Pubblicato il 05/12/2007
Ogni anno ci troviamo a scegliere un posto per le vacanze.In effetti, non è che ci serva un luogo per riposarci dopo un lungo e stancante anno di lavoro dato che i miei amici ed io rientriamo nella folta schiera dei disoccupati: ci si può considerare come dei veri e propri parassiti della società, essere viventi che vivono in riserve chiamate università; quest’ultime sono strutturate e ideate in un bel Paese come è l’Italia, come un area di parcheggio; c’è da dire, comunque, che non tutti i miei amici sono da considerare dei parassiti che vivono alle spalle e alle dipendenze della famiglia con l’alibi dello studio: altri semplicemente bivaccano a casa passando il tempo davanti ad internet,alla televisione oppure ascoltando nuovi compact. Lo scopo della nostra vacanza è “staccare”dalla nostra città che non offre mai granché: è deserta e la sua popolazione è formata prevalentemente da persone sopra la quarantina.La cosa più desolante della nostra città è il fatto che, nel momento in cui i turisti vanno via,un silenzio da cimitero copre le vie e le strade; sembra che nessuno abbia nulla da dire; si ha l’impressione che oltre ad essere spopolata, chi vi abita si accontenta del quotidiano senza chiedere di più ai propri concittadini. Alle volte sembra di trovarsi in uno di quei film alla Sergio Leone nei quali la strada deserta aspettava il duello mortale tra i due pistoleri protagonisti; dove la monotonia dell’immobilità della scena veniva magistralmente rotta dal muoversi di rami e detriti posti sulla terra.I negozianti possono essere paragonati agli spettatori di quei duelli: tutti fuori dai negozi a fumarsi una sigaretta; nella mia cittadina ciò succede soprattutto a causa della mancanza di clientela; bisogna essere pronti a vedere, repentinamente, il centro storico pieno di negozi nuovi; come in un ciclo vizioso, poi, i negozi nuovi, dopo poco, lasciano spazio altre botteghe e, alle volte, ad altri proprietari.C’è la miseria in giro, nessuno compra e nessuno domanda; è capibile tutto ciò: riuscire a vivere con un solo lavoro quando si è una famiglia è inimmaginabile come le utopie di Marx;ci tartassano con bollette di vario tipo sempre più salate; ci fanno pagare anche la tassa sull’aria che respiriamo;ci chiedono di fare sacrifici per salvare lo Stato che va in bancarotta, come se noi, oltre alla nostra famiglia, avessimo la forza di aiutare anche lo Stato mangia soldi. In questa situazione, non si può continuare a credere che tutto sia possibile, che i nostri cassetti immaginari possano aprirsi per coltivare i nostri sogni. Chi ci crede più?Noi dobbiamo credere alla realtà dei fatti, ai mutui per comprare la casa, dobbiamo cominciare a capirci di più dei tassi d’interesse, con la variazione della moneta;dobbiamo restringere la cinghia tutto l’anno così almeno, i più fortunati avranno la possibilità di staccare la spina per una settimana da questa vita, che sarebbe da paragonare all’inferno, se non ci fosse almeno la possibilità di coltivare amicizie, l’amore.Questo dono forse, ci ripaga, per altri sacrifici che si fanno.Qual è il ruolo di un ragazzo in questi grevi tempi?Impegnarsi nello studio o nel cercar un lavoro e far il proprio dovere di figlio, capendo quali sono le esigenze dei nostri genitori.Anche noi abbiamo bisogno di vacanze poiché diventa alienante rimanere in un posto dove ci si sente inutili;dove il divertimento, sacrosanto per tutte l’età, praticamente, non si conosce; evadere da un posto simile significa ricercar nuovi stimoli e scrollarsi da dosso quel lassismo quel coinvolge tutta la popolazione. Ci servono solo quattro-cinque giorni per riprenderci dal mortorio. Un pregio del nostro gruppo è la originalità : questa peculiarità si riversa anche nella scelta del luogo che ci dovrà ospitare:non un villaggio turistico,non la montagna ma un luogo da visitare che comprenda un evento. Questo diario vuole descrivere quello che successe in uno di questi viaggi. Alle volte vale la pena di raccontare quello che ci succede intorno, ma non per la voglia e stoltezza di insegnare qualcosa a qualcuno, cioè di far trarre un principio di vita da seguire; c’è solo la voglia di raccontare le gesta di cinque ragazzi tra miliardi che si muovono in un fine settimana.Cercare, attraverso una concatenazione di lettere e parole, di far passar un po’ di tempo a chi legge in santa pace. Grazie ai nostri “naviganti”virtuali riuscimmo ad individuare una ridente cittadina in quel d’Abruzzo: Sulmona.Il lettore si chiederà qual è la particolarità di questa città.La sua particolarità stava nel fatto che nel periodo agostano si celebrava una manifestazione medioevale che, seppur giovane, appariva accattivante: la giostra cavalleresca d’Europa. L’opuscolo, trovato quasi per caso, in un ufficio del turismo, spiegava che le genti europee s’incontravano in Sulmona per partecipare ad una gara, da disputarsi nella piazza principale della città, il cui scopo stava nell’ infilzare con una lancia degli anelli. L’opuscolo assicurava anche che in quei giorni era possibile passare le serate presso i numerosi borghi e sestrieri, i quali si gemellavano con le delegazioni straniere. .L’idea ci stuzzicava e decidemmo di partire in cinque per quest’avventura. Un avventura che doveva rispecchiare quei film americani ispirati all’esperienza beat. Forse, era più l’idea che la sostanza, poiché non potevamo certo confrontarci con una generazione che ha combattuto per i suoi diritti e li ha ottenuti strappandoli con i denti; noi abbiamo tutto: genitori che ci mantengono fino ad un’età avanzata, che pensano anche a trovarci un lavoro nei migliori dei casi; possiamo permetterci di andar in vacanza all’estero senza problemi, di seguir i corsi più disparati dall’inglese allo spagnolo, al corso per far le orecchiette in casa, e in tutto questo ci lamentiamo di non so che cosa.Abbiamo la parabola, il computer, uno o più cellulari, la macchina personale con la benzina pagata da papà.Abbiamo la fortuna di poter andar all’Università per prendere uno straccio di laurea e se la facoltà non è di nostro gradimento poter cambiar facoltà o anche città se non ci va bene, se magari è troppo caotica o rumorosa oppure una pelle.
2 E’ buona regola, nel momento in cui si scrive un diario personale di un viaggio, specificare chi sono i compagni viaggiatori, gli attori pricipali della storia.Si potrebbe considerare una sorta di compagnia dell’anello di tolkeniana memoria.Senza far riferimento a persone vere, posso affermare che i miei quattro amici si chiamavano e si chiamano tutt’ora: Mario, Luca, Lorenzo e Andrea.Ognuno di loro ha delle qualità specifiche che contraddistinguono il loro modo di essere. Succede sempre che in ogni gruppo d’amici ci siano caratteri tipici: in altre parole esiste il bravo ragazzo, quello scapestrato, l’alternativo e la mia tribù non si esime da tutto ciò. Mario, infatti, non è solo il bello di turno ma anche quello maggiormente spregiudicato: essendo un impulsivo non ragiona molto sulle conseguenze delle sue azioni, ha uno spirito molto dionisiaco ed istintivo.Tra Mario e me c’è un’amicizia che dura da moltissimi anni, si può sostenere che siamo stati compagni di culla, cosa che però non ha influito molto sulla formazione diversa delle nostre personalità; io tendo a soffocare i miei istinti, a riflettere su ciò che devo fare; io sono quello più convenzionale, lui quello più trasgressivo, anche se, posso ammettere, in alcune situazioni mi sarebbe piaciuto ragionare con la sua testa.Questo non vuol dire che lui non abbia pensieri seri nella sua mente;le questioni serie, semplicemente le tratta in maniera diversa. .E’ il suo modo di comportarsi e il suo modo di porsi nelle relazioni interpersonali che stuzzica la mia fantasia.Chi di voi non ha mai desiderato essere un’altra persona? Luca è il moderato del gruppo; risponde a quel tipo di carattere che, in qualunque cerchia d’amici, si sente il bisogno d’avere: cerca, nella sua maniera, di eliminare le controversie che possono nascere tra noi, ma il nostro amico ha anche un difetto, o meglio, chi lo conosce poco e superficialmente lo considera come un uomo passivo,incapace di prendere l’iniziativa. Succede spesso che quando bisogna prendere una decisione lui si tiri indietro, facendo decidere gli altri.Questa sua mancanza, quasi assoluta, di determinazione può dare fastidio, ma la mia idea è che Luca si comporti in questa maniera appunto per non creare alcun conflitto nel gruppo o in ogni caso limitandolo attraverso la sua non decisione. Non c’è molto da dire su Lorenzo, se non il fatto che la sua lentezza nei movimenti lo fa apparire l’uomo più pigro della terra.Non rispetta mai gli appuntamenti, arrivando, in sostanza sempre, in ritardo e, nei casi estremi, non li ricorda neppure; a chi glielo fa notare, lui risponde con questa frase: ”Ah già, è vero”. La sua mancanza di precisione negli appuntamenti si può spiegare solo con il fatto che le sue priorità sono altre, come, per esempio, lo studio; da questo punto di vista, Lorenzo sembrerebbe un’altra persona: irreprensibile, ligio al dovere, instancabile nell’analizzare qualunque testo universitario d’Economia e Commercio. La sua personalità è come se si sdoppiasse, come nello straconosciuto romanzo scritto da Stevenson.Un ragazzo d’oro che cerca il grande amore e non lo riesce a trovare.Non per questo si danna per questo, come per esempio, fa il sottoscritto. Aspetta, senza l’ansia che contraddistingue la mia persona, la donna giusta che possa stravolgere la sua vita che nella sua città è abbastanza piatta, come quella degli altri abitanti. L’amore può essere una medicina ottima per rivitalizzare una vita grigia che si divide tra casa, il lavoro o lo studio. Altro caratterino niente male è Andrea la cui evoluzione è tutta da raccontare.Lo conobbi all’età di quattordici anni attraverso un comune amico; lui, capelli biondi e carnagione molto chiara, si presentava davanti a me ben vestito e con uno sgargiante cappellino di una squadra di baseball il cui nome mi riesce difficile ricordare.Una caratteristica, che era difficile non scorgere, nella personalità d’Andrea, era, soprattutto, l’inclinazione a passare da alcuni momenti di felicità, i quali in ogni caso erano pochi, a momenti in cui si chiudeva molto in se stesso: ragazzo quindi lunatico e dal carattere molto umorale. In quest’ultimi dieci anni, il mio amico è cambiato però non so se in meglio o in peggio. La sua trasformazione può essere collocata in un momento preciso, vale a dire nell’anno di grazia 1996 corrispondente alla vacanza del terzo liceo, subito dopo gli esami di maturità.Questo viaggio era da considerare un premio, da parte dei genitori, per le grandi fatiche derivanti da cinque stancanti e quasi indigeribili anni scolastici, almeno per come la vedevano loro.Io non la vedo in questa maniera: già sapevo al momento della maturità che con il diploma si chiudeva un periodo fatto di svaghi e con pochi problemi.Stessa cosa vale per la laurea: tutti sono felici, ma mi chiedo se è meglio studiar per fare un esame ogni tanto oppure dannarsi e,a meno che non sei un genio, trovare la persona giusta che sia un vero deus ex machina e possa offrirti un lavoro.Il posto dove vivo non offre molto e, quindi o si va via, o si cerca una raccomandazione presso il signorotto di turno, signorotto a cui devi essere devoto. La mia considerazione su questo è molto semplice:non sono contrario a andare via dalla mia regione, ma perché devo lasciar la mia famiglia, i miei parenti e miei affetti?Togliere la possibilità ai genitori di godersi i nipoti e comunicargli le loro esperienze.Vedere come il proprio figlio cresca la sua famiglia.Questo è un discorso lunghissimo che non ha nulla a che fare con il tema di questo racconto misto di fantasia e episodi veri mischiati tra loro, sgorgato da una mente deviata e deviante in momento che nulla offriva di meglio, né l’amore, né lo studio, né gli affetti più stretti. Ritornando alla maturità, le mete del viaggio erano chiare fin dall’inizio: Parigi, Amsterdam, Londra e il mezzo di locomozione era, naturalmente, il comodo ed economico treno. Del giorno della partenza ricordo esattamente due cose in maniera distinta: la prima è, la mia invidia per quelli che stavano partendo; la gioia si leggeva nei loro occhi molto chiaramente anche sotto il peso dei numerosi bagagli e zaini. Io credo che l’invidia sia uno dei mali peggiori per l’uomo; in quel momento, mentre io dicevo, con un sorriso falsissimo, stampato sul mio viso, le solite frasi fatte che si usano dire al momento del commiato con delle persone care, una voce dentro di me diceva: ”Speriamo che non si divertano per niente!”. Ero cosciente che si trattava di un’idea brutta, ma purtroppo non si può essere perfetti; mia madre mi ripeteva sempre un detto in casi del genere: ”La bilancia pende sempre da una parte”. La seconda cosa che ricordo di quel momento è la faccia d’Andrea: sembrava che partisse per forza, senza un minimo d’entusiasmo, come se non gli importasse nulla di quello che stava succedendo. Anche se ero sempre preparato ai suoi atteggiamenti, in quell’istante mi chiedevo cose stesse pensando ed in fondo io, fino all’ultimo, sognavo di poter occupare il suo posto perché lui non lo apprezzava ed io me lo meritavo. Nella Provvidenza però bisogna sempre credere! Mi trovavo un pomeriggio a casa ad elucubrare su ciò che i miei amici stessero facendo in quel preciso momento in giro per l’Europa, quando giunge una telefonata: era Antonio, uno dei personaggi più discussi della mia città, un soggetto molto in vista per il suo attivismo politico; Antonio è molto invadente tanto da non poter lasciare indifferenti chi lo conosce; o si ama o si odia. In quel momento io l’ho amato profondamente, per la sua proposta: raggiungere presso un albergo di Londra, Andrea e i suoi amici.La proposta, non solo ha allettato me, ma anche mio padre che voleva in qualche modo premiarmi per l’ottenimento del diploma. E’ stato come ho sempre sognato: partire di notte per una città europea, che ha significato molto, non solo per la storia del continente, ma sembra anche per lo stesso Andrea, perché al nostro arrivo si presentò alla fermata della metropolitana londinese con una luce nuova.Nessuno è riuscito a spiegarsi il motivo di questo cambiamento, direi quasi kafkiano, ma siamo più contenti così.Era sorridente, faceva delle battutine che noi non ci saremmo mai aspettati da lui: se lo guardavo bene, potevo scorgere in lui una luce diversa. Ora Andrea bivacca all’università, pensando poco allo studio e molto al divertimento……..
3 Il giorno 13 ci si riunisce per la partenza: naturalmente le decisioni che si dovevano prendere (dove dormire, dove mangiare) non si prendevano, poiché passò la proposta, da me non condivisa, di fare un viaggio”on the road” (un’aspirazione del nuovo Andrea!). L’unica cosa che si decise fu l’orario della partenza. Lorenzo sembrava quello più deciso: ”Silvio (questo è il mio nome), ho tutto sotto controllo!La macchina è pronta, domani si parte presto, si farà una tappa intermedia e nel primo pomeriggio ci troveremo a Sulmona per le sfide iniziali…praticamente non ci sono problemi!” “Va bene, io non mi preoccupo: l’idea di fare il viaggio è stata mia.Ora tocca a voi l’organizzazione”. Nonostante che, nelle mie parole, poteva trasparire sicurezza e fiducia nei miei compagni di viaggio, sapevo già a che cosa andavo incontro; non riuscii a dormire molto la sera prima della partenza in quanto oscuri presagi, sotto forma di incubi, mi perseguitarono tutta la notte; nella mia mente un’ immagine rimase impressa: nella piazza principale di Sulmona, vi era gente che stava deridendo quattro sfigati senza casa ,praticamente barboni.Quelle quattro persone avevano i nostri volti. Il sogno divenne realtà nel momento in cui, tra le prime luci del mattino del 14 agosto, vidi sotto casa mia la FIAT Punto di Lorenzo che mi aspettava pazientemente.Andrea, Mario,Luca e lo stesso Lorenzo erano scesi dalla macchina per fumare la prima sigaretta, la prima di una lunga serie.Il sole non era ancora sorto,e, senza la luce dei lampioni, la notte sembrava più nera che mai; si distinguevano solo le sigarette accese dei ragazzi.La nebbia che era calata a causa della forte umidità,sembrava la rivelatrice di uno oscuro presagio. Dopo le prime battute di benvenuto, entrammo tutti in macchina; una volta dentro capimmo che i nostri primi calcoli erano sbagliati: forse i bagagli (se si possono chiamare così sacchi a pelo e cinque zaini!) erano troppi ed in macchina non stavamo tanto comodi nonostante la Punto abbia, proprio nelle comodità, uno dei suoi punti di forza. Andrea era l’addetto alla musica, in altre parole il curatore di quella che doveva essere la colonna sonora di quel viaggio.”Questa cassetta l’ho completata ieri alle due di notte, è da novanta minuti spero che vi piaccia!”; con senso d’orgoglio la passò a Luca che, con la solita prepotenza si era messo davanti a fare da timoniere. Con una colonna sonora molto movimentata, era quasi tutto punk-rock o hardcore se vogliamo, il nostro viaggio cominciò molto flemmaticamente; avrei voluto chiedere, ai miei amici, cosa si aspettassero dai prossimi giorni, ma non dissi niente, per non sentirmi rispondere che era una domanda troppo intellettuale e che stavamo partendo senza avere punti di riferimento, appunto per vivere nell’imprevisto. Per questi motivi rimasi nel silenzio, soprattutto perché mi vergognavo di affermare che io un qualcosa d’imprecisato cercavo.
4 Quando si è piccoli si ha la fortuna di non riconoscere la realtà per quella che è: tutto ciò che gira intorno a noi sembra bello.E’ scontato sostenere, che più si diventa grandi, più le poche convinzioni e i punti di riferimento che avevamo, o non esistono più o in ogni caso appaiono fragilissimi. Nel momento in cui capiamo che i nostri genitori invecchiano e muoiono, che anche noi non siamo immortali e che dovremo fare i conti con cose come la sofferenza e l’ingiustizia, diventa triste andare avanti. Il lettore non si metta in testa strane idee: non è un’istigazione al suicidio di massa, ma è la realtà dei fatti.La domanda fondamentale ora è questa: come facciamo a rimanere immortali?La risposta, io penso, è nota, vale a dire compiendo un’azione tale da rimanere impressa nella storia dell’umanità o anche di una comunità, un po’ come succede per i personaggi storici. La mia gioventù idealmente la passai insieme al leader dei Nirvana, al secolo Kurt Cobain, il quale con tre accordi e testi limitati, innalzava al cielo un nostro grido di dolore.Fu una scossa quando mi fecero sentire “Nevermind”, giacché io ero abituato ad un genere più rilassato com’era quello di Zucchero, Ramazzotti o Carboni.Passai da testi dove l’amore era paragonato ad un fiore o una farfalla, dove si parlava dell’amore eterno, a testi dove si cantava la violenza e la morte; il problema o, anche il vantaggio, dipende dai punti di vita, stava nel fatto che non capivo l’inglese e quindi non era influenzato negativamente da quella musica; quando cantavo a casa davanti allo stereo, le parole che uscivano dalla mia bocca erano solo urla che accompagnava la musica. Non erano le parole quelle che mi attraevano ovviamente, ma era soprattutto quella chitarra distorta, quella batteria colpita con violenza, quel giro di basso sporco che rimbombava dentro le mie ossa.Quella sequenza di beat rappresentava una seconda voce, dopo quella vera e propria del cantante,che vomitava significati che ognuno di noi poteva interpretare e recepire diversamente in dipendenza della situazione in cui uno si trovava. Kurt riuscì a monopolizzare cinque anni, non solo della mia vita ma di tutta una generazione; L’introduzione di “smell like teen spirits”cambiò radicalmente la mia vita: da quel momento in ogni sua apparizione televisiva c’ero anch’io. Ricordo, in particolare, una scena emozionante: era l’aprile del 1994; io e mio padre davanti al tubo catodico a veder la partita di pallone la domenica sera.Una mia compagna di classe mi aveva anticipato che su Rai Tre i Nirvana avrebbero suonato.Quella sera su quel canale davano un programma di satira nel quale si esibivano anche cantanti stranieri.Mio padre ed io guardavamo la partita, ma ogni tanto lo pregavo di mettere quel programma. Lo chiesi alle 21; lo chiesi alle 21,30; lo chiesi ancora alle 22,00, ma dei Nirvana nessuna traccia ed il mio dito si era stufato di aspettar di premere il tasto del videoregistratore.Quando, oramai, avevo perso le speranze e tutto sembrava perduto, pregai per l’ennesima volta il mio buon padre di cambiar canale;in quel momento la presentatrice li introdusse con una breve apparizione.Il cantante aveva i capelli rosso fuoco; era un colore acceso che strideva con i suoi occhi.Cantò, supportato dal gruppo, la prima canzone del loro ultimo album.Furono essenziali: cantarono, suonarono e se ne andarono.Quella fu la loro prima e ultima apparizione televisiva in Italia e se sbaglio l’ultima anche nel mondo giacchè Kurt tentò prima il suicidio con un misto di droghe e alcool (la più classica fine per una icona del rock moderno) e poi in seguito si sparò nella sua casa a Seattle. Quell’apparizione fu una gioia immensa per me; la gioia diviene ancor più grande quando uno non se lo aspetta, o, a maggior ragione ,quando l’aspettativa di un evento è scemata. Penso che quel personaggio abbia influenzato numerose vite come fecero,per rimanere sempre nel campo musicale, i Beatles, Elvis e via di seguito.L’incisività di un uomo sulla comunità si nota nel momento in cui quello non c’è più ed, infatti,questo successe a Kurt; quando si tolse la vita fu un lutto gravissimo per tutti, ma in questo modo divenne eterno; fu come aver perso un gioiello cui si tiene in maniera particolare; ciò che bisogna rilevare è che il suo ricordo, come quello di tutti i miti, è rimasto nel corso degli anni. Questo è quello che vorrei per me: il mio ricordo devrà essere indelebile, non devrà scomparire; le gesta che compirò dovranno rimanere nella bocca di tutti e durante quel viaggio in macchina, sentivo che qualcosa doveva succedere.Avrei voluto emulare Kurt: diventare un cantante, un musicista, ma madre natura non mi ha dato il talento necessario per sfondare nel campo dello spettacolo. Sono un ragazzo normale, senza doni particolari, ma il mio istinto mi assicurava che qualcosa doveva accadere e, nonostante io non fossi stato del tutto d’accordo, fin dall’inizio, col compimento di un viaggio alla Keruac, sapevo che il mio destino si sarebbe compiuto lì a Sulmona. Il mio istinto non fu l’unico elemento che mi portò ad accettare questo viaggio poiché essere fatalista non è la mia massima aspirazione, anzi sono sempre stato descritto come un materialista, un tipo pratico insomma; avevo uno scopo ben preciso, per andare in quella città che prima d’allora, io non avevo mai sentito nominare, se non per i confetti, elementi integranti di ogni matrimonio; uno scopo celato ai miei amici i quali, dispettosi come erano, avrebbero potuto anche boicottarmi: il problema era che avevo un incontro con una ragazza. Questa ragazza aveva una particolarità: l‘avevo conosciuta in chat. Dopo tante fatiche universitarie, avevo chiesto al mio papà di acquistare un computer: mi ero rotto di chiedere sempre agli altri la copia di un cd o qualche documento da scaricare da internet, quindi strappai la promessa del pc ai miei genitori, impegno condizionato dal fatto che dovevo superare l’esame di procedura penale.Io mantenni il patto e loro fecero la stessa cosa: dopo pochi giorni il tecnico era a casa a montare il pc. In quel momento mi ricordai di quando ero piccolo e mia nonna mi portava nel negozio di giocattoli più vicino, ad acquistare l’ultima novità in fatto di divertimenti. La bramosia d’avere tutto ciò che mi si mostrava di fronte agli occhi era tanta, mi sentivo come un cane che vede il suo amato padrone con in mano la scodella piena di carne. Ricordo che mi mettevo vicino alla nonna e, con un ritmo martellante, dicevo: ”Nonna questo, questo, questo”.Ricordo che sapevo i trucchi d’ogni giochino, tanto da aiutare la signora dei giocattoli a spiegare ai bambini il funzionamento d’ogni gioco.La morale era che l’unica a non essere troppa contenta, ogni volta che si usciva da quel negozio, era proprio mia nonna che aveva un conto aperto colla signora dei giocattoli. L’immagine del cane si presentò di nuovo nella mia mente nel momento in cui vidi il tecnico del computer collegare la tastiera, poi il mouse, il cavo per internet ed infine la stampante. Il primo approccio con la tecnologia non fu facile: ero come un bambino che stava imparando a camminare, il mio metodo era andare a casaccio; una volta prese le redini della situazione, cominciai a scaricare canzoni, a visitare i siti più disparati, fino a quando non m’imbattei in quella che, in gergo tecnico è chiamata “chat”. La chat può essere considerata come una piazza virtuale nella quale ognuno può inventarsi come una nuova persona: i brutti possono apparire belli, i ragazzi possono sentirsi donne e viceversa. Dopo i primi tentativi d’approccio, m’imbattei in una ragazza: pantera verde. Questa ragazza aveva una scrittura molto vivace, spiritosa e sembrava capirmi come nessuna aveva mai fatto, ma vi era una difficoltà notevole: abitava a circa duecento o trecento chilometri da me e,precisamente, viveva in un paese in provincia di Napoli.
5 “Ciao”, cominciò pantera, ”da dove digiti?”. Era la prima volta che una ragazza mi chiamava in privato nella chat, le altre esperienze non furono molto gratificanti: alcune ragazze erano, in effetti, dei maschi, altre se la tiravano anche via computer. A quella domanda io risposi cortesemente: ”Ciao mi chiamo Silvio e vivo a ********”. Dopo i primi quesiti, posti solo per capire, a grandi linee, con chi ci trovavamo a parlare(anni, studio o lavoro,fidanzato o no), cominciammo a parlare di tutto, dal sesso(era più esperta lei),alla politica,alla musica(qui me la cavavo meglio io),all’università con la quale avevamo entrambi un rapporto di amore-odio. “Perché”, disse lei, ” non ti descrivi?” Davanti a questa richiesta mi sorgeva il dubbio se asserire la verità o fingere di essere un’altra persona; questo dubbio amletico sorgeva a causa del mio non felice rapporto con le donne, imputando la mancanza d’attenzioni femminili ad un fatto puramente estetico.Quando si dice che l’aspetto estetico è un aspetto fondamentale di questa società si sbaglia.I brutti nella storia sono sempre stati degli sfigati, basta pensar a Leopardi; era bello?Da quello che si legge di lui non credo proprio.Secondo voi perché dalle sue poesie traspare solo e sempre pessimismo?La risposta è facile: nessuna donna se lo filava. A parte gli scherzi la ricerca della bellezza è stata sempre un elemento importante nella pittura, nella scultura e anche nella filosofia ateniese. E’ da considerare un ipocrita quella persona che In quella situazione avrei potuto inventare un personaggio nuovo, ma mi fidai della ragazza e quindi elencai i miei connotati fisici: ”Sono alto 1.75, occhi verdi, capelli castani anche se li ho rapati a zero, sono piacevole?”. La pantera rispose con gradimento: ”Saresti il mio tipo ideale!”.La sua risposta non mi stupì più di tanto e la ragione è sotto l’attenzione di tutti: chiunque può avere gli occhi verdi, capelli castani ed essere alto 1.75 ma poi bisogna vedere come si presenta dal vivo, in altre parole, se è curato, se non ha difetti appariscenti. “Io”, disse la pantera, ”sono alta 1.65, ho i capelli biondi,occhi verdi e peso 54 kg.Come ti sembro?”. Io non mi volli sbilanciare: ”Sembri carina!” I giorni passavano velocemente ed ogni volta che aprivo la posta eletttronica, aspettavo sempre, con speranza, un suo messaggio per fissare il prossimo appuntamento nella chat e, dopo tanto scrivere, un giorno tra noi iniziò un discorso strano che ci avrebbe portato a cambiare le nostre vite e quelle dei miei amici. La conversazione cominciò con un semplice saluto; la pantera era molto brava con le parole; lei era abile a dosare le parole e anche attraverso il computer riusciva a trasmettere la sua umanità agli altri; i suoi intercalari, i punti sospensivi messi al punto giusto, i suoi silenzi; la si poteva immaginare, cercando di dare una voce femminile e un tono a quelle parole.La sua dolcezza nel chiamarmi sempre in un certo qual modo mi faceva impazzire; bisogna dire anche che dichiarare in giro come mi chiamava potrebbe essere deleterio tutt’ora; la mia immagine di ragazzo insensibile e freddo, almeno così dicono, potrebbe crollare e questo non può succedere, poiché verrebbe meno il mio scudo difensivo nei confronti degli altri; mi sentirei nudo al cospetto di persone pronte a giudicare e criticare senza sentir ragioni e giustificazioni.Quell’appellativo rimarrà tra lei e il mio intimo mondo. A lei scrivevo di tutto: delle mie sensazioni quando la vedevo in chat, delle mie voglie nascoste;la conversazione filava liscia come l’olio,sembrava di star a parlar con la propria fidanzata, fino a che il discorso si posò su un terreno delicato; lei disse: ”Sono contenta di aver acquistato il computer”. Io risposi con un bel punto interrogativo poiché non capivo il senso della sua affermazione. “Attraverso il computer ho conosciuto te, ma ho in ogni caso un cruccio”. “Quale?”, ero incuriosito.La pantera rispose in questo modo: ”Attraverso la chat non posso vedere i tuoi occhi, non posso capire le espressioni che dai alle frasi; non so se stai ridendo, piangendo, se sei concentrato su quel che ti dico e se rispondi seriamente ai miei quesiti.In più nella chat non c’è possibilità di fare dicorsi più complessi giacché la prima regola è di scrivere frasi corte e stringate”. Rimasi spiazzato da questo discorso che conteneva in sé una domanda ben precisa; io sapevo benissimo cosa la pantera voleva da me e questo m’innervosiva poiché la chat mi era servita per nascondermi dal mondo, col vantaggio di poter comunicare con la gente senza essere guardati negli occhi.La curiosità, però, gioca brutti scherzi e quindi digitai questa frase: ”Hai ragione tu.Perché non c’incontriamo una buona volta?”. Mezzo secondo dopo aver premuto il tasto “Invio”, ricevetti subito la sua risposta affermativa. Avevo fatto la cosa giusta?Non ero tanto sicuro di ciò che stavo combinando.Poteva essere una bufala,poteva essere una maniaca alla Gleen Close in “Attrazione fatale”.Forse ero stato troppo impulsivo nel voler incontrare quella persona che, nonostante tutte le rassicurazioni del caso,non ero sicuro neanche del fatto che fosse una ragazza;forse la spinta a chiederle di incontrarmi è stato il fatto che nella mia città,la vita è piatta,monotona e quindi uno stimolo di questo tipo,forse,mi serviva.
6 Ogni giorno il pensiero era questo: ”Come faccio ad incontrarla?”. Il problema non era semplice da risolvere poiché mi avrebbe dato fastidio portare la pantera nella mia città.Il mio paese è molto provinciale: dentro quelle quattro mura che la cingono, le parole volano, le cattiverie svolazzano nell’aria ed io non avrei sopportato il giudizio degli altri, soprattutto dei miei amici, su quell’incontro, ma soprattutto mi sarebbe dispiaciuto che fosse stata giudicata lei. Anche adesso io non faccio fatica ad ammettere che i loro giudizi avrebbero pesato su quell’incontro: non ho mai detto di essere un ragazzo forte! Quell’incontro doveva risultare, per chiunque, tranne che per lei, un incontro casuale.Il destino, in quel caso, fece la sua parte. Quell’estate, infatti, come solito, si bivaccava con Andrea, Luca e gli altri in un posto situato fuori la mia città,in una frazione.Non si può considerare quel luogo un locale vero e proprio giacchè era fatiscente, pieno d’anziani del luogo e l’unico passatempo consisteva nel giocare con le carte napoletane.I vecchi, infatti, passavano il tempo a litigare e a discutere sulle carte da scoprire con in mano un bicchiere di vino.La stessa cosa facevano i miei amici, me escluso; questo non significa che io non volessi giocare o che erano loro a tenermi fuori, ma ero allergico sia alle carte napoletane sia al vino con gran disappunto sia di mio padre sia dei suoi amici i quali, avendo delle vigne personali, erano sempre pronti ad offrirmi un bicchiere del vino buono.Quella bettola fu molto utile per iniziare una discussione importante: ”Che cosa facciamo quest’estate?”. Mario subito rispose alla mia domanda: ”Guarda, io posso partire solo per tre, quattro giorni”.Lorenzo seguitò: ”Io potrei prendere la machina…”. Andrea s’impose: ” Ok, è deciso”.Noi lo guardammo e Luca lo interrogò: ”Scusa, deciso cosa?”.Andrea, con calma, prese una Malboro, la accese, inspirò ed espirò, quindi parlò, mentre noi pendevamo dalle sue labbra: ” E’deciso: faremo un viaggetto; la macchina c’è, noi la volontà l’abbiamo,ma dobbiamo sciogliere solo un quesito.”. Luca fu il più lesto ad intuirlo: ”Dove andiamo?”. Nessuno mi guardò in quel momento, ma se qualcuno avesse osservato il mio viso o i miei occhi, avrebbe notato una certa luce; era proprio così: c’era l’occasione, da prendere a volo,per potere,finalmente,incontrare la mia pantera verde.Questa era l’occasione giusta per inserirmi nel discorso: ”Certo che la meta non è facile da trovare, ma tramite internet, oppure più semplicemente, attraverso gli uffici del turismo, qualche idea ci può venire”.Naturalmente sapevo già dove andare a parare. Quello era il periodo in cui io ero interessavo agli spettacoli medievali ed avevo sentito parlare di una manifestazione che si svolgeva in una cittadina nell’Abruzzo, chiamata Sulmona, nella quale da pochi anni si svolgeva una “Giostra Europea”. La mia opera di convincimento fu degna dei più grandi politici: la cosa da rilevare è che feci arrivare i miei amici alla conclusione che quella era l’unica meta possibile e praticabile per noi; ovviamente anche il nome della città fu fatto per “caso”. Lorenzo, Luca ed io eravamo in un internet-cafè situato nel nostro centro storico.Io proposi di scoprire tramite il motore di ricerca, un luogo dove poter andare;eravamo d’accordo nel trovare una città nella quale ci fosse in quel periodo una manifestazioni.Avevo già visitato a parte quei siti per cui, guidando Lorenzo,che aveva il comando delle operazioni, arrivammo lì dove volevo arrivare io: a Sulmona. L’ultima fase dell’operazione era avvertire la pantera verde.Le chiesi un appuntamento sulla chat ed ella, tramite email, fissò l’incontro per le 22,00. “Ho una notizia per te” “Quale?”, disse lei. “Hai ancora intenzione di incontrarmi?”, in cuor mio speravo in una risposta negativa in quanto non ero convinto ancora del tutto e la mia curiosità, che comunque era molta, veniva compensata dalla possibile delusione scaturente dall’incontro al vertice tra “la pantera”e “germi”. Lei scrisse: ”Ho voglia di incontrarti e spero presto”. Io risposi: ”Ho pensato a tutto; io e i miei amici andiamo tra una settimana in una città chiamata Sulmona; c’è una manifestazione simpatica.Potremo unire la curiosità con la cultura” Dovetti aspettare un attimo, prima di vedere comparire sul mio monitor la risposta: ”Mi organizzerò con le amiche”.Era fatta! Il mio piano era concluso.Tutto per il momento era filato liscio e, solo per questo motivo, sentivo in me come una sensazione d’appagamento. “Dobbiamo però trovare un modo per riconoscerci, non so neanche il tuo nome”, dissi io. La pantera rispose: ”Valentina è il mio nome.Ti ho descritto già come sono. Mandami una foto: sarò io a trovare te in quella città.” Feci come disse lei.
7 Il nostro viaggio non prevedeva nessuna sosta, ma avevamo deciso, di comune accordo, di ammirare ed osservare il panorama entro cui, noi cinque ci stavamo muovendo. Eravamo concordi nell’uscire, ad un certo punto, dall’autostrada e attraversare le città e i paesetti e notare il cambiamento del paesaggio. Io non ricordo il nome del luogo, ma ricordo la canzone che, dentro la Punto F.I.A.T vi era in sottofondo: ”Don’t call me white” dei NOFX; pure questa faceva parte della colonna sonora fatta da Andrea. La canzone, questo io lo ricordo, non andava molto d’accordo con la musica che si sentiva fuori.Il suono si estendeva dall’interno di una vallata piena d’alberi.Superando tale vallata si scorgeva, in profondità, un castello.Era un ritmo sempre uguale, direi quasi ipnotico; anche le parole erano sempre le stesse.Si doveva trattare di un “rave”. Tra noi, Mario era quello più attirato da quella situazione: quando eravamo più giovani andavamo sempre in quello locale da ballo che era situato presso la villetta comunale. La discoteca, che noi frequentavamo, era molto piccola ed era piena solo nei periodi festivi e, forse, è per questo che ha cambiato più volte gestione: una volta divenne un locale per gruppi rock, con tanto di manifestazione natalizia, ora è diventato un normalissimo pub dove il sabato e la domenica c’è il karaoke,perdendo la sua peculiarietà rispetto agli due o tre locali presenti nella mia città. Quando il luogo era affollato, io e lui ci divertivamo ad inventarci delle coreografie degne del noto Franco Miseria (il coreografo di Pippo nazionale).Ricordo, in particolare, una serata dove la musica dominante era quella degli anni ottanta e, per questo motivo, il locale era pieno d’adulti; Mario ed io ci mettemmo a ballare sulla pedana davanti a quegli adulti molto convenzionali, come, d’altronde, lo sono stati gli anni della loro giovinezza.In poco tempo riuscimmo a riscaldare l’ambiente, organizzando trenini, suggerendo come muovere il corpo su determinate canzoni; penso che in quella serata facemmo anche un’opera di bene in quanto molte dei quei trentenni o quarantenni capirono che,nonostante l’età,potevano ancora divertirsi giacchè lo svago non deve,per forza di cose,concondare con l’essere infantili. Quello è stato l’unico periodo in cui ho amato la discoteca e in ogni modo il ricordo della musica house o commerciale è legato soprattutto alle numerose feste di diciotto anni che si susseguivano in quel periodo: ogni sabato c’era qualcuno che diventava maggiorenne; alcune volte eravamo tra gli invitati ma, molto spesso, i miei amici ed io pregavamo il buttafuori di turno per farci entrare.Le feste, dove noi figuravamo come “imbucati”, erano le migliori.Penso di conservare ancora una foto nella quale figuro insieme ad una ragazza, che probabilmente era la festeggiata e di cui non ho mai saputo il nome,e ai suoi genitori.Quelle feste erano l’unico svago per noi soprattutto nel periodo in cui nessuno di noi possedeva la patente e, quindi, i nostri spostamenti erano limitati.Il mio animatore preferito era Alfredo Camerini, in arte “Alfio Camacho”, il quale,con la sua esperienza,sapeva far smuovere anche i più timidi a suon di latino-americano o attraverso la musica anni ottanta.Quell’uomo era mito per me: operaio il giorno,animatore la sera, non per scelta ma perché,forse,il suo stipendio da lavoratore non era sufficiente; questa,però,è una mia considerazione personale che si basa sull’atteggiamento che Alfio aveva nel mettere i dischi: mai un sorriso o una smorfia di felicità; aveva sempre la testa bassa tanto che si poteva notare la sua calvizie precoce. Questi compleanni si svolgevano sempre alla stessa maniera: le ragazze erano tutte in tiro e, di solito, l’unico adolescente vestito elegante era l’eventuale fidanzatino della festeggiata.Tra balli e scherzi vari, durante la festa, potevano nascere nuove coppiette, per di più occasionali; vi era, naturalmente, il gruppo degli alcolizzati e dei drogati e,se la fortuna ci assisteva,potevamo anche assistere ad una rissa.Il lettore può dedurre, da questa piccola descrizione, che ci divertivamo con poco: non esistevano i cellulari e ad ogni modo, non erano un genere d’alto consumo come adesso; pochi avevano il computer e, tra quelli che lo possedevano, chi aveva internet era considerato un privilegiato. Ricordo ancora che, con i miei amici del quartiere, giocavo con le barchette contruite con mezzi di fortuna, e si faceva a gara per vedere quale “caravella”, la cui chiglia era fatta con il guscio della noce e il cui albero maestro era composto di uno stecchino retto dalla cera, sarebbe arrivato al traguardo.Ricordo anche le partite a pallone nella strada o a nascondino.Quei tempi, nonostante si stia parlando di pochi anni fa, sembrano un lontano passato remoto. I ragazzi di quattordici o quindici anni, che incontro ora per il mio centro storico, andando in giro con il mio cane,passeggiano tutti con il telefonino e lo sguardo rivolto verso quello strumento infernale in attesa di un messaggino o di uno squilletto.Hanno tutto ciò che si può desiderare e non lo apprezzano e per questo sono infelici.Sono i figli della televisione; glorificano il povero comandante Cheguevara, controllati da una cultura che si professa libera, e ciò nondimeno non lo è, ma poi sono i primi ad essere intolleranti nei confronti dei più deboli; inneggiano alla liberazione delle droghe, ma non avendo neanche il coraggio di dire ai propri genitori che fumano, accendono una semplice sigaretta in un vicolo buio.Sono una generazione senza fantasie o idee.Il problema della nuova società è,forse,che tutte le grandi battaglie sono state fatte,tutte le grandi idee sono state diffuse.La salvezza,secondo me, è vincere i piccoli soprusi che la vita ci pone innanzi, senza pretese.
8 “Vogliamo fermarci?”disse Mario con un sorrisino sulle labbra; si vedeva che l’idea di stare un po’ lì lo solleticava.Lorenzo commentò: ”Io mi fermerei, ho guidato per quattro ore, sono un po’ stanco, vorrei almeno fumarmi una sigaretta.Voi che dite?” Andrea e Luca erano d’accordo anche se il loro motivo era più futile: non erano amanti della musica da ballo ma c’erano delle pulzelle niente male, molte delle quali indossavano pantaloni molto aderenti il cui taglio faceva risaltare il loro posteriore.Io ero il meno convinto del quintetto dato che non volevo far tardi all’appuntamento con la pantera in quel di Sulmona,ma nello stesso tempo,non potevo far trasparire la mia insoddisfazione per la sosta non prevista per non farmi scoprire. Il primo problema fu trovare parcheggio: il posto era bucolico e c’era solo una viuzza lunga che arrivava fino al castello; le macchine erano poste lungo il lato destro della strada per cui,a causa della larghezza ridotta della via,si poteva procedere solo in un verso.La coda delle macchine parcheggiate era lunga molti chilometri e sembrava arrivare fino al castello posto in profondità. Dopo aver parcheggiato, faticosamente, la macchina, dovemmo fare un ampio tratto di strada a piedi, salire lungo una via sterrata e, finalmente, dopo tutta quella marcia, c’imbattemmo nel “rave”. Ci trovavamo dentro un bosco molto fitto; la leggera foschia dava un tocco di teatralità al tutto; vi era un ampio spazio, in mezzo al bosco, limitato, ai margini, da dei grossi alberi.All’interno di questa superficie vi era montato un palco sul quale c’ erano due o tre dj ed un numero imprecisato di ragazze in reggiseno che, suppongo, dovevano dare un tocco hard all’evento.Queste ragazze erano o delle coraggiose incoscienti o erano pagate profumatamente poiché la temperatura non era alta: sebbene ci trovavamo in piena estate il clima non era agevole giacché aveva piovuto; in più vi era molta umidità amplificata dalla presenza degli alberi.Sembrava che nessuno sentisse la temperatura bassa; erano tutti eccitati nella danza: scuotevano le mani, la testa, i piedi ed ogni tanto facevano segni ai danzatori vicini;il tempo incauto non sembrava scalfire il ballo: la maggior parte dei ragazzi si trovava sotto il palco,accalcati,sporchi di fango,quasi come se fosse una grande orgia;quelli più vicini al palco danzavano rivolti verso le signorine mezze nude,sperando che magari, offrissero sesso gratis.Le signorine guardavano questi maschietti eccitati, e quindi sorridevano anche se quelli sotto facevano uscire, dalla loro bocca , le parole più irriverenti;ed intanto continuavano a ballare.Oltre quella gente, vi erano altri che erano situati al di fuori della confusione e del fango:alcuni ballavano, altri erano intenti a dormire nonostante la musica rimbombava al di fuori della valle. Mi rimase impressa una coppietta: ”Guarda quei due!”, mi disse Lorenzo; io mi girai dietro di me e vidi due corpi, che sembravano uno, dondolare a tempo di musica. Lei aveva le mani sul suo sedere e lui faceva la stessa cosa.Posso immaginare che il punto d’unione era costituito dalla loro lingua, poiché il bacio sembrava non dover finire.Il giovane aveva il viso coperto dalla chioma bionda della ragazza, la quale lo teneva stretto a sé, come se qualcuno o qualcosa potesse portarglielo via.Lorenzo, Luca ed io avremmo desiderato essere al posto di quel fortunato, con tutto il cuore.Mi venne in mente che, forse, la pantera avrebbe potuto soddisfare questa mia fantasia: già assaporavo il momento in cui avrei potuto cingere i fianchi della mia amica e poter gustare le sue labbra. Intanto, senza essercene accorti, mancavano all’appello sia Mario che Andrea; Luca, sfumacchiando la solita sigaretta,prese la decisione: ”Basta ora fare i guardoni!Dove sono quei due?”.Guardò Lorenzo e ricevette, come risposta, un no, scuotendo la testa; si rivolse verso di me, attendendo la mia risposta, ma anch’io feci cenno di non sapere dove fossero. Era difficile parlare poiché quella musica, che io chiamerei rumore, proveniente da quelle gigantesche casse poste ai lati e sul palco,era quantomeno assordante. Ci dividemmo: Lorenzo ed io ci preoccupammo di trovare Mario, mentre Luca pensò ad Andrea. Accendendosi un’altra sigaretta, Luca s’inoltrò nel bosco, giacché sapeva bene i gusti del nostro amico: Andrea ha avuti sempre la mania di nascondersi, di star lontano dalla massa, stabilendosi sempre in luoghi appartati , convincendo anche gli altri a fare lo stesso; ciò ha comportato che, la maggior parte della gente, tutt’ora ci considera un gruppo di snob a causa di questa mancanza di relazionarsi con gli altri .Quest’abitudine ci ha portato a passare numerosi sabati sera lontani da persone diverse dalle solite, parlando di calcio, di ragazze, di politica e spettegolando dei vari personaggi che la nostra città sfornava a ripetizione. Luca sapeva bene dove andare a trovare Andrea; girando tra i vari piccoli assembramenti, nascosti tra gli alberi,scovò il compagno scomparso: era sdraiato sull’erba asciutta, insieme a degli sconosciuti; appena vide Luca, gli fece cenno di mettersi accanto a lui.Luca acconsentì e, una volta seduto, rivelò: ” Andrea, mi sa che dobbiamo ripartire”.Andrea lo invitò alla calma. Aspetta, ti presento un amico” Un ragazzo basso con uno sguardo perso nel vuoto si trovava al suo fianco: ”Ciao sono Stefano”.Luca potè notare i suoi denti rovinati ad un cenno di sorriso, ma soprattutto poteva sentire il suo odore denso di vino”Stefano l’ho conosciuto ora: è un tipo originale”.L’originalità di quel giovane stava solo nei suoi discorsi sconclusionati che Luca non riusciva proprio a capire;ovviamente erano discorsi che potevano comprendersi solo se non si era lucidi; solo Andrea riusciva, non soltanto, a capire quei discorsi ma anche a dar delle risposte!Di solito è l’alcool che fa tal effetto e sembrava che Andrea avesse abusato di qualche liquido. Luca girò la testa verso l’amico e gli chiese senza mezzi termini: ”Ma chi è ‘sto scemo?”. “Dai è simpatico”, rispose Andrea con lo sguardo perso nel vuoto.Luca capì che la volontà d’Andrea era rimanere lì, quindi, in silenzio, si alzò e si diresse verso la bolgia danzante. Nel frattempo Lorenzo ed io eravamo in cerca di Mario; sapendo delle sue abitudini ci recammo in mezzo al luogo dove era viva la festa; non ci volle molto a trovarlo poiché Mario è un tipo alto con una chioma lunga e nera.All’interno della confusione potei scorgere una capigliatura che si agitava: era il nostro amico. Una volta avvicinato Lorenzo gli chiese di andare, ma lui disse: ”Avrei intenzione di rimanere qui”. Avendo capito, dal labiale, cosa aveva in mente lo attaccai: “Scusa, e il nostro viaggio?Lo mandi così alla malora?”; la musica era molto forte, quindi Mario mi parlò nell’orecchio e mi rese manifesto che lui si trovava bene lì e che non c’era da preoccuparsi, avrebbe trovato un modo per tornare a casa.Il mio più caro amico mi voleva abbandonare! Riuscii neanche a controbattere la sua decisione per quanto fu una cosa improvvisa ed incalcolabile; ero deluso ed affranto e l’unica cosa che, in quel momento, mi venne in mente fu dire a Lorenzo di andare a cercare Luca ed Andrea. Non fu difficile trovare Luca giacchè anche lui era alla nostra ricerca.”Non crederai cosa mi ha detto Andrea”.Ormai non potevo stupirmi più di nulla e quindi provai ad indovinare: ”Rimane qui anche lui?”.”Perché anche lui?”, chiese Luca. “Mario, anche, ha deciso così”. Eravamo rimasti in tre e decidemmo di andare a visitare il castello, giusto per prendere un po’ di tempo.Rifacemmo la scarpinata al contrario e prendemmo la macchina.In quel momento l’ansia mi assalì perché l’intoppo posto da quei due poteva smorzare gli entusiasmi iniziali. “Certo abbiamo certi amici che non sono da raccomandare a nessuno!Come cazzo si fa a fermarsi insieme a degli sconosciuti?Aspetta, come fai a scegliere degli sconosciuti a noi?”. “Esattamente!Non si può fare una cosa del genere”, dissi io, ”ma non è la prima volta.Ricordate quando ad un capodanno ci lasciò come due cretini in mezzo alla strada?Siamo noi gli stupidi; sembriamo come i cani quando vedono che il padrone vuole regalare loro un qualcosa.I cani si mettono seduti, immobili e aspettano che un cenno dell’amato padrone.Noi siamo così, siamo alle dipendenze di quei due,magari loro pensano che sono importanti per noi,quindi vi dico: andiamo via.Che ne dite?”. Lorenzo fermò la macchina a lato della strada e si voltò verso me e Luca e disse:”Facciamo così: andiamo a visitare il castello e poi ritorniamo qui; se quei due sono ancora dello stesso avviso, partiremo senza di loro.Concordate?”. Queste erano parole che sembravano uscire più dalla bocca di Luca piuttosto che da quella di Lorenzo, in ogni caso Luca ed io concordammo sulla condizione posta dal nostro autista e ci dirigemmo, di comune accordo, verso il castello. Giunti al castello,parcheggiammo a fianco della torre più vicina.Quel castello era deserto e, con qualche timore, ci recammo verso le scale che portavano verso l’alto. “Ricordate i film su Merlino, i cavalieri di quella tavola..”, questo disse Lorenzo. Con un certo fiato insistente Luca rispose: ”Era la tavola tonda,ignorante!E lo sai perché era tonda?” “Lo so io!”, entusiasta di poter fare una lezione,risposi:”Re artù voleva essere considerato un cavaliere come gli altri e, con un tavolo tondo,nessuno poteva stare a capotavola.In tal caso avere un castello doveva essere faticoso!non potevano inventare un ascensore?”.Nessuno rispose, non per cattiveria, ma perché non avevamo mai fatto quelle scale tutte in una volta. Arrivati sulla torre, era ben visibile quel luogo perverso; il paesaggio sembrava essere estrapolato da un girone dell’inferno di Dante, l’unica cosa che non c’entrava nulla erano le macchine della polizia;notai anche le sirene accese,non tanto per il loro suono,che si confondeva colla musica da discoteca,ma perché lampeggiavano. “Mario e Andrea!”, sbottai io, ”dobbiamo andare per vedere cosa è successo!”. Ormai quelle scale non ci facevano più paura,scendemmo in fretta e in furia,prendemmo la macchina, e facemmo il percorso al contrario. Arrivati vicino al bosco,notammo due pattuglie della polizia,una marea di ragazzi che scappavano mentre i poliziotti si affannavano a fermarli. Luca vide tra gli arrestati, Stefano, l’amico d’Andrea, che sembrava non rendersi conto di ciò che stava succedendo intorno a lui: aveva lo sguardo perso nel vuoto e, in ogni modo, sul suo viso era sempre stampato un sorriso che non aveva nessuna giustificazione;era in manette e uno in divisa lo stava mettendo dentro il cellulare.Io mi domando, tuttora, quale sarà stata la sua sensazione nel momento in cui, svegliandosi dentro ad una cella superaffolata,cominciava a rendersi conto del guaio nel quale si era cacciato. Era ora di ripartire, anche senza i due compagni; rientrammo in macchina, Luca si mise alla guida e rifacemmo la stessa strada per l’ennesima volta, ma ci fu una novità: da un cespuglio spusto la folta chioma nera di Mario e la testolina bionda rasata d’Andrea. Ci fermammo e i due, con gran fretta cercarono di entrare in macchina, ma Luca bloccò le porte, aprì il finestrino e, con voce ferma, disse: ”Bè!Già avete cambiato idea?”, naturalmente era tutto condito da una nota polemica.Andrea rispose: ”Dai non fare lo stronzo!Apri, non vorrai che i polizziotti fermino anche Mario e me!”. Noi tre ci guardammo e un piccolo sorriso accomunò i nostri volti:Luca chiuse il finestrino,riaccese la macchina e partì.I due amici fuori cominciarono ad urlare le più ignobili parolacce che questa terra non abbia mai vomitato, ma era tutto uno scherzo poiché non ce la sentivamo di lasciarli come due pezzenti in mezzo la strada e, soprattutto, alle prese colle forze dell’ordine. Senza parole entrarono nell’auto e ripartimmo per una nuova avventura.
9 Ogni volta che ripenso a quel viaggio mi viene in mente sempre l’immagine di quei camion con le gabbie piene di animali; noi alla fine eravamo in quelle stesse condizioni: cinque persone dentro una macchina senza aria condizionata, con un caldo torrido allucinante e con pochissimo spazio all’interno di quella gabbia che era la punto f.i.a.t. A causa del vento non era possibile nemmeno tenere un discorso serio poiché le parole volavano via, partendo dalla postazione di davanti e uscendo dai finestrini di dietro; per far capire una battuta al mio vicino dovevo ripeterla almeno due volte facendo perdere almeno metà della comicità a quella situazione buffa; per non parlare della comunicazione che poteva esserci tra quei due davanti e noi tre dietro: ogni tanto si poteva carpire qualche parola, tra una folata e l’altra di vento, tipo:”Ragazze…tante…libere…Silvio…”. Al nome Silvio mi son tirato in avanti verso Lorenzo, l’autista, e Mario facendo una domanda semplice quanto ovvia:” Cosa si parla, ma soprattutto perché parlavate di me?”. “Si parlava di ragazze”. “Il mio dolente tallone d’achille!”, dissi io; “Posso farti una domanda?” chiese Mario, facendo un cenno con la testa io acconsetii,”Come mai non ti vediamo mai con una ragazza?”. “Bè Mario dopo il fattaccio nel quale eri coinvolto anche tu forse è stato difficile ritrovare fiducia nelle persone, negli amici, ma soprattutto nelle ragazze…” Naturalmente il fattaccio riguardava il mio rapporto con Erica…
10 Io sono sempre stato un ragazzo chiuso in tutti sensi: non parlavo tanto, giacchè si può dire che il mio carattere era chiuso, ma il fatto di non essere aperto dipendeva anche dal mio comportamento quotidiano cioè dal fatto che ero sempre chiuso nelle mie quattro mura, difficilmente uscivo e nonostante avessi tanti amici, anche di lunga data come appunto Mario, non riuscivo a trovare chi veramente poteva capirmi, tutti a guardare non oltre la punta del loro naso.Quando mi sentivo solo andavo a salutare qualche amico in un negozio di dischi; questi amici avevano il nome di Cobain , Vedder, Lennon, Freddy Mercury che cantavano di libertà e liberazione, del senso di oppressione che attanaglia la nostra generazione che ha tutto quelle che si può immaginare, dal punto di vista materiale, ma che non ha un punto di riferimento morale. Io sento di far parte della categoria degli sfigati: non è un termine dispregiativo ma voglio intenere quella razza di ragazzi, magari insicuri, timidi che sanno di non essere un faro per nessuno ma che avrebbero tanto da dire, una razza che l’altro sesso disdegna al massimo li considera come animali da compagnia o loro confessori; si tratta essenzialmente di una categoria che sa di perdere il confronto con quelli fichi (quelli che sono “cool” come dicono in televisione) con quelli che vengono considerati i vincenti nella società.Noi Sfigati sappiamo che la loro bellezza sarà effimera, la loro arte sparirà nel giro di poco e quindi spariranno, e forse e questo che ci dà la forza di andare avanti: l’aspettare il momento nel quale quelle persone saranno cadute in disgrazia…Forse non è la cosa più cristiana da dire ma da parte nostra si tratta della realtà oggettiva. Quando mettevo la cuffietta e sentivo uno di quei pezzi che hanno fatto la storia della musica sentivo che loro mi dicevano questo:”Fatti sentire, abbi il coraggio puoi fare quello che vuoi fare”. Per me era una liberazione, era come andare in chiesa dal confessore e in quella chiesa sconsacrata incontrai una ragazza cioè Erica. Aveva una competenza in materia lo capii quando prese un cd degli Who e chiese al proprietario del “SOTTOMARINO GIALLO”( così si chiamava il negozio di dischi essendo, il proprietario un amante del beatles e forse l’unico del mio paese ad averli visti dal vivo) di mettere “Tommy”. Quanto partì la chitarra di Peter osservai lei di nascosto: aveva gli occhi chiusi e dondolava la testa al ritomo della batteria che entra nella canzone dopo qualche battuta, sembrava facesse l’amore colla canzone; i suoi capelli biondi le cadevano sulle spalle e nonostante dai suoi gesti e dai gusti di notasse la sua passione per la musica pesante il suo aspetto non lo dava a vedere: era una ragazza ben vestita che in un’altra situazioneavrei inquadrato come una giovane discotecara dedita a fare vedere come era bella a tutti i ragazzi arrapati che le ballavano vicino. Non era così perché chi sente la musica rock ha un animo grande così, chi la sente veramente quella musica però,non chi fa di quella solo un ascolto superficiale. Le sue mosse mi facevano pensare ad un serpente e i suoi fianchi andavano a ritmo seguendo anche il controtempo.Si avvicinò a me e mi guardò: “Sentiti questa canzone al buoi con una candela accesa e capirai quello che il destino ti concederà o vuoi che ti concda”. Si girò al proprietario del negozio e lo ringraziò per l’ascolto e se ne andò. Io imasi di stucco, non dissi neanche grazie e naturalmente non le chiesi manco il nome, ma questo era una cosa normale per uno sfigato come me,ma comunque la poesia di quel momento, la magia di quell’attimo si isolava da tutto e non c’era spazio per una domanda idiota quanto inopportuna come quella. Sentii in quello spazio di cinque o sei minuti, in altre parole il tempo della canzone, una forza vitale in me che mi spinse fuori di quel locale verso casa mia con in mano una cassetta vuota nella quale registrare una serie di canzoni.Per farla, dovevo indirizzarla o dedicarla a qualcuno perché fare una registrazione di quel tipo non significa mettere una canzone dopo l’altra ma bisogna seguire certe regole.La prima regola sta nel ricordarsi che usi parole di una persona per esprimere qualcosa tu, quindi si dà all’opera un significato, un messaggio che con parole tue non riesci a far comprendere; bisogna anche rcordari che uno strumento del genere si può usare solo con persone che sanno il significato di quel gesto, sanno che sei tu quello che canti anche se a volte la voce è femminile. La seconda regola riguarda essenzialmente la struttura dell’opera: allo spettatore bisogna far conservare l’attenzione necessaria per tutti i novanta minuti, perché la cassetta da usare è di quella durata, giacché non è possibile fare un’opera complessa in minore tempo, diciamo sessanta o quarantasei minuti!Chi usa cassetta con durata minore non sa quello che deve dire.Bisogna cominciare con pezzi forti, almeno tre o quattro e finire con pezzi di altrettanto valore, ed in mezzo mettere canzoni di medio valore poiché pezzi più importanti non riuscirebbero a catturare l’attenzione necessaria e richiesta, per cui tanto vale mettere alcuni motivi orecchiabili. L’ultima regola riguarda il destinatario; non poteva essere che lei, quell’angelo maledetto, quel serpente incantatore che mi consegnò quelle frasi stupende e stupefacenti. Presi tutti i cd che avevo e li buttai sul letto rovistando tra loro per trovare quei titoli più adatti a lei……lei……chissà qual era il suo nome; in ogni caso optai per canzoni con sonorità anni settanta in cui i suoni acidi della chitarra facevano da contraltare agli ideali da figli dei fiori: come si faceva a pensare ad un accostamento tra la chitarra dei LED ZEPPELLIN e un motto tipo non fare la guerra ma fare l’amore?Rimane un mistero almeno per me. Ilo problema ora era trovare il momento adatto per consegnarle la cassetta e, soprattutto, trovare il momento dato che quella ragazza non l’avevo mai veduta, anche se in ogni caso era difficile vederla poiché non era lei che rimaneva a casa,ma io! L’unico posto dove ritrovarla era al “SOTTOMARINO”, ed infatti andavo sempre lì sperando che la sorta mi fosse stata amica:in quel momento ripensavo a alla frase dettami dalla misteriosa ragazza, stavo seguendo il mio destino, pensavo in quei momenti, o al massimo lo sto costruendo. Portavo sempre la cassetta nella tasca del mio giubbino preferito in modo tale da averla sempre a portata di mano e di consegna, nonostante non avevo pronto un discorso o almeno tre o quattro parole da comunicare a quella ragazza. Quel giorno ricordo che pioveva come non aveva mai piovuto in quella città deserta, la pioggia batteva duramente sulla mia faccia mentre cercavo di tornare a casa col motorino, perché,giustamente questa è una prerogativa degli sfigati, ero uscito col motorino che faceva caldo e c’era il sole e quindi Giove pluvio decise di accanirsi contro la mia povera personcina.Ero sul motorino quando cominciai a bestemmiare per la pioggia che mi colpiva violentemente e che stava lavando la città non solo dalla sporcizia materiale ma da anche quella spirituale;ho sempre pensato all’acqua e segnatamente ala pioggia come uno strumento di purificazione dell’uomo; questa convinzione forse era dovuta alla mia educazione cristiana che ricevetti.Giove sembrava accanirsi contro di me e io lo stavo maledicendo ma dovetti ricredermi: quel dio munifico stava aiutandomi ad incontrarla: era troppo pericoloso ritornare a casa e allora mi rifigiai al SOTTOMARINO , per parlare con qualcuno, per esempio, il vecchio Hendrix. La canzone che stava suonando forse era Foxy Lady,ma non ricordo giacché i miei ricordi di quelle ore a seguire sono tuttora offuscati dagli avvenimenti che seguirono; i miei occhi si spostarono dalla copertina del vinile alla figura della ragazza danzante;stava guardandomi con i suoi occhi cercava qualcosa dentro me, ed io mi sentivo inerme come un bambino appena uscito dall’utero della mamma, nudo e rannicchiato su se stesso e senza la possibilità di proferire parola se non versi o rumori incomprensibili. Mi ricordai della cassetta e stavo rovistando nella tasca destra del giubbino blu ma senza riuscire a trovarla per il fatto che avevo cambiato giacca! L’unica cosa che riuscii a dire fu qualcosa del genere:”Avevo una cosa da darti ma forse l’ho lasciata a casa…che fesso…scusa…”. “Scusa di cosa? Andiamo a casa tua e me la dai”. “Bè se ti va possiamo andarci ora, se vuoi, se non hai altri impegni, se non ti disturba,se…”, lei mi chiuse la bocca con la sua mano sinistra prese la mia mano per uscire dal negozio. Pioveva, ma con lei dietro, sul sellino del mio scassato motorino, non sentivo più il dolore sul mio viso a causa della pioggia, forse era l’angelo dietro di me che mi teneva stretto e aveva costruito uno scudo per prottegermi, forse aveva dei poteri magici quella ragazza. Eravamo arrivati sotto casa mia e mentre cercavo le chiavi del portone notai che lei non si nascondeva dalla pioggia, ma anzi la cercava, aveva le braccia aperte e il suo viso era rivolto verso il cielo con occhi chiusi, chissà alla ricerca di cosa o di chi. Salimmo le scale, la portai nella mia camera e, mentre cercavo di farfugliare qualcosa e dire frasi di senso compiuto per temporeggiare in modo che potessi tenere desta la sua attenzione fono a che non trovavo il maledetto giubbino blu, lei si aggirava in silenzio nella mia stanza. La ragazza stava notando i poster, i libri soffermandosi su un testo d’Asimov, poi passò ai dischi che io, in maniera accurata, avevo disposto secondo due criteri:l’ordine alfabetico e l’anno di produzione. “Ti piace la mia stanza? Diciamo che qui vivo la maggior parte della giornata…aspetta ecco il giubbino …trovato!”. Mi girai verso di lei e mi accorsi che lei mi stava dietro le spalle e proferì queste parole, mentre le rendevo visibile la cassetta: “Mettila, fammi ascoltare”. Infilai la cassetta da novanta minuti nello stereo di casa e lei fece come al negozio di dischi , incominciò a dondolare al ritmo della musica, ed io solo in quel momento mi resi conto che le canzoni, sebbene molto ritmate, esprimevano troppo sentimento, forse ero stato un po’ sfacciato. Lei mi venne incontro, io ero vicino allo stereo fermo come una statua ad osservare ogni suo movimento, ogni suo gesto.Sentivo un’emozione dentro di me che non avevo provato, non era amore, non poteva esserlo,ma sicuramente si trattava di una profonda attrazione verso di lei che faceva ribollire il mio sangue, che riuscì a mantenere calde le mie mani notoriamente due pezzi di ghiaccio. La ragazza si avvicinò a me e disse delle parole, sussurrando, per non rovinare la bellezza della canzone: ” Io mio nome è Erica”. “Io il mio è…”, non potei finire la frase, perché lei mi fermò con un bacio.UN BACIO! Io non lo avevo mai provato, non avevo mai assaggiato le labbra di una ragazza e non avevo mai sentito la lingua di un’altra persona nella mia bocca. Quando i miei amici mi dicevano che fare l’amore era la cosa più naturale del mondo avevano ragione , la spogliai, mi spoglia, facemmo l’amore lì vicno lo stereo. Non posso raccontarvi i particolari ma posso dire che fu l’esperienza più sconvolgente che mi sia potuta capitare; il corpo era bellissimo: non era magrissima ma la ciccia l’aveva nei punti giusti e il seno ero infinitamente più bello di come me lo sarei potuto immaginare.Io ero alla prima volta e il risultato non fu impressionante, fui un po’ una frana. Parlammo un pò dopo; lei mi raccontò qualcosa della sua vita e io le raccontai qualcosa di me, ma sembrava che Erica già sapesse tutto o quasi della mia vita perché mi aveva notato sempre il quel negozio e mi trovava interessante; la cosa che mi sorprese di più di quella chiacchierata fu quando affermò che non aveva l’intenzione di far l’amore con me, ma si convinse grazie alla mia decisione.Per la prima volta ero stato io ad aver rischiato! La mia relazione con Erica fu molto intensa e piena di emozioni che non avrei mai pensato di poter provare nella mia vita; lei diventò il centro dei miei interessi, dei miei pensieri, ogni movimento ed ogni attività era finalizzata alla sua persona e forse fu questo mia pressante azione nei suoi confronti a fare in modo che si allontanasse da me. Non c’era più comunicazione tra di noi come una volta, ma nessuno dei due aveva il coraggio di dire basta, perché sapevamo di essere fatti l’uno per l’altra e che ci volevamo bene. Erica ed io uscivamo regolarmente con i miei amici e, tra questi, soprattutto Mario era un nostro amico fidato: lui aveva avuto molte esperienze, mentre io ero alle prime armi per cui mi sembrava naturale chiedere consigli a lui ed anche Erica aveva Mario come confidente giacché era quello che mi conosceva meglio e che sapeva dare un significato ai miei comportamenti. Quando si vive una situazione di stallo c’è sempre un episodio scatenante che rompe quell’equilibrio instabile e rende le cose più facili, ma anche dolorose da un certo punto di vista. Mi sembrò di morire nel momento in cui le parole di Erica si trasformarono in coltelli e lance per il mio cuore disperato;lei mi disse:” Ho baciato Mario”. Li avevo visti mentre si baciavano, mentre lei lo stringeva in vita; li avevo visti eppur non dissi nulla in quel momento; rimasi nascosto e poi andai via, perché per me era un gesto così inverosimile quanto inaspettato: quando capitano cose inaspettate non vi è la possibilità di intervenire in quel preciso momento.Dovevo aspettare. Erica non usò né frasi di circostanza né cercò di giustificarsi, mi mise davanti la cruda e fredda realtà, una volta messa al corrente del fatto che io avevo visto; non riuscii a proferire parola, ero impietrito mentre la guardai negli occhi per capire se lei mi odiava e aveva fatto questo per farmi del male, oppure…non sapevo che pensare; in quell’intervallo breve che passò da quella confessione alla mia reazione non ricordo se ho detto o fatto qualcosa, ero troppo stordito; avete mai provato quella sensazione di inutilità e di impotenza nei confronti di una certa situazione imprevedibile? Mi alzai dalla sedia e cercai di andare via con grande dignità, a testa alta, mentre lei piangeva; l’unica cosa che potei dire fu:”Non ti odio, non ti preoccupare…”. Il mio cellulare suonava e dalla musichetta personalizzata potevo dedurre che il mio ex amico provava a chiamarmi e già immaginavo la scena penosa che avrebbe messo su.Il mio sangue ribolliva nel corpo come la lava che esce da un vulcano che ha dormito per millenni e dunque in quello stato, non mi era possibile ascoltare nessuno, tranne qualche amico immaginario come i componenti dei Pearl Jam.Una volta ritornato a casa mi ritrovai,invece,nella camera ad ascoltare il disco che mi consigliò Erica cioè quello degli Who.Spensi per l’ennesima volta e, forse anche per l’ultima, le luci;accesi una candela e nei quattro o cinque minuti di quella canzone, nel mio cervello,in versione masochista, vennero a galla i miei momenti passati insieme a lei e l’unica cosa che riuscivo a domandarmi era: ”Come ho fatto a farmi fregare così? Perché questo è successo a me?”. Mi facevo delle domande che non avevano delle risposte ed, il fatto che un tipo razionale come me, non riiusciva a trovare una soluzione per quella situazione mi faceva impazzire.Quel fattaccio mi aveva riportato all’interno del mio guscio vuoto di sentimenti, ma in ogni caso tanto forte da tenermi lontano dalla vita reale; i mesi seguenti erano scanditi dalla scuola (era l’ultimo anno), dalle visite al “SOTTOMARINO”, dalle suonate col mio gruppo musicale. Feci pace con Mario perché, analizzando tutta la situazione, riflettendo sul minimo dettaglio, sapevo che la colpa era anche mia: la mia freddezza e la mia mancanza di comunicazione avevano spinto Erica nelle braccia del mio amico.Erica, invece, era come scomparsa dalla mia vita, un fantasma, ma forse era meglio così dato che non sarei stato prnto ad affrontarla perché ,in ogni caso, mi aveva ferito molto quel suo gesto e non avrei potuta perdonare.Quella esperienza amorosa mi insegnò che vivere la vita può essere anche doloroso e soffrire in quel modo non era adatto a me e, dunque, decisi, di non avere più legami così profondi con nessuno e, fu per questo che i miei rapporti con l’esterno erano solo posti con degli emeriti sconosciuti incontrati nella via virtuale…
11 “Dopo Erica non mi sono mai permesso di approfondire un discorso con una ragazza, prima di tutto perché mi sto ancora leccando le ferite come dopo un combattimento, poi perché non ho trovato, per adesso, nessuna all’altezza d’Erica.Si può dire tutto di lei, ma sicuramente non posso affermare che mi abbia rovinato la vita, anzi mi ha dato una visione aperta del mondo”. “Senti come parli?La verità è che l’amore vive in te; l’amore che nutri ancora nei suoi confronti.Questo non lo puoi ignorare!”, sentire Luca dire queste cose mi sorprese perché non era un tema che lui afforntava molto spesso, se non dal punto di vista prettamente sessuale. “Bè”, risposi, “io non dico di essermi dimenticato di quella ragazza, ma forse non voglio soffrire ancora per lei, fare come si vede in quel film, ragionando per assurdo, dove si vedono quelle attrici nell’odioso ruolo della protagonista malmenata e ma ancora innamorata del suo carnefice: la loro è un dolore materiale, fisico, il mio è un dolore che nasce nell’animo e lì ristagna, ma comunque non è meno logorante”. Io non volevo metterli a disagio con la mia visione pessimistica della realtà e della mia situazione amorosa, non ero affranto e quel viaggio liberatorio con i miei amici e, soprattutto , lo scopo di quella gita a Sulmona mi elettrizzavano, mi facevano sentire come un bambino alla scoperta del mondo e delle cose più semplici; io sono il re degli ignoranti ma sapevo benissimo qual era la differenza tra un tipo come me e uno come, per esempio, Leopardi.Quell’immenso poeta era brutto, piccolo, con la gobba e quindi poteva essere solo un pessimista: cosa è un uomo se sa già che non può aspirare all’amore carnale e sentimentale di una donna?Essere consapevole fin dall’inizodella tua condione e che nessuna ragazza verrà a letto con te se non per secondi fini deve essere sconfortante per usare un aggettivo uefemistico. Io non mi trovavo nella situazione di Giacomino, non avevo il suo genio, che per me era nato appunto dal fatto che era rifiutato fisicamente e quindi il suo vis la indirizzava verso altro come l’arte di scrivere, ma fortunamente avevo un bell’aspetto, stavo bene di salute e ciò mi aveva fatto covare la speranza di poter trovare una sostituta d’Erica. Li sorpresi, dunque, quando dissi loro del motivo perché avevo spinto per Sulmona; Lorenzo fermò la macchina all’autogrill per costrigermi a vomitare tutta la verità su quella faccenda; erano i miei amici e dissi loro quel che volevano. Fu Mario a congratularsi con me per primo dicendomi che avevo fatto la cosa giusta e gli altri si accodarono a quella cosiderazione; io mi ero liberato da un peso poiché non sarei risucito a trattenere più quel segreto ai miei amici, infatti, è la trasparenza la mia più grande virtù ed è forse il fatto di non riuscire a nascondere un disagio, una considerazione, un certo stato emozionale, forse hanno fatto di me una persona “evitabile”; d’altra parte si dice che siamo solo attori sulla terra, non riusciamo ad esprimere le nostre emozioni, forse per paura o per troppo formalismo, e chi lo sa viene considerato uno fuori dagli schemi nelle ipotesi più estreme, un povero pazzo; io non sono un ammalato di formalismo, le mie emozioni io le mostro: mi agito, urlo, mi libero. Il caldo imperava, e come nel più tipico viaggio all’avventura che si rispetti, non eravamo molto puliti, eravamo sudati, i nostri vestiti erano impregnati di nicotina; eravamo cinque persone alla deriva, così forse apparivamo al mondo; la stazione di servizio ci servì anche per darci una ripulita generale e ,sebbene io avessi il magone, qualcosa di pesante sullo stomaco che mi portavo dietro, dopo aver rivangato la storia della bella Erica, dovevo anche pensare ad una ragazza che mi stava aspettando in quel di Sulmona. Il rivivere quella faccenda mi faceva pensare che le incomprensioni sarebbe meglio evitarle, alcune volte si rischia d’avere soddisfazione,altre no e la ragione alle volte non serve, forse è meglio avere torto. Non c’era nulla da fare, Erica sarebbe rimasta sempre nel mio cuore e nella mia mente; ogni tanto mi appariva davanti agli occhi,come in un film, mentre parla con altra gente che non ha idea della persona meravigliosa che ha davanti.Nonostante io sapessi di dover partire per una nuova avventura, lei rimaneva la mia ossessione, e il mio pensiero andava sempre verso lei per rivivire quelle emozioni che non avrei mai potuto scordare, ormai erano rimaste scolpite in forma indelebile nella mia mente.Tutto prendeva la forma di quella ragazza: una protagonista di un film, un oggetto caro, una parola; qualunque cosa mi faceva pensare a lei e, la gioia che rievocava quel nome, subito si scontrava con l’animosità per il suo tradimento, una collera che mi prendeva da dentro e mi rodeva lo stomaco; il tradimento non era tollerato bene dalla mia anima e dalla coscienza, io non potevo farci nulla! Erica me la ricordo così: capelli neri color pece lunghi fino alle spalle, labbra rosse ed una posa regale che strideva con quella sua voglia di trasgressione.
12 Non fummo tanto fortunati a scegliere la stazione di servizio poiché il bagno non funzionava e mi accorsi subito della diversità tra il panoraama che stavamo vivendo, un contrasto tra la roccia presente sulla nostra sinistra fatta di montagne molto spigolose e il mare blu cobalto presente sulla nostra destra e l’efficienza dei seirvizi che può mostrare una regione.Nel nord, certo le stazioni di servizio si presentavano molto bene ma chi ha potuto vedere almeno una volta il sole in alt’Italia, alzi la mano. Nella mia vita non sono mai riuscito a vedere il sole, il motore della nostra vita, quello da cui tutto deriva a cominciare, come ci hanno insegnato dalle prime lezioni di biologia, dalla fotosintesi clorofilliana,la base della vita, il motivo per cui Adamo ed Eva si ritrovarono nel paradiso dell’Eden,la giustificazione del perché possano esistere le rocce,le piante,l’uomo e gli odiati insetti.Il sole nei miei luoghi non si è mai presentato per quello che è: lucida e vibrante palla infuocata!Quella atmosfera cupa che si respirava a qualche chilometro di distanza dava, secondo la mia teoria, lo stimolo a tutti a oziare di meno e lavorare di più; ciò è dovuto soprattutto al fatto che un tempo grigio come lo è al nord non porta le persone ad andare in giro a riflettere su ciò che sta loro intorno, anzi porta la comunità a far qualcosa che produca in quanto,oziare non serve a nulla se non c’è l’ambiente adatto; da qui deriva il corollario per il quale gli uffici sono desiderabili: lì almeno c’è la luce! Al sud una mentalità del genere sarebbe inconcepibile: ad eccezione dei casi nei quali anche nel meridione il tempo è brutto, è inverosimile che le persone vadano al lavoro, contenti, sapendo di lasciare una bella giornata alle spalle nei periodi caldi e di non potere andare a sciare l’inverno soprattutto quando il sole pigro anche nel periodo freddo non solo riscalda, ma soprattutto non si nasconde dietro l’inquinamento; il tutto si restringe ad una questione psicologica da cui può trarsi anche una riflessione economica: è impossibile invertire la tendenza che in Italia c’è sempre stata; al nord si produce e ciò che si produce lì non può trovarsi nel sud ed anzi la cosa sarebbe deleteria, magari la gente del settentrione avrà il denaro sonante ma la gente meridionale ha qualcosa in più a mio avviso soprattutto a livello di spiritualità, potendo rilettere sulla natura che gli è intorno. La stazione di servizio aveva un unico bagno, piccolo, sporco e mal funzionante; non mi sembrava vero potere costatare che nella realtà ci fosse un luogo così ameno e, tanto maleodorante che non ci fu possibilità e la forza per entrare; il puzzo entrava all’interno del corpo e i nostri neuroni che recepivano gli odori erano così disgustati che c’era anche la possibilità di rimettere dalla bocca quello che avevamo mangiato fino a quel momento; a dir il vero un panino portato da casa.Quegli odori mi riportavano alla mente il giorno in cui per disperazione e per mancanza di attenzione da parte della gente feci entrare nel mio sangue un po’ più del limite consentito di alcolici, limite che io non tolleravo dato la mia scelta di non toccare bevande di quel tipo; sebbene i ricordi di quel giorno sono, tuttora, sparsi nel fondo del mio cervello e non recuperabili, davanti a quel cesso una fotografia io avevo davanti agli occhi, cioè quella del mio vomito stampato sul pavimento della mia amica e sulle pareti mentre cercavo disperatamente di andar nel suo gabinetto; mi ricordava anche il giorno dopo quando ogni tanto mi alzavo dal letto per espellere dal corpo quello che il mio stomaco non voleva: la puzza di quei giorni che persisteva sotto il mio naso l’avevo ritrovata quel giorno.Quanto è piccolo il mondo! Andrea propose di mangiare quel poco che era rimasto all’interno del frigo portatile e ripartire, ma non tutti avevano il suo stomaco di ferro; quella fu un’esperienza difficile da dimenticare! La cosa ancor più laboriosa fu trovar una sistemazione per la notte; cercavamo di avvicinarci il più possibile alla nostra meta ma la stanchezza ciminciava a farsi sentire nelle ossa dei nostri puzzolenti e sudati corpicini. Cercammo una spiazzo dove poter stabile il nostro accappamento notturno e per far ciò girammo un po’ di paesetti siti nella via che portava a Sulmona che facendo rapidi calcoli, era ancor lontana dalla nostra vista. Il posto fu individuato in uno spiazzale dietro un supermercato presso una città sfigata di cui non ricordo il nome, ma non posso dimenticare la bruttezza di quel posto: cemento in ogni dove e la mancanza di spazi verdi all’interno della città; non c’erano neanche un po’ di ruderi antichi da far passar come monumenti significativi per la città. Era tutto nuovo, anche la chiesa era in quello stile privo d’intensità, che è lo stile di morderno, sicuramente, pensai, la fece un architetto che non ha gusti artistici, magari amico del sindaco che gli diede l’appalto!Era comunque una città nuova. Era notte quando arrivammo e per le strade non c’era nessuno;quindi quel piazzale ci sembrò il posto migliore dove piazzare la tenda e riposare un po’. La tenda concepiva solo tre posti letto e, quindi, due di noi dovettero adattarsi ai sedili della macchina; per decidere a chi spettava privilegio di giacere nella tenda, si fece a conta: tale onore spettò a Mario, Andrea e a me.Gli altri due dormirono in macchina. Non fu facile prendere sonno in tenda sia perché, nonostante il libretto d’istruzioni assicurasse che la tenda era per tre persone,molto probabilmente intendeva tre sardine per di più deperite, sia perché quando hai uno che ti russa a fianco non è mai una facile farsi trasportare dal dio del sonno.. Non fui solo io ad aver problemi a chiudere gli occhi e riposar un po’ ma anche i compagni di viaggio avevano l’ identico problema, poiché l’umidità rendeva la temperatura più bassa e non avevamo l’attrezzatura adatta, fu, però, soprattutto un evento spiacevole a rendere la nottata più travagliata. Accadde un evento che sconvolse noi tre nella tenda e per la paura non uscimmo se non dopo la conclusione di quell’episodio.Mi spiego meglio: la nostra tenda era posta sul giardinetto dietro quel gran supermercato. Quel giardinetto confinava con una casa abbastastanza spaziosa, direi un villino, ricoperto di piante rampicanti sulle pareti dell’edificio in questione.Si poteva notare, all’interno del prato, molto ben curato, la religiosità di chi ci abitava: infatti vi era una statua di Padre Pio e unaltra statuetta della Madonna lì vicino. Questo edificio, che chiamare mistico è un eufemismo nascondeva un qualcosa di sadico e di misterioso; come i galli svegliano i contadini la mattina presto, urla di rabbia e di paura si diffusero nell’aria come macigni.Mi alzai di soprassalto non rendendomi conto di cio che mi stava accadendo intorno.Quelle urla assomigliavano agli schiamazzi di mia madre quando, per andar a scuola, mi diceva di tutto pur di liberarmi dal vincolo tentacolare del letto e, quindi, affrontar la forza di gravità per alzarmi. Una volta che presi veramente conoscenza della situazione e del posto in cui mi trovavo, svegliai i miei compagni per renderli partecipe dell’avvenimento in corso. “Puttana!”, diceva lui. “Tu sei un bastardo”, diceva lei. Si poteva intuire che si trattava di una lite tra coniugi o fidanzati circa la loro relazione. MI risaltò subito all’ occhio, benché fossero le cinque del mattino, orario per me inconsueto, la differenza tra la casa, piena di orpelli religiosi e chi l’abitava. Dai rumori che provenivano dal casato, si potevano intuire che gli oggetti più fragili presenti nell’edificio avevano recitato l’epitaffio. Io personalmente non avevo mai assistito ad uno scontro così duro tra due persone. C’era chi, tra noi, c’ aveva preso gusto e, messosi ad origliare apertamente, si fumò una bella sigarettina!Intanto potevano essere gli ultimi minuti di vita di uno, o, magari, di tutti e due, i contendenti. Si affacciò in tenda Luca con l’intenzione di risolvere questa situazione: “Telefoniamo ai carabinieri!”. “ Si potrebbe”, risposi io, “ma non sappiamo neanche dove ci troviamo, né la via!Cosa gli diciamo?- salve siamo cinque ragazzi accampati dietro un supermercato, in una città sconosciuta,in una via sconosciuta…a proposito: qui a fianco si sta consumando un delitto e per questo non riusciamo a dormire!- gli diciamo questo?”.
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