Pubblicato il 31/07/2012 19:05:52
Anche oggi leggo dell’Ilva di Taranto e subito ripenso a Seveso. Sono passati trentasei anni dal disastro e, dopo aver dato un’occhiata alla foto in bianco e nero di Stefania, mi gira di chiedere a mia madre dove eravamo noi quel giorno. Non lo ricorda, e nemmeno io. Ricordo i giorni successivi, il filo spinato e le tute bianche sulla Milano-Meda. I quotidiani locali raccomandavano di non mangiare frutta e verdura coltivati ai bordi della superstrada, ma solo fino a Desio. Delle persone, dei bambini travolti dalla nube, non si parlava. Nei primi giorni gli abitanti di Seveso erano apparsi in televisione a descrivere l’accaduto con una certa tranquillità. Nei giorni successivi qualcuno lamentava il fatto che le autorità non avessero avvisato in tempo della contaminazione di frutta e verdura. A distanza di quindici giorni morivano gli animali e i bambini sembravano bruciati dal napalm. Tutti noi giovani ci domandavamo come avesse fatto la diossina a non prendere la superstrada verso sud, nella nostra direzione. E come avesse fatto il fiume Seveso, che passando dall’Icmesa arrivava fino a noi, a non contaminare anche il nostro suolo. Come facevano i vagoni ferroviari delle Nord a passare da Meda e Seveso senza portare fino a noi il veleno? Le risposte non arrivavano e quando i giornali di Milano avevano iniziato a parlare di nascite di “mostri” e di aborto, una specie di amnesia collettiva aveva colpito tutta l’area a sud di Seveso. Nella laboriosa, cattolicissima e ignorantissima Valle del Seveso le preoccupazioni erano altre. In ogni cantina, in ogni garage c’era un piccolo laboratorio, dove si incollavano, verniciavano , serigrafavano o metallizzavano i prodotti delle grandi aziende. Era l’indotto dell’indotto; quello che stava dando ad alcuni la possibilità di farsi la casa e andare in vacanza, ad altri di pagare l’affitto e ad altri ancora semplicemente di sopravvivere. Si era sparsa la voce che avrebbero fatto chiudere tutti. La soluzione era arrivata immediatamente: i giornali stavano ingigantendo i fatti. Nelle parrocchie assicuravano che a Seveso nessun bambino era nato malato e che, a parte le precauzioni con i generi alimentari, non era necessario mettere in ulteriori difficoltà i cittadini alimentando voci di inquinamento che avrebbero provocato il controllo e la chiusura dei laboratori della zona. Si era concluso che poteva andare peggio e che la “provvidenza” aveva risparmiato i paesi vicini. I cittadini di Seveso avrebbero affrontando il loro inferno completamente soli. Stefania, la ragazza della foto in bianco e nero col viso devastato dalla cloracne, adesso è una donna, una bella donna. Di recente è andata alla tv per spiegare quanto l’incidente le abbia distrutto la vita. In zona qualcuno l’ha trovato un gesto inutile, perché in fondo, ci sono voluti sì un certo numero di interventi chirurgici , ma adesso sta bene e di certo le operazioni non le ha dovute pagare di tasca propria. La provvidenza continua a dispensare favori anche a distanza di anni.
Leggo che per l’Ilva si pensa a un intervento statale di alcune centinaia di milioni. Leggo anche che il tipo di lavorazione non consente una vera e propria ambientalizzazione. Certo è che questo denaro pubblico, oltre al corrispondente importo di un certo numero di F35, potrebbe essere impiegato per una vera riconversione degli impianti e per un diverso impiego della manodopera. Un progetto nuovo, per una nuova Taranto; qualcosa che duri. La contropartita per gli azionisti Ilva dovrebbe essere, al massimo, uno sconto sui danni finora causati alla popolazione. Gli azionisti, invece, hanno intenzione di approfittare del momento contingente per rifarsi gratis ciò che altri imprenditori hanno dovuto pagare di tasca propria. Consiglio a costoro, soprattutto a quelli italiani, la visione integrale del documentario “La fabbrica dei profumi” di History Channel e una profonda riflessione sul valore economico che un certo tipo di impronta, alla lunga, comporta. Inutile, secondo il mio parere, suggerire riflessioni estranee alla logica economica. Da disoccupata senza ammortizzatori di sorta e da ammalata, mi permetto di suggerire agli operai dell’Ilva un coraggioso cambiamento di rotta che, pur esigendo le minime sicurezze, apra ai nuovi progetti. Vorrei anche che sapessero quanto la loro situazione sia presente in ognuno di noi; da nord a sud, se ne parla, e molto. Il 1976 era trentasei anni fa.
A Stefania vorrei solo chiedere scusa.
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