Incontriamo
Valentina Corbani
[Giornale Indipendente di Padova
Bologna, Maggio 2013
D. Valentina, Lei ha scritto libri di grande interesse (romanzi, poesie, saggi). Oggi vorremmo concentrarci principalmente sulla Sua produzione saggistica che, in prevalenza, si occupa del Proust della "Recherche". Perché Proust?
R.
E‟ una domanda che mi fanno in tanti, e io rispondo sempre e puntualmente che, in realtà, non c‟è un motivo per cui "è" Proust e non un altro. Ho iniziato a interessarmi a Proust per motivi molto poco accademici. La cosa che mi ha colpita è stata vedere la sua faccia, triste, in copertina della "Recherche": non so se ha presente quella foto in cui lui è seduto su un divano e si tiene il viso con una mano? Ecco, secondo me, è un‟immagine molto triste, e da quel giorno ho cominciato a interessarmi sempre più a lui. Per il resto, mi scusi, ma la domanda è inconsistente.
D. Sono contento che abbia aperto questo argomento. Un critico ha scritto di Lei: "A [Corbani] se una persona non è infelice o triste non Le interessa". E’ d’accordo con questa definizione?
R.
In parte. Non credo che la tristezza o l‟infelicità siano i miei parametri di giudizio: questo no. Però, sì: credo che, soprattutto nell‟arte di qualunque tipo, siano state prodotte le migliori opere sotto il segno della tristezza. Questo sì: lo credo e l‟ho detto più d‟una volta. Credo, insomma, che né Proust né Leopardi né Majakovskij o chi per loro avrebbero prodotto quello che hanno prodotto se non fossero stati infelici, tristi, soli. Intendiamoci, probabilmente avrebbero scritto comunque, ugualmente bene, altre cose; oppure no: magari non avrebbero scritto affatto.
D. Lei in un’intervista ha dichiarato che "mai si è prodotto qualcosa di buono col cuor contento e a pancia piena". Impossibile scrivere se non si è tristi?
R.
Io non metterei la questione in questi termini. Direi, piuttosto, che bisogna identificare bene che cosa è la tristezza e tenere in conto che se c‟è una tristezza produttiva ce ne è anche una controproducente. C‟è un libro vecchissimo dove questa idea, secondo me, è espressata molto bene. In questo libro si dice – vado un pò a braccio perché non ho buona memoria – che quando digiuni non devi avere una faccia triste perché gli altri non si rendano conto che digiuni e che quando preghi devi chiuderti nel silenzio della tua stanza, non metterti in mezzo alla folla così che
nessuno possa vedere che tu preghi. Ecco, deve essere un pò così: la tristezza produttiva, quella che fa scrivere e permette di andare oltre la tristezza stessa, non deve essere conosciuta da alcuno fuorché da chi la prova.
D. Riguardo ai saggi, ce n’è uno che si intitola "Gabbie e confini (più o meno volontari): Marcel Proust e Ezra Pound". Come Lei saprà la nostra rivista si occupa prevalentemente di narrativa anglo-americana, dunque le chiediamo, oltre a Proust, come ha scoperto Pound? Come è nata l’idea di questo saggio, di avvicinarli e confrontarli?
R.
Mah, Pound l‟ho scoperto per lo stesso sentiero di Proust. Non mi interessava all‟inizio perché non lo conoscevo o lo conoscevo solo molto superficialmente, conoscevo le voci di corridoio che stupidamente dicono: "Pound fascista, razzista". Poi ho visto una bellissima intervista fatta a lui da Pasolini, nel 1967, e ho cominciato ad interessarmi a Pound molto di più. L‟idea di avvicinarlo a Proust è nata semplicemente dalla constatazione che, se c‟era qualcosa che poteva unirli, qualcosa che poteva avvicinare il francese asmatico esiliato al perpetuo lavoro del suo libro, all‟americano chiuso in gabbia lavorando al suo di libro, era proprio questo: "la letteratura sofferta", un nuovo genere di letteratura che si crea solo nel dolore. E, chiaramente, l‟esilio, la clausura (forzata o no), l‟isolamento che sia di sughero o di metallo.
D. E Pound non era fascista, secondo Lei?
R.
Pound non era fascista, ma non secondo me: obiettivamente non era fascista. Non è mai stato veramente fascista. Pound fa parte di quella massa di scrittori, intellettuali della seconda metà del „900 che vennero accusati di fascismo, che è un‟altra cosa. Io penso, anzi sono sicura, che Pound, di tutta l‟ideologia fascista, fosse stato affascinato, in realtà, solo dall‟estremo ordine, dalla profonda pulizia, chiarezza con cui il tutto veniva presentato. Bisogna tenere in conto, quando si parla di queste cose, del sogno di Pound: "Utopia", che lui definiva "la città nella mente industruttibile", "il luogo in cui le idee si realizzano". E, in più, bisogna assolutamente non dimenticare l‟immensa ingenuità di Ezra Pound, il fatto che era lui "a baby in the woods" ("il bambino nel bosco", ndr).
E per questo c‟è un aneddoto molto eloquente: Pound incontra Mussolini una sola volta: a Palazzo Venezia, nel 1933. Gli porta una copia dei "Cantos" fino ad allora pubblicati, il Duce li sfoglia e finge di capire, e dice che sono divertenti. Ora, lei capisce la superficialità assoluta del giudizio del Duce, il quale si riferiva, forse, alle particolarità tipografiche dei "Cantos". Pound non la capì, ed ingenuo com‟era penso subito ad un giudizio di valore estetico sulla sua opera. E infatti scrive nei "Cantos" che "the Boss, il Duce, capisce le cose che non capiscono gli esteti", non capendo invece lui [Pound] l‟assoluta superficialità del giudizio di Mussolini. E questo è divertente.
D. Non lo sapevo. Lei come giudica il castigo dato a Pound dopo la II Guerra Mondiale?
R.
Guardi, il castigo di Pound che consistette in una dichiarazione di pazzia e in tredici anni di manicomio senza processo fu, a suo modo, geniale, perché salvava il poeta, salvava l‟artista. Chiaramente salvando l‟artista, dichiarava inconsistente l‟economista che era Pound. Questo perché non nuoce al poeta, all‟artista un pò di pazzia, ma la stessa pazzia non viene accolta in un economista; e chiaramente immagino lei capisca che quello che veramente interessava era ciò che lui diceva sulle banche, contro l‟usura, sull‟economia; insomma non è stato tredici anni in manicomio per la poesia.
D. Certo. Per quanto riguarda la critica feroce di Ezra Pound contro l’usura, c’è un canto che si intitola appunto "With Usura"
("Contro l’Usura")
. Quali sono secondo Lei i punti fondamentali di questa critica poundiana all’usura?
R.
Lei va in profondo e io non so se sono all‟altezza. Comunque, quello che posso dirle, è che Pound riteneva – e lo si vede precisamente nei "Cantos" – che la ricchezza è nella mente e nel cuore degli uomini e che l‟usura è "un meccanismo che impedisce la crescita naturale delle cose". Guardi che in questa idea di Pound dell‟usura, c‟è assolutamente contenuto anche il suo essere tutt‟altro che guerrafondaio: l‟usura, chiaramente, vive sulle guerre perché è con le guerre che lo stato si indebita. Pound tra le altre cose amava molto gli scacchi e riteneva che le guerre andassero fatte giocando con gli scacchi, perché tutto è limpido e chiaro nel gioco degli scacchi.
D. Lei come giudica tutto quello che successe a Pound: l’internamento a Pisa, il manicomio, il silenzio effettivo di Pound che smise quasi di parlare verso la fine della sua vita?
R.
E‟ il dramma del profetismo, e Pound era un profeta. I profeti sono sempre inascoltati, incarcerati, derisi o dichiarati pazzi. Lei guardi cos‟è successo a quel profeta di Nazareth! Il fatto è che lo si capisce anni dopo che quel profeta aveva ragione. Infatti, se lei ci pensa, quante persone ora leggendo quella critica all‟usura di Pound, possono dire: "Sì, è vero. E‟ così"? Tutti. Chiunque abbia un pò di libertà intellettuale. Aveva ragione ma lo si sa adesso. Per quanto riguarda, invece, il discorso del silenzio di Pound, io credo dipenda da due fattori, uno dei quali è la grande colpa della cultura italiana dell‟epoca di non averlo cercato mai, di non essersi occupata di Pound. L‟intervista di cui le dicevo prima fu un‟eccezione, Pasolini fu un‟eccezione perché, in linea di massima, la cultura italiana non si è occupata di Pound. E, purtroppo, il Pound migliore, il Pound più grande era un Pound che faceva fatica a parlare. D‟altra parte, secondo me, dietro questo silenzio di Pound, c‟è sicuramente la frase che vide iscritta nel Tempio Malatestiano,a
Rimini, e che subito fece sua: "Tempus loquendi, tempus tacendi"
("C’è un tempo per parlare e uno per tacere", ndr).
Dall‟uscita dal manicomio alla fine della sua vita fu, per lui, "Tempus tacendi".
D. Beh, al profeta di Nazareth è andata peggio! Qual è la caratteristica di Pound che Lei apprezza di più?
R.
Io provo una grande invidia verso Pound e verso Proust. Entrambi, uno per la poesia e l‟altro per la prosa, sono stati i più grandi non solo del „900 ma, azzardo, di sempre. Se lei legge la "Recherche", da una parte, e i "Cantos", dall‟altra, noterà che c‟è un fenomeno curioso e intelligente in entrambe le opere: nei "Cantos", soprattutto, è molto evidente il fatto che, a una prima lettura, non ci si capisca assolutamente nulla, ma non importa. Guardi, per capire veramente i "Cantos" bisognerebbe conoscere tutto quello che Pound conosceva: la saggezza cinese, Confucio a cui da tanto spazio, il greco, l‟arabo, la musica, la scultura; bisognerebbe sapere tutto quello che lui sapeva; bisognerebbe essere stati in quella gabbia, in quel manicomio, aver creduto quello che lui credeva, aver "Utopia" ben impressa in mente; la cosa grandiosa – e qui sta il genio – è che non importa: l‟opera si legge e si apprezza benissimo anche senza sapere tutto quello che dicevamo. Ecco, io vorrei saper scrivere così.
D. Qual è, secondo Lei, anche alla luce di questa analisi, la bellezza di Pound?
R.
L‟ha detto lei: è la bellezza. Pound è uno che ha sempre seguito la bellezza, in tutti i modi, in tutte le forme: nell‟arte, nella vita, nella società. Tante volte lui nei "Cantos" scrive: "la bellezza è difficile, la bellezza è difficile". Pound ha sempre creduto nella bellezza, intesa in senso ampio chiaramente. Ha sempre creduto nella forza della bellezza. Nei "Canti Pisani" che sono scritti, come lei saprà, nella gabbia a Pisa, nella quale sta imprigionato tre mesi prima del manicomio negli USA, sotto il sole, sotto l‟acqua, in condizioni disastrose; ebbene, in quelle condizioni, lui scrive due dei suoi versi migliori. Scrive: "Sotto nuvole bianche, cielo di Pisa, da tutta questa bellezza qualcosa deve uscire".
D. Bello, direi! Bene, ci avviciniamo alla fine dell’intervista. Noi La ringraziamo per la gentilezza, l’acume delle risposte e anche, è il caso di dirlo, la bellezza della Sua persona. Concluderei con un’ultima domanda: nel Suo ultimo libro uscito "Dove tu sei" (Urso Ed., Avola 2013) c’è un bellissimo verso che dice: "Essere dove tu sei, perché dove tu non sei, dove tu non ci sei, sono macerie e pianto". Sono quelle macerie e quel pianto che fanno scrivere?
R.
Se sono macerie e pianto produttivi: sì. Altrimenti bisogna far qualcosa perché lo diventino o, alla meno peggio, cercare di andare oltre quelle stesse macerie e quel pianto. Quello che vorrei fosse chiaro è che ho tentato di disseminare in tutta l‟opera
l‟idea che si debbano assolutamente superare macerie e pianto: non si vive se le si portano dentro.
D. Grazie Valentina!
Abbiamo intervistato Valentina Corbani (Rimini, 1987) come "Giornale Indipendente di Cultura", Padova 2011. Intervista a cura di Paolo Rosa.
Bologna, 24-05-2013
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