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La metà del letto

Poesia

Matteo Bianchi
Barbera Editore

Recensione di Edoardo Penoncini
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Pubblicato il 14/08/2015 12:00:00

 

Bisognerebbe smarcare la poesia dalle etichette, così come bisognerebbe eliminarne le “scuole”, le correnti, le maniere, gli ‘ismi’ e lasciare che fluisca come la vita, con i suoi chiaroscuri, le sue parole nuove o desuete ma libere di andare dal poeta al suo lettore, che sia un dono o una tortura cosa importa? basta che ci sia, che suoni o che macchi un foglio bianco. Chissà se a Matteo Bianchi interesserà sapere che nelle sue quattro raccolte di poesia non ho mai cercato nulla di lui, che mi sono sempre cercato, fosse per una sigaretta fumata in un particolare momento quando avevo la sua età e non ancora la forza di farle resistenza, o forse per riflettere sul senso del viaggio, del cammino che quotidianamente ricomincio e che si fa ogni giorno di più lettura del passato e meno progetto del futuro.

 

Detto questo provo a disinnescare il mio stile di lettura, ad abbandonare il paradigma, l’asserto che ora le poesie di Matteo Bianchi sono mie, mie perché lui le ha messe su una barchetta spingendola verso il mare aperto, mie perché ho abbordato la barchetta e me ne sono appropriato con tutto il suo carico.

 

Lungi da ogni interpretazione ‘autentica’ (che lascio ad altri lettori), trovo che la nuova raccolta di Bianchi sia un insieme inossidabile tra il testo e il paratesto, dove per paratesto intendo anche la copertina e il colophon. La copertina di un azzurro inquietante, con striature leggermente più chiare, o, per restare in tema con alcuni testi della raccolta, ‘annebbiate’, che alla libera interpretazione possono sembrare una stella marina o magari una rosa dei venti, a indicare quale direzione poi si vedrà, se sarà il caso e se avrà senso.

 

Poi il colophon, ancor più inquietante, perché contiene la dichiarazione di esclusione di responsabilità (disclaimer, in inglese): «Questa è da intendersi in ogni sua parte come un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a situazioni o fatti reali è puramente casuale.» Fine, a capo e tutti a casa! Verrebbe la voglia, ma poi si sa che il disclaimer (usato spesso per i romanzi, ma sembra che oggi si viva in un’era dall’agguato  -legale - facile) è una sorta di ombrello di protezione per l’editore e non per l’autore, che sempre si assume la paternità di ciò che scrive e nella raccolta di Matteo ci sono nomi e fatti reali, certo, vi sono anche mille sfumature che intorbidiscono i confini tra il reale e la fantasia. Abbandonate, dunque, queste ‘inquietudini’ mi provo a dire della mia lettura.

 

C‘è un’innocenza, in questa raccolta di Matteo Bianchi, vissuta attraverso un percorso che viene sempre più affinandosi, come è naturale che sia, di raccolta in raccolta, ma non è crescita ‘naturale’, bensì germinata da letture fatte, tante, che fanno capolino da Shakespeare alla Dickinson a Sereni, da Anna Maria Carpi a Roberto Pazzi, il quale introduce la silloge con la generosità dello staffettista pronto, dopo aver corso alla grande la sua frazione, a passare il testimone.

 

Una raccolta corposa, La metà del letto,costituita da un centinaio di liriche suddivise in otto sezioni o parentesi, come le chiama l’autore nella sua nota, attraverso le quali il poeta mostra quella sua innocenza, e si badi innocenza non ingenuità, di un giovane ventisettenne che ha conosciuto tutto, l’amore e la morte, l’illusione e il disinganno; un giovane emblema di una generazione che si porta appresso il valore e l’onere dell’illusione, quella goduta dalle poche recenti generazioni di un futuro (materiale) garantito, e che si trova oggi, proprio dall’oggi al domani, a vivere il disincanto, a combattere per un futuro senza garanzie, dove tutto viene messo in discussione, dove i microcosmi nazionali non sono altro che colate laviche in un immenso contenitore dove tutto si mescola, dove ogni cosa regredisce, dove si riduce progressivamente la percentuale di metallo prezioso della nostra moneta materiale ed esistenziale.

 

Eppure, nonostante questa premessa, non mi sento di ridurre la raccolta di Bianchi a due sole tematiche, l’amore e il dolore, perché se così fosse, forse, ci troveremmo di fronte ad un solo tema. Il dolore discende inevitabilmente dall’amore, eppure siamo portati spesso a pensare all’amore unicamente come un sentimento che contempla un coinvolgimento fisico, erotico, e ‘produttore’ di stilnovistiche pene d’amore, sfinimento, spaesamento carnale fino all’inedia. L’altro amore è un sentimento che chiamiamo amicizia, o che associamo a materno, paterno, figliale, fraterno, amori che producono gioia poi (a volte improvvisamente, altre per naturale conseguenza) dolore, rabbia, sfida, forza di reazione.

 

Le liriche di Bianchi si dispongono su piani diversi, perché diversa è via via la materia, se così si può dire, ma una diversità che rappresenta una ricchezza, perché anche in poesia esiste una sorta di biodiversità. Così nella prima sezione (Cronaca dalla neve), dieci testi rappresentano la cronaca di uno stato bio-meteorologico di una vita proibita che si apre nel freddo dell’inverno fino a San Valentino, perché la Poesia è urgenza, seme miracoloso che ridà purezza, germe di grano in Siberia. La poesia è voce che colma vuoti pieni di silenzio, è la neve che traccia il viaggio del pendolare, il gioco fanciullesco delle palle di ’fiocchi di latte e pane’ e il bambino che affonda nel bianco manto fino al ginocchio, fino a transitare dopo una vita nella leggendaria isola delle mele (Avalon, preferita al letargo estense)alla primavera in stanza, come un novello Artù. Cronaca di un cammino esistenziale?

 

La poesia è un elemento privilegiato (‘ti scrivo spesso, Poesia’; ‘non tutto / è spendibile in versi’; Ieri ho letto poesia’) nella seconda parentesi (Vi porterei tutte con me) dove si consumano versi d’amore tra una spremuta d’arancia / annacquata e un altrove, / ma vero, almeno nella finzione. Un gioco del vero/non vero (quasi si volesse mantener fede al disclaimer), di bisogni che sono frammenti, secondi non trasformabili in un “per sempre”, perché l’amore risolto invecchia, / quello insoluto eterna. Ma a Bianchi non interessa l’amore, perché «Di fatto siamo soli, / ognuno col suo sé» e come scrive Anna Maria Carpi nella sua presentazione, «per un poeta l’opera è l’unica ragione di essere: i suoi amori non esistono se non come materiali che tendono verso di essa e non resteranno che in essa.» A meno che...

 

Certo vi sono i tempi Tra una lancetta e l’altra (titolo della terza parentesi) e una soffusa dichiarazione di complicità con la Musa, alla quale si confessa che nessuno è indispensabile e sempre ci sarà qualcuno pronto a rimpiazzarci da domani, restando integro, sotto l’ala protettrice della poesia che salvaguarda l’esigenza della propria vanità, la linea che distingue la poesia dal vero quando la morte si affaccia alla vita e mette alla prova la scrittura del poeta. Fino al canto della Musa, ora malinconica, di chi è in attesa, sospeso in Purgatorio, perché poi la salvezza arriverà, avrà l’apparenza di un treno in fuga che corre veloce nella quarta parentesi (Un tuo orecchino tra le labbra) di ritorno / dalla vacanza per fingere (ancora!) che la vita si possa orientare / come più ci piace e deciderla / dal belvedere di casa. Ma l’illusione dura poco, diversamente dall’attesa, e la salvezza presuppone almeno la pretesa o la presunzione, almeno il sapersi accontentare per non scoprirsi poi su un letto sfatto a fantasticare. // Adesso, cara, mi andresti bene tu, / persino innamorata. Se non è deriva questa! misurata alla parentesi successiva: Sul filo della colpa, quando il turbamento nasce per un avanzo / dopo la virgola.

 

Dopo la virgola lo sdoppiamento: qui il letto, di là il divano, il germinare del male assoluto... seme indifeso / radicato nell’ego. Il poeta non si libera, non può liberarsi dell’io o dell’ego, se si vuole restare all’àncora della radice psicoanalitica, soprattutto se il poeta in questione è un lirico (trasgressione alla mia dichiarazione iniziale) “seme in piena germinazione” ma dai tratti quasi nichilisti: Il mio scoglio davanti / allo sguardo nostro: / soltanto io sapevo di non amarti. (Bello il gioco dell’assonanza e il ripetersi della sibilante!)Due prepotenti dichiarazioni dell’ego stritolano un condiviso ‘nostro’ e non potrebbe essere diversamente, perché l’io è il ‘reietto’, un’anima persa, che deve fare i conti con la parte decimale della cifra, con i decimi i centesimi i millesimi, con la cifra di un ricordo, / un addio risentito o con la coincidenza di un inizio e di una fine.

 

Ma è la sesta parentesi, Frezzarìa, che assicura la salita e apre un varco, o almeno ci prova. È la Venezia, la città di tutti e di nessuno, con le sue fantasmagorie levantine, l’espansione degli studi, la calle dei turisti che da Campo San Luca porta a Piazza San Marco, ma che, Matteo ci ricorda nella nota conclusiva, «c’è “solamente” per l’amico scomparso che me l’ha fatta conoscere dopo gli anni del liceo.» Quell’amico che ritorna nella lirica di apertura della sezione, Distacco, una delle più alte, più coinvolgenti dell’intera raccolta. Ogni distacco è dolore, portato all’ennesima potenza quando è l’evento fuori natura che lo determina, quando senti che il colpo è diretto al tuo cuore:

 

Non ho l’abitudine di venire al cimitero.

Mio padre ha insistito per anni,

ma non avendo conosciuto i suoi,

niente riuscivo a provare per loro.

Questa volta si tratta, invece, dei miei.

 

Ma questo dolore, paradossalmente, si offre ad un’apertura, perché prevede una ricomposizione degli affetti; nella sua cruda essenzialità, la chiusa è il destino (ignoto a tutti tranne che a Dio, ci suggerisce Platone nel finale dell’Apologia di Socrate) che ciascuno di noi immagina per ritrovarsi nuovamente un giorno in un mondo altro:

 

Ho appreso di non essere immortale

e quanto banale sia la morte,

se non gravassimo la vita di significati.

Tanto ci rivedremo

quando toccherà a me.

 

Rivedersi dove, alla prossima spiaggia? Per questo il poeta ha bisogno di stravolgere Shakespeare de Il mercante di Venezia, di prendersi i suoi personaggi (che fossero di Giovanni fiorentino, a chi importa, se non a un critico o a un filologo?), al poeta serve un Bassanio, un Antonio, un Graziano, una defilata Porzia per dirci cos’è il dolore del distacco, per rovesciare il sollazzevole finale shakespeariano: qui Bassanio muore, Graziano che farà senza di lui? e Porzia, incapace del suicidio, ma con la vanità di avvelenarsi la vita, finisce in convento. E senza Bassanio cosa diventa Venezia? Mantiene ancora le magie che rapiscono o tutto svanisce? Venezia resta un’interlocutrice, un confessionale nel quale dire la propria solitudine, nel quale farsi complice della sua bellezza e come tutte le bellezze fragile, lontana, intoccabile, lei sul suo piedistallo, sui tuoi zigomi ventosi. Ma intanto qui non ci sarà un altro Bassanio/Jacopo a svelare un’altra Frezzarìa, bisognerà andare oltre, nella prossima spiaggia / [dove] ci sarà il suo braccio / a farmi strada.

 

E si resta in attesa di altri tempi mentre l’acqua alta (Ancora acqua alta, il titolo della penultima parafrasi) induce verso altri lidi, rimodula l’esistenza, la sua consistenza, induce alla preghiera verso il Padre, richiama la mela, non la mela del peccato, la mela è un simbolo semplicemente del tutto, che non muta di sostanza se la tagliamo a pezzetti, ma ne muta la consistenza se la stringiamo a pezzi nel pugno. Bello il passo: La consistenza è un’altra: / distanze sommate ai frammenti. Così come la dolcezza è privata di me dalle cose. La si direbbe una fase di introspezione spirituale che parte dai peccatori: Eva, Maria Maddalena, Giuda, ma non ci aiuta Bianchi a chiarire, sembra chiudersi, come scrive Anna Maria Carpi, «Bianchi vorrebbe, espressamente, che alla sua lirica si perdonassero “i tratti oscuri ed estatici” connessi alla materia più personale», forse non glieli ho perdonati nella sezione precedente, qui sì, ma per incapacità mia di fare miei i testi di questa sezione, dove di spirituale non trovo niente, non nel rimorso, nel Giuda tremebondo de Alla foce (dedicato a Roberto Pazzi e al suo Vangelo di Giuda), nella Pasqua di un Pilato che muore dentro, nel vento vecchio che non perde forza, non nell’eco liviano del condannare ed essere condannato, nemmeno nell’eco montaliano declinato al positivo e coniugato al condizionale: Il presente è volontà / di ciò che vorremmo essere.

Si diceva sopra dell’apertura e lo spiraglio sta tutto nel titolo dell’ottava e ultima parentesi: «Il profumo delle mele» e nell’ultimo testo, dove, davvero, l’altra metà del letto si unisce con i due amanti stretti prima del sonno. Il profumo lo senti e lo invochi se ti apri, se ti togli un po’ di scorie e se in un gioco dei ‘se’ c’è qualcuno a darti i suoi occhi per cogliere i particolari e continuare a scrivere. E tra un passaggio e l’altro c’è il fragore del terremoto del 2012, i silenzi ferraresi e il profumo delle mele / della vasta piana ferrarese, Cesare, contraltare al Giuda nunzio di morte della sezione precedente, che si fa minaccioso e rovescia la storia, c’è il duomo di Ferrara con due giudizi universali, uno esterno e uno interno, ci sono mozziconi tra i sassi carbone delle rotaie e le sigarette (mantra della poetica di Bianchi fin dalla raccolta di esordio, Poesie in bicicletta) che quando vai in bicicletta / ... se le fuma il vento.

 

Parrebbe conclusa la lettura, se la tentazione non spingesse il lettore a forzare il senso della citazione con la quale Roberto Pazzi apre la sua Introduzione, l’incipit della Prefazione di Vittorio Sereni alle sue prime poesie. Parlavo di un testimone all’inizio di questo mio testo che sta per essere passato, come in più occasioni peraltro dichiarato dall’eclettico scrittore ferrarese, e forse lo stesso Bianchi è pronto a prenderlo per correre in apnea la prossima frazione: è forse una dichiarazione di consapevolezza, la disponibilità a raccogliere l’eredità il senso che si nasconde dietro la poesia dedicata a Gli squali di Sereni, perché una storia deve avere seguito[1]?

 

Nati ultimi nel sole

diamo la luce per scontata:

ci alleniamo a morire.

 

Anche le prede degli squali

nascono col ventre biancastro,

per confondersi

durante il nostro attacco

con il riflesso a pelo d’acqua.

 

 

 



[1] Il verso di Sereni suona così: «oh, di una storia che non ebbe seguito»


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