Mi attrasse
come una salamandra nella tana
- stordita dal vento impietoso
di un inverno mai finito -
Trascinavo a stento
le mie quattro dita
- incenerite da un lampo
in uno squarcio di cielo -
ripartendo in quattro la fatica.
Le rughe un giorno
erano state impronte lievi
- dei passi incerti
lasciati in pegno dai minuti-
Diventano solchi pesanti
ora che i cento pendoli
scandiscono il tempo
ed il silenzio è una cesura
tra gli ultimi rintocchi.
Dicevo, mi attrasse,
e mi raccolse con sussiego
su un rametto robusto
- di un vecchio albero di ciliegio-
Mi esaminò per ore
come una cavia compiacente
- dal basso verso l’alto -
e con l’aiuto di una lente
riuscì a soffiare piano sulla pancia
per ritrovare antiche morbidezze
e rilevare nuove trasparenze.
E poi fu tutto un gioco
di suoni e sguardi
- bisbigli e ammiccamenti -
e un poco mi sorprese
il senso vago di piacere
che mi accalorò la schiena.
Presto ne riconobbi la ragione
in un frammento di specchio
e la meta-fora del tempo
perse la coda per sempre
per acquisire un nuovo aspetto.
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