[ Recensione di Carmen Grattacaso ]
Sembra che anche in questo secolo la ricerca della verità e una coraggiosa interpretazione della realtà e della vita siano prerogativa della poesia femminile che fa di ciò la propria ragione di scrittura, e di questa ricerca, sofferta, anzi direi vivamente sofferta, Gabriella Maleti ne è la necessaria ( per noi) ambasciatrice.
Il suo stile poetico affascina a tal punto il lettore da far sì che sia portato ad osservare con ansia e apprensione ogni movimento, e in questo percorso fa anche lui la sua parte, scostandosi a tratti perché tutto avvenga come deve avvenire.
La poesia della Maleti ci trasporta in un mondo che conosciamo, e ci suggerisce qualche vicolo, stretta scappatoia per non cedere al dolore.
“Eppure, perché colpa?/ Genitori non amati. Se n’è abbandonato uno?” ( pag. 35).
Nonostante la dolorosa durezza dei fatti, l’autrice sente la necessità di portare alla luce se stessa, vuole giustificarsi, ma sa di essere altrove come ci racconta questo bellissimo verso “Insomma, che cosa cade quando cade qualcosa di noi? Non possiamo che assistervi. Niente di più.”
E ancora “Io non so che cosa dovrebbe tacere in me/ e cosa parlare (pag.36).
Qui l’ascolto interiore si fa intenso, e il dubbio sull’esistenza è più acuto. Dubbio che sembra propendere per la verità di una vita dopo la morte.
“Chi siamo per dire che tutto finisce in polvere”; “E se anche fosse quello che serve/ ora qui;/ per arrivare decentemente alla polvere/ è non credere alla sola polvere”. (pag. 55).
“Prima o poi” pare a chi scrive una lunga domanda sul senso della vita e del dolore, sulla diversità
che ancora “è parte nociva” (pag.37).
La poesia è qui, in questo chiedere, muoversi, star fermi, osservare, cedere, sfidare, sfidarsi, perdere, perdersi, qualche volta vincere, con lo stile di chi sa far poesia senza indugiare in altro.
La vittoria è in questo libro dalla copertina del colore del mare con l’immagine di una foto della Maleti, che ci fa incantare: rami che scendono e si avvicinano alla terra, al mare, anche essi a fare dono di sé, anche essi a non conoscere il destino.
E mi piace concludere con questo verso: “Giro nel cortile, / raccatto foglie, campi/ è il meglio della mia vita”. (pag. 50).