Guido Brunetti
L’attaccamento
La psicoanalisi ha messo in evidenza il ruolo fondamentale dei bisogni relazionali del bambino. Lo sviluppo del soggetto è visto come la realizzazione di processi interpersonali. La crescita dell’individuo dipende, secondo la teoria psicoanalitica, dalla qualità e dal tipo dell’incontro intersoggettivo. Molte ricerche hanno infatti mostrato che bambini separati dalle loro madri mostravano, come diremo in seguito, molteplici disturbi della personalità.
I dati delle ricerche hanno dimostrato che i bambini, come i piccoli di altri primati, possiedono meccanismi cerebrali innati e geneticamente determinati che li induce a sviluppare relazioni di attaccamento nei confronti dei caregiver. Il termine attaccamento indica un fondamentale processo neurobiologico, che è alla base della “cura” dei piccoli, un momento cruciale per la loro sopravvivenza.
I nostri cervelli sono organizzati per la “cura di sé e la cura degli alteri”. In tutti gli animali- precisa Patricia S. Churchland- vi sono circuiti neurali che presiedono alla cura del proprio benessere e nell’aver cura degli altri. Evidenze sperimentali suggeriscono che questi comportamenti sono dovuti a trasformazioni evolutive del cervello dei mammiferi. Cruciali si sono rivelati cambiamenti evolutivi nel cervello legati alla separazione madre-bambino, alle emozioni negative di ansia e paura o a una minaccia, e al sollievo e al piacere che provengono quando il genitore si ricongiunge alla prole.
L’attaccamento è una “disposizione” a estendere la cura agli altri e all’essere angosciato dalla separazione. Anche i mammiferi non umani hanno valori sociali, si prendono cura dei piccoli e a volte anche dei compagni, dei parenti, cooperano e si riconciliano dopo un conflitto. Quando i suoi piccoli sono in pericolo, per la mamma topo il loro benessere ha lo stesso valore del suo benessere. I piccoli fanno parte del suo spazio omeostatico: essi sono nutriti, puliti, tenuti al caldo, protetti dai pericoli, proprio come “se fosse lei a doversi nutrire, pulire e mantenere al caldo”.
Il passaggio dall’aver solo cura di sé alla cura degli altri dipende dai meccanismi neurali che “maternalizzano” il cervello delle femmine e dall’ossitocina, dalla vasopressina e da altri ormoni. Il rilascio di questi ormoni innesca nel cervello dei mammiferi il comportamento materno, compresi l’allattamento, tenere caldo, pulito e sicuro il piccolo. Gli oppiacei hanno un ruolo importante nel legame materno e la femmina che allatta riceve il piacere che proviene dal rilascio di queste sostanze. Tutto ciò contribuisce a sviluppare un processo di attaccamento, una disposizione rivolta anche ad estendere la cura non solo a se stessi, ma anche agli altri.
Anche i mammiferi non umani hanno valori sociali: si prendono cura dei piccoli, dei parenti, a volte anche dei compagni, cooperano e si riconciliano dopo un conflitto. Nei roditori, la cura del manto e l’essere leccati da parte della madre hanno effetti positivi sul comportamento sociale dei piccoli (Meaney). Esperimenti hanno accertato che i sistemi cerebrali sono organizzati per prendersi cura della “sopravvivenza e dell’ autoconservazione” (Panksepp). L’avere cura di sé costituisce pertanto una funzione fondamentale del cervello. Il quale è strutturato per ricercare il benessere.
Le prime ricerche sull’ attaccamento sono state condotte dallo psichiatra inglese John Bowlby negli anni Cinquanta del secolo scorso. La sua teoria rappresenta un primo, fondamentale tentativo di definire la “propensione” che gli esseri umani hanno nel formare “legami affettivi” tra il bambino e le figure di accadimento, e l’ansia e lo stress che seguono alla rottura e alla deprivazione di tale legame. Il bambino- sostiene Bowlby- ha “una innata tendenza” a sviluppare un legame di attaccamento con la madre o con chi si prende cura di lui (caregiver).
La sua ricerca dimostra che bambini nel primo anno di vita, separati dalla loro madre mostravano reazioni comportamentali di “disperazione, distacco, protesta”. Il bambino elabora un “comportamento di attaccamento”, che ha l’obiettivo di creare la “vicinanza” con il genitore perché lo accudisca, lo protegga e soddisfi i suoi bisogni. Fatto che assicura la “sopravvivenza, l’adattamento e la crescita del piccolo.
Studi su animali hanno evidenziato che la deprivazione materna sviluppa disturbi psichiatrici e alterazioni delle strutture neurologiche cerebrali. Le sue prime manifestazioni psichiche vanno considerate come il risultato della cellula madre-bambino. Normalità e patologia dello sviluppo mentale del bambino dipendono quindi da come vengono assolte le funzioni materne.
L’attaccamento diventa allora la “sincronia biologica” tra due organismi finalizzata a “regolare” lo stato affettivo del neonato e creare importanti modifiche del cervello. I risultati di molteplici ricerche confermano che le esperienze precoci hanno un ruolo di primo piano nello sviluppo cognitivo, affettivo e sociale del bambino. Già K. Lorenz aveva sostenuto che i piccoli delle oche seguivano la madre anche se non li nutriva.
Quattro sono i principali modelli di attaccamento del bambino: “sicuro”, “evitante”, “ambivalente”, e “disorganizzato”. Secondo John Bowlby, per comportamento di attaccamento s’intende- scrive nel suo libro “Cure materne e igiene mentale del fanciullo” (Editrice Universitaria, Firenze)- “qualsiasi forma di comportamento che porta una persona al raggiungimento o al mantenimento della vicinanza con un altro individuo. E’ un comportamento particolarmente evidente -aggiunge- nella prima infanzia, che caratterizza l’essenza umana dalla culla all’ultima età. E’ un legame “profondo e duraturo”, che prevede scambi emotivi e affettivi reciproci.
Tutto ciò indica che la nostra salute mentale, lo sviluppo del cervello e della psiche sono legati alla relazione affettiva con le figure parentali. Ricerche empiriche hanno dimostrato che se il bambino rimane in assenza della figura verso la quale ha sviluppato il comportamento di attaccamento, si verifica uno “stato depressivo”, un “distacco emotivo”, un sentimento di “collera”. Un bambino che abbia subito traumi di separazione sviluppa in sostanza varie forme di patologia, come ansia, reattività, aggressività, stress, devianza, disadattamento, un falso Sé e tendenza al suicidio.
Relazioni insufficienti, bambini privati della madre, comportamenti materni di tipo ansioso, di rifiuto, ostili, sbalzi di umore sono fortemente dannosi soprattutto nel primo anno di vita: sono “turbe da carenza affettiva” secondo una celebre definizione di René Spitz.
Concludendo, tutte le ricerche dimostrano che le “cure materne” prodigate al neonato e poi nell’infanzia hanno una rilevanza fondamentale nello sviluppo cognitivo, affettivo e sociale della persona. Con il nome di “cure materne” si definisce una situazione in cui il bambino è unito alla propria madre da un legame affettivo intimo e costante e in “un’atmosfera calda” (Bowlby). Esistono poi prove sperimentali che la “carenza di cure materne”, la sindrome cioè della “carenza affettiva” o malattia del bisogno sentimentale, secondo Spitz, provoca effetti dannosi sullo sviluppo della personalità del bambino, come disturbi psichiatrici e traumi, i quali si ripercuotono sul resto della sua vita.
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