazze non debbono diventar dottoresse. Ora è tempo che imparino a tenere la casa in ordine, a cucire, a stirare, a cucinare, ad essere buone massaie.
Maria Antonietta ebbe modo di toccare con mano la gravità della situazione in occasione del ciclo di conferenze sull'emancipazione femminile tenuto con l'amica e collaboratrice Anna Maria Mozzoni; iniziativa che, infatti, registrò scarsa partecipazione e ancor più scarsa risonanza.
Eppure, le voci delle due lombarde non erano affatto un caso isolato, e avevano già avuto delle anticipazioni nel resto d'Italia: si pensi, ad esempio, a Rosina Muzio Salvo (1815-1866), poetessa romantica di Termini Imerese (Palermo), giornalista della rivista progressista "La ruota" e segretaria della Legione delle pie sorelle. Supporto femminile ai moti del 1848, la Legione propugnava il cambiamento della condizione femminile nella società attraverso un'adeguata istruzione; principio ben sottolineato da pubblicazioni come “Anche noi siam risorte” che rivendicavano il diritto all’emancipazione e all’istruzione femminile. Per questo, l'associazione promuoveva tutta una serie di iniziative (dagli spettacoli teatrali alle lotterie) volte a finanziare un ampio spettro di attività benefiche a favore delle donne: assistenza alle vedove povere e alle ragazze orfane, sostegno agli asili infantili, acquisto di materiale didattico per la formazione delle fanciulle, gestione di istituti destinati all'educazione femminile.
Già allora, la Muzio Salvo aveva intuito che nessun affrancamento sarebbe stato possibile per la donna senza un adeguato supporto formativo. E aveva colto nel segno: alla fine dell'Ottocento, da Nord a Sud, le italiane si trovano ancora nell'identica situazione di mezzo secolo prima.
La Marchesa, naturalmente, non manca di sottolinearlo con la consueta ironia. Così scrive nel suo galateo La gente per bene:
A' miei tempi, - tempi delle vecchie mamme, delle nonne, delle bisnonne, - le donne non ricevevano l'istruzione che si dà ora alle fanciulle. Allora era generale l'opinione dell'Arnolphe di Molière circa le donne:
"C'est assez pour elle, à vous en bien parler,
De savoir prier Dieu, m'aimer, coudre et filer. "
Ora le giovinette escono dalle scuole dotte come tanti piccoli professori. Guardano il mondo dall'alto della loro dottrina geografica, senza mai scambiare un punto per un altro.
Una rigorosa censura sfoltisce la già magra biblioteca accessibile alla giovane: l'angelo del focolare non deve avere grilli per la testa. Il libro diventa un tabù e ossessiona i padri, al punto da essere aborrito tout court. Ancora in Un matrimonio in provincia, il padre di Denza preferisce le "passeggiate formative" e impartisce lui stesso lezioni alle sue figlie, non solo nella convinzione che tale cultura basti e avanzi, ma soprattutto per la sicurezza che gli dà poter mantenere il controllo sulle loro menti. Il suo orrore per la donna che legge arriva fino alla proibizione dei libri più innocenti per alleviare la noia delle lunghe serate invernali, delle quali anche la Marchesa, a suo tempo, era stata vittima come tutte le sue coetanee.
Appena noi ragazze eravamo tornate di collegio aveva messo l’Alfieri sotto chiave. -Se leggono questa roba addio lista del bucato-diceva-addio note della spesa; addio testa! Si mettono in mente di sposare un eroe e non si maritano più.
Emblematica è la figura, nella Torriani come in altre autrici coeve, della giovane seduta dietro i vetri, senza altre occupazioni che non siano il lavoro di cucito, le chiacchiere futili con qualche parente, l'osservazione del via vai giù in strada, la costruzione mentale di una storia d'amore attraverso il ricordo di piccoli episodi insignificanti. Un passo del romanzo La casa nel vicolo, opera della tardoverista siciliana Maria Messina, descrive con grande efficacia questo appassimento interiore ed il suo rispecchiarsi all'esterno:
Nicolina cuciva sul balcone, affrettandosi a dar gli ultimi punti nella smorta luce del crepuscolo. La vista che offriva l’alto balcone era chiusa, quasi soffocata, fra il vicoletto, che a quell’ora pareva fondo e cupo come un pozzo vuoto, e la gran distesa di tetti rossicci e borraccini su cui gravava un cielo basso e scolorato. Nicolina cuciva in fretta, senza alzare gli occhi: sentiva, come se la respirasse con l’aria, la monotonia del limitato paesaggio.
Nel "verismo nordico", però, la componente manzoniana potrebbe offrire come antidoto a tanta desolazione il sentimento religioso: invece, non è così.
Pare infatti che le eroine della Marchesa ignorino i conforti dello spirito; nel loro piccolo universo, la devozione è il ripiego delle vecchie zitelle, e fa tutt'uno con un vano formalismo.
Della solennità non c'importava nulla, della musica poco, del Santo men che meno. Ma si vedeva un po' di gente, qualche giovinotto ci guardava; e nella monotonia della nostra esistenza era qualche cosa. Di solito era la zia che ci accompagnava perché la matrigna non amava la musica, ed il babbo, di sera, stava sempre con lei. E poi, la chiesa era il dominio della zia.
Forse perché più urgenti sono gli interessi pratici e concreti, o fors'anche perché la preghiera difficilmente può aver presa su un animo infiacchito, i personaggi della Marchesa Colombi non sembrano inclini ad alzare gli occhi al cielo (è già tanto se Denza, al teatro, riesca per un attimo a cogliere la sua immagine riflessa, restando peraltro stupita come chi si veda per la prima volta).
Di più: nella Marchesa, anche la religiosità si tramuta in un'occasione di sovvertimento della mentalità corrente. Nei racconti Una vocazione e Suor Maria la figura manzoniana della monaca di Monza viene ribaltata: la "monacazione forzata" diventa "automonacazione forzata". La più classica forma di coercizione imposta dalle famiglie diventa un escamotage per opporsi ad una situazione familiare scomoda, ribellarsi ad un futuro indesiderato, guarire dalle ferite di un amore infelice, affermarsi come donna e come persona.
Attenzione, però: anche qui c'è un rimando, un "oltre". L'automonacazione forzata è una castrazione dall'essere creature dotate di sentimenti; è un'altra via per approdare al disincanto dopo una lacerazione affettiva, che può derivare da una delusione d'amore (come nel caso di Suor Maria) o da una idealizzazione del rapporto amoroso (come invece accade a Paola).
L'automonacazione quindi è allo stesso tempo la pars destruens e la pars construens di una nuova affermazione di sé: è rottura con ambienti e situazioni non congeniali, ma anche con l'"immagine residua di sé" che ha coltivato sogni e desideri. E' un processo di demolizione che scaturisce dalla propria personale inadeguatezza ad accettare una vita "altra" rispetto alle aspettative della giovinezza; ed è del tutto autonomo, ragion per cui sarebbe errato considerare queste donne come vittime o come sacrificate.
Maria e Paola, però, non possono essere considerate neanche ribelli; almeno, non nel senso che solitamente attribuiamo a questa parola.
Per sfuggire ad un destino inaccettabile, infatti, queste due donne si muovono nel solco di una scelta convenzionale: per questo, nessuno fra i parenti e i conoscenti si dà pena di approfondire le loro motivazioni. Il no al compromesso, qui, si svolge nel silenzio e nel conformismo: e l'incapacità di andare controcorrente, di mettere apertamente in discussione il sistema, conduce in ogni caso alla rassegnazione e all'infelicità.
Nonostante ciò, il messaggio della Marchesa per le sue lettrici è chiaro: ambedue le figure preferiscono alienarsi piuttosto che piegarsi. Solo che qui l'alienazione segue il processo inverso a quello osservato a proposito dell'angelo del focolare: si rinuncia all'identità assegnata dal mondo per ritrovare, pur nella dolorosa condizione di sopravvissuta, un'identità che è - più che scelta di vita - rifiuto libero e consapevole di omologarsi.
Donatella Pezzino
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- https://www.policlic.it/la-condizione-femminile-da-fine-ottocento-alla-riforma-del-diritto-di-famiglia/
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