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Oralità e scrittura nell’opera di Giacomo Leopardi

Argomento: Letteratura

di Bruno Corino
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Pubblicato il 31/01/2022 07:47:32

Dopo Leopardi e la scrittura a stampa propongo questa seconda riflessione sul Poeta di Recanati.

 

La Poesis non ha certo dovuto aspettare la nascita della scrittura per venire al mondo: essa le preesisteva. Tuttavia, dopo la sua apparizione e affermazione per interi secoli non fu possibile credere che potesse esser esistita poesia dianzi alla nascita della scrittura. L’idea non era facile da accettare neanche da menti eccelse. La scrittura ormai era divenuta una pratica così connaturata al pensiero umano, una realtà tanto incontrovertibile che alcun letterato dell’Ottocento, formatosi su libri o su manoscritti, poteva farne a meno.

Tale configurazione, risultato di un processo storico, era talmente radicata nella cultura umana da far credere che prima della scrittura non fosse possibile “poetare”. Bisogna attendere la comparsa di Milman Parry (1902-35), di Albert B. Lord, di Eric A. Havelock, di Walter J. Ong e altri, per dimostrare in modo inconfutabile che la Poesia preesistesse anche prima dell’avvento della scrittura.

Verso la fine del luglio 1828, Giacomo Leopardi conobbe le teorie omeriche dei cosiddetti “analisti, inaugurate nel 1795 dai Prolegomema di Friedrich August Wolf (1759-1824), «in base alle quali l’Iliade e l’Odissea erano raccolte di poesie o frammenti di testi precedenti» (Ong, 42).

All’inizio neanche il grande poeta e scrittore riusciva ad accettare l’idea che potesse esistere «una fiorente letteratura non scritta». Annotando nello Zibaldone una recensione di Müller, un allievo di Wolf, Leopardi scrive: «Ma se Müller vuol persuadermi che i poemi d’Omero non fossero scritti [...] mi trovi qualche mezzo probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli d’inspirazioni e d’improvvisazioni… Allora, considerata la superiorità della memoria avanti l’uso della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e confermata dall’esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la conservazione di canti non scritti, sieno d’Omero o de’ Bardi» (Zibaldone, 4323-24).

Fu proprio durante quell’estate che Leopardi approfondisce i Prolegomena ad Homer (1795) del filologo Wolf, e si persuade, sulla scorta di «bellissime e acutissime osservazioni del Wolf», che «v’ebbe una letteratura assai prima della scrittura, cioè del comune uso di essa ma tal letteratura non fu e non poteva essere che poetica» (Zibaldone, 4344). Per Leopardi è una scoperta folgorante, tale da sconvolgere o rimettere in discussione l’intero sistema letterario (produzione, distribuzione e ricezione dell’opera): «Quanti errori, assurdi, contraddizioni per aver voluto giudicare Omero secondo i costumi, le opinioni, le istituzioni moderne o più note, ed applicarle a’ suoi poemi!» (Zibaldone, 4359).

La scoperta da parte di Leopardi di una cultura orale preesistente a quella chirografica apre alla sua mente poetica un nuovo orizzonte di idee. Tuttavia, che la sua opera poetica avesse, sin dalle prime prove, intrattenuto un rapporto particolare con la “voce viva” è un dato dimostrabile dalla scelta che il poeta compiva per i titoli delle sue opere.

Nella primavera del 1818, scrive il Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, e, nello stesso anno, compone due “canzoni”, All’Italia e Sopra il monumento di Dante. Chiama i suoi componimenti poetici Canzoni. Nel luglio 1822 compone l’Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano. La maggior parte delle Operette morali hanno forma dialogica. La Storia del genere umano fu concepita come favola mitologica. Poi abbiamo i Detti memorabili di Filippo Ottonieri, il Cantico del Gallo Silvestre. Infine, la raccolta poetica porta il titolo di Canti.

Dunque, dialoghi, detti, discorsi, canti, favole, canzoni, ecc., modalità che attestano la superiorità della “voce viva” su una “voce” mediata dall’intervento della cultura chirografica. Infatti, la maggior parte di questi titoli rimanda più che a una cultura basata sulla scrittura, a una cultura orale. La qual cosa però potrebbe risultare piuttosto generica, poiché, fino alla lettura dello studio di Wolf, Leopardi non credeva all’esistenza di una poesia precedente all’uso della scrittura. In altri termini, parlare di una forte reminiscenza della funzione orale nella costruzione poetica, non equivale ad affermare che Leopardi si richiamasse tout court alla cultura orale.

In questa lontana reminiscenza, credo che abbia avuto un ruolo fondamentale la lezione platonica del Fedro e della Lettera VII, lezione che spinge Leopardi a porsi problemi simili, sia pur in una prospettiva completamente diversa rispetto al filosofo ateniese, cioè non in relazione alla deviazione dalla verità per demerito della scrittura, bensì in relazione alla vitalità della letteratura, in generale, e della poesia in particolare.

Di fatto, tale riflessione leopardiana s’inserisce in una fase in cui il poeta aveva rinunciato alla poesia in favore della prosa, cioè dopo l’esperienza delle Operette morali. Ma il salto nella cultura orale ha contributo a far recuperare all’attività poetica di Leopardi il valore della “rimembranza”, vale a dire il valore della memoria: una attività poetica in una cultura preletteraria, quindi senza il supporto della scrittura, diventa possibile soltanto se il pubblico e il poeta hanno una memoria robusta. Ma la memoria non può essere soltanto voce ed espressione della propria individualità, essa deve essere memoria archetipica, ossia memoria che appartiene all’intero genere umano. Se i ricordi appartengono alla propria sfera individuale, insomma fanno parte soltanto del proprio vissuto interiore, e quindi sono particolari e circoscritti alla propria vita, la rimembranza, invece, intesa come facoltà che presiede al richiamo dei ricordi, è comune e condivisa dal genere umano.

Pertanto, affinché un ricordo particolare possa tradursi in rimembranza, le sue immagini devono essere esperite come se fossero prodotte dalla mente di chi ascolta il verso poetico, ossia quelle immagini devono avere la stessa forza e potenza delle immagini create dal proprio vissuto. Come l’intensità della verità riusciva a trasportare l’uomo nel mondo platonico delle idee, allo stesso modo la vivezza e potenza delle immagini riesce a trasportarci nel mondo fantastico del poeta risvegliando nell’animo di chi ascolta, mediante il suono di quei versi, antiche reminiscenze ancestrali.

Insomma, c’è una sola strada per realizzare tale traduzione: la poesia non deve porsi come descrizione di un’esperienza, la poesia non deve limitarsi a contemplare il mondo, ma deve farsi essa stessa esperienza del mondo. E così i Grandi idilli non sono descrizioni di un proprio vissuto, bensì si costituiscono come delle vere e proprie esperienze poetiche: qualcosa che muta interiormente il vissuto di chi li ascolta. L’ascoltatore (o il lettore) fissa nella personale memoria le immagini del poeta rivivendole nel medesimo modo in cui egli le ha create. Cosicché, l’attesa, la speranza, “i cari inganni”, cantati dal Poeta, ora fanno parte della mia personale esperienza, perché essi rimandano a degli archetipi viventi. Solo così si può andare oltre la metafisica del linguaggio poetico.


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