“Sono la foce e la sorgente” è una ricca antologia dedicata a Lorenzo Pittaluga, artista della parola morto suicida nel 1995, all’età di ventotto anni.
Il volume, curato con scrupoloso affetto da Marco Ercolani, presenta un’ampia scelta di versi accompagnata da illuminanti interventi critici e da partecipi testimonianze.
Vittima di un drammatico interrogarsi, più che sul senso generale dell’umano esistere, sulla necessità individuale dello stare al mondo, Pittaluga pone in essere la sua poesia partendo da entità evocative tratte dalla vita di ogni giorno.
“Plaga lucescente d’ombre
dove acque e cartine
e tabacchi così aromatici”
sono i primi tre versi di un componimento intitolato “Paradiso”.
L’Eden è dunque rintracciabile sul pianeta Terra o, forse, soltanto su di esso?
Domanda davvero assillante per un poeta che nel quotidiano cercò di trovare la fiducia di cui avvertiva la carenza.
Si sentì – credo – tradito da una vita che c’era, era lì, alla quale partecipò per quasi trent’anni in maniera intensa, pur nell’estrema sofferenza provocata dalla malattia psichica.
La sua tragica delusione fu provocata, probabilmente, proprio dal non riuscire a entrare fino in fondo nelle cose, nelle emozioni, nei sentimenti.
Occorre, a un certo punto, arrestarsi e aprire la strada a quell’alacre accettazione che promuove la conoscenza: occorre, insomma, conservarsi per meglio comprendere.
Il poeta si avvicinò a simile (salvifico) atteggiamento ma non riuscì a integrarlo nella sua tormentata personalità.
“Ora noi non abbiamo che noi – dobbiamo
scontare l’intrico di finitezze e mesti
orgogli: l’infinità non ci cerca”.
Certo, “l’infinità non ci cerca” e noi, a nostra volta, non dobbiamo cercarla, nemmeno nella (o per mezzo della) scrittura poetica.
Lorenzo, invece, la cercò inutilmente.
Non mancano vere e proprie riflessioni sulla stessa attività del comporre versi:
“Perché, per fare una poesia
mica ci attacchi la lingua
al sugo delle parole che scrivi”
e, poco oltre
“Ma io la poesia me la parlo
me la porto a letto, ci faccio
la frittata, un pollo, la romanza”.
L’autore, nel parlare della sua arte, adopera vocaboli assolutamente usuali, come se volesse aprirsi senza riserve, in maniera quasi disarmante.
Si tratta del tentativo di avvicinarsi alla vicenda esistenziale comune, ossia di rompere l’isolamento o, almeno, di affievolirne la pena?
Oppure siamo dinanzi a una solitaria pronuncia in cui l’essere poeta è considerato tutto ciò che resta e che potrebbe non bastare?
L’elegante volume rende efficace testimonianza di un drammatico percorso umano e artistico: non è un invito al ricordo, è, piuttosto, un richiamo al qui e ora in cui i versi proposti non smettono di abitare.
È dunque un felice tentativo di continuare a vivere con il poeta di Cremeno pur in sua assenza.
La semplice memoria, in questo caso, non basta, occorre qualcosa di più: “Sono la foce e la sorgente” vuole essere (ed è) quel di più.