È una scrittura densa e compatta quella di Carla de Falco, in cui l’insistenza sul male ed il dolore presenti nella dimensione privata come in quella pubblica coinvolge la qualità del lessico, che spesso assume un tono categorico, risentito, commosso. Più raramente, e specialmente quando la consapevolezza del reale cede il passo alla contemplazione, i versi inclinano ad un garbato lirismo, che canta la bellezza del creato ed il mistero dell’infinito spaziale e temporale che sovrasta l’umanità.
L’impressione globale è quella di uno sguardo intriso di profonda pietas, rivolto alle molte creature dell’ “umana famiglia / attaccata con grande fatica /ad un cosmo assolato e durissimo”, e di un’austerità etica che spesso non riesce a rinunciare ad un preciso messaggio, affidato, di solito, ai versi finali dei suoi testi poetici.
La de Falco mostra una sua precipua attitudine a mettere in scena il dramma che sta alla base dell’esistente: le persone, le cose, il suo stesso “io” vivono nei suoi versi una tensione conflittuale, che nemmeno il deus ex machina che è la Poesia, spesso rappresentata come ‘personaggio’ riesce a risolvere, connotandosi anch’essa dei colori di un disastro intimo, quasi una “sommessa apocalisse /d’abisso formidabile e vati oscuri”. Sembra quasi di sentire in questi versi la seconda strofa di “Commiato” di Giuseppe Ungaretti: “Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella / mia vita come un abisso”, così come in altri testi rivivono atmosfere ungarettiane dolenti, o passaggi, dall’autrice assunti come motivi ispirativi, del saggio “Ragioni di una poesia”. Non per nulla la de Falco sceglie il grande poeta come una sorta di alter ego nel suo viaggio all’interno della poesia, il quale meglio di lei possa dire che cosa significhi cercare, attraverso il versificare, “la più umana verità” delle nostre emozioni e dei nostri pensieri. Solo che la linea nemica, il fronte che mette a nudo fragilità e orrori dell’animo umano, nella poesia della de Falco si sposta dal campo di battaglia della prima guerra mondiale a cui il fante Ungaretti partecipò, a quello quotidiano con i suoi “chiodi ficcati nella terra”, i “cocci malfermi di case”, “un esercito di profughi composti”, minacciose “mani d’orco” e molte altre immagini e oggetti che, affollando i testi della nostra autrice, dichiarano al lettore la loro funzione di correlativi oggettivi (o, come recita il titolo della silloge, di voci). Quest’ultimi caratterizzano la poesia di un altro grande poeta del Novecento, quell’Eugenio Montale, che innestò la lezione leopardiana nella temperie del suo secolo travagliatissimo e artisticamente fervido e frammentato, portando all’estrema conseguenza la desolazione della perdita delle antiche “favole”. Anche l’autrice ha delle “favole” remotissime da cantare come l’infinito spazio-temporale nella bellissima poesia “la luce morta delle stelle”, la seconda morte di Euridice, la musa Euterpe, la donna-angelo; e perfino la sua stessa giovinezza, se essa si fa anche un simbolo di felicità alla maniera leopardiana, così come l’amore-sogno lasciato “sullo stridulo schiudersi della soglia / ristrutturata della nostra casa”, che ha ceduto il passo alla solitudine, che è forse il sentimento più diffuso e più angosciante dell’intera silloge. Al punto che essa sconfina, come in una celebre poesia di Montale, nel desiderio di contrarre un’amnesia che “laceri per sempre in nebbia fitta / la vista lenta e atroce della vita / che soccombe al vuoto dell’inferno.”
Leopardi, Ungaretti, Montale sono, dunque, palesemente o sotterraneamente presenti nella poesia della de Falco, che consegna ai suoi lettori una lezione importante a chi pensa di potere scrivere versi senza conoscere i grandi poeti del passato. Il compito è quello di interrogare di nuovo le cose del mondo, gli eventi, il proprio mondo interiore e trovare una voce personale, “la formula o l’antidoto per ingannare il tempo ed il suo pianto” - come l’autrice afferma nell’ultimo testo della silloge che intitola significativamente “la mia intervista”, in cui immagina di dire qualche definizione bugiarda sulla poesia e sul suo ruolo consolatore. Questo rifiuto di considerare i versi “un riparo”, come già aveva affermato nella poesia d’apertura (in una sorta di cerchio logico-emotivo compattante) mette, allora, in evidenza, come prima della poesia abbia il suo incontrovertibile valore la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, che è quella di una “affollata solitudine”.
Per questo motivo non esiterei ad indicare come messaggio finale della silloge la necessità che gli uomini ritrovino la capacità di amare e di abbandonare “la dura tracotanza silenziosa / di tante, troppe maschere di paglia”.