La lingua impetuosa di Angela Greco celebra quell’affondamento nell’abisso (termine tra i più ricorrenti all’interno della silloge) dell’Amore necessario al superamento della frattura fra femminilità e maschilità narrata dal libro della Genesi e fin troppo negativamente giudicata quale colpevole disubbidienza e sprezzatura diabolica (proprio nel senso del dia-ballo greco quale “gettare di traverso”) dalla maggior parte degli interpreti veterotestamentari, che ne hanno sempre taciuto la forte valenza filosofica e gnoseologica, messa invece in luce dal racconto che ne fa Aristofane nel Simposio di Platone: “E così evidentemente sin da tempi lontani in noi uomini è nato il desiderio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo”. Quella sprezzatura è così giustificata dalla poeta: ma chi altra ha saputo mostrarti la lucentezza/ piccolissima che scinde la mela dal suo ramo?/ o la non vista eleganza del suo seme a lacrima? E ancora: ci riconoscemmo pronti a iniziare la terra.
Se è vero, infatti, che la consapevolezza di sé e la scoperta dell’altro presuppongono l’uscita dalla immobile sterilità dell’Uno, il dialogo fra femminilità e maschilità genera un reciproco e costante atto creativo, un percorso di ricerca che è coincidente con la libertà dell’adesione al sentimento dell’Amore. Ed è per questo che l’energia amorosa, cantata da Angela Greco, diventa un reiterato movimento insieme verticale ed orizzontale che dilata i confini del corpo individuale, che è, sì, quello dell’amato nel proprio Eden personale, quello dalla cui bocca zampillano sorsi di gioia inebriante, quella cara geografia epidermica ed interiore del desiderio e del congiungimento carnale, ma anche l’Immagine di tutte le creature viventi, del cielo, della terra, della natura tutta, membra dell’infinito corpo del Cosmo: astri avanzati/ trapiantati in tessuti sanguinanti affinché fioriscano aurore. Questa tensione dell’umana creatura finita verso l’Infinito, questa figurazione del Macrocosmo nel microcosmo di gesti, sguardi, emozioni vissute e percepite sensorialmente, non potendo essere razionalmente rappresentata, viene affidata dall’autrice ad un dire emotivo, fatto di allusioni, vibrazioni, sensazioni spesso viscerali, immagini sensuali ed insieme castissime, perché purificate dal canto. In tutto il suo dispiegarsi, infatti, questo inusuale poema erotico (ché uno solo è lo slancio, una sola la fonte tematica, una la profondità e uno il ritmo del fiume ricchissimo delle parole che lo attraversano e ne costruiscono il febbricitante delirio) ha un fondamento certissimo nella convinzione che soltanto lo strumento espressivo della poesia possa veicolare ciò che sta oltre il razionale, oltre il visibile, oltre il dicibile stesso grazie alla qualità del suo corpo musicale, al sortilegio delle infinite combinazioni dei suoni. Non a caso, infatti, la parola “sortilegio” è sottolineata dall’autrice che copia integralmente da un vocabolario di lingua italiana la sua definizione a pagina 25 della sua silloge, a mo’ di exergo per la seconda (A voce, dietro la nuca) delle tre sezioni in cui essa è ripartita.
L’abbondanza del canto di Angela Greco, dunque, ubbidisce sia all’esigenza di affidare le molte sfumature di una stessa emozione ad una circolarità ripetitiva, consona all’inesauribile vigoria del sentimento amoroso che dantescamente muove la Vita, sia alla vitale fantasia del canto. Lo slittamento dal piacere fisico a quello verbale più volte s’insinua nei versi fino a generare quasi una metamorfosi della superficie del corpo in quella cartacea del libro dove le figure dei due amanti diventano segni, emblemi, archetipi, grembi cosmici di un’inesauribile fertilità, intreccio risuonante di energia vitale e verbale. Nei versi si assommano tutte le storie, tutte le attese, tutti i desideri e le tristezze degli Amanti; tremano le assenze dell’Amato ma solo come pregustazioni della sua futura presenza. Non c’è mai un abbandono definitivo, perché esso è annullato dalla continuità dei ritorni: che già ho un dolore che assomiglia alla tua assenza/ o alla speranza del ritorno.
In questo senso il ritmo interiore di questa silloge ricorda il battito mistico del Cantico dei Cantici, la visionarietà de Il castello interiore di Teresa d’Avila o le metafore ardite de La noche oscura di Juan De La Cruz. Ma, soprattutto, vi risuonano la poesia dei Sufi e la concezione araba dell’‘Ishq a cui s’ispira la silloge di Asma Gherib e Saad al Shlah, pubblicata nel 2014 dalle edizioni Arianna: Tango e null’altro (il cui linguaggio pure ricorda largamente per qualità ed intensità di immagini quello della nostra autrice), dove a pagina 14 gli autori così, fra l’altro, lo definiscono nella prefazione: “un matrimonio fra i sensi e gli alfabeti del cosmo e unione fra femminilità e maschilità in modo che diventino insieme due elementi per un solo corpo originale, quello di Adamo”.
Un simile matrimonio è una sorta di santa quête, uno svelamento del segreto del cosmo come complementarità armonica che pure si annuncia in quel denudamento avvenuto nell’Eden biblico attraverso il quale, finalmente, Adamo ed Eva si conoscono e si riconoscono rendendosi degni dell’ Amor che move il Sole e le altre stelle. Così l’Eden personale diventa il Giardino universale della Gioia.