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Novelle anni ’60. III La bambina in azzurro

di Silvia Rizzo
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Pubblicato il 26/12/2010 20:24:00


Appena chiuse gli occhi le molteplici sensazioni provate in quella giornata gli si affollarono nella mente in un turbinio confuso. Lo sferragliare monotono del treno e il capo che gli ciondolava nel sonno, cullato dal rumore sempre uguale delle ruote, il brusio indistinto nell'atrio della stazione, dove una folla di persone brulicava in una luce di acquario, il pulsare convulso della grande città che l'aveva afferrato e stordito, la sensazione di soffocamento che gli aveva serrato la gola nel respirare quell'aria pesante, così diversa da quella sottile del suo paese, la carne stopposa che aveva mangiato di malavoglia in un'osteria di terz'ordine colle pareti imbiancate a calce e macchiate d'umidità e i tavoli di legno coperti da fogli di carta su cui il vino disegnava larghe macchie, il vociare degli operai seduti agli altri tavoli, la faccia piatta dell'affittacamere, così piatta che anche il naso sembrava volervi affondare e sparire anonimamente, quasi intimidito di sporgere in tanta piattezza. Questi e infiniti altri brandelli di realtà si sovrapponevano confusamente l'uno all'altro mentre cercava di prender sonno. Si rigirò inquieto nel letto avvertendo la levigatezza delle lenzuola, così diversa dalla ruvida freschezza di quelle di lino in cui dormiva a casa e respirando a disagio l'odore di quella stanza estranea. Tutto quel giorno aveva sentito profondamente l'ostilità delle cose. Ciò che lo circondava era nuovo per lui e lo respingeva: luoghi dove non aveva radici perché non li aveva mai neppure visti, strade, muri, stanze a cui nessun ricordo era legato, tutto sembrava squadrarlo severamente come un intruso. Intorno a lui palpitava una vita che egli osservava da estraneo.
Il sonno non si decideva a venire sebbene fosse stanchissimo. Si voltò supino e si mise a osservare la stanza, gli occhi spalancati nel buio. A poco a poco dall'oscurità indistinta emersero, alla luce fioca che veniva dalla strada, le forme confuse dei mobili, intorno ai quali l'oscurità si addensava più fitta: l'armadio con la specchiera che s'accendeva di vaghi riflessi, il tavolo su cui poggiava la sua valigia, il lavandino nell'angolo. Ricordò l'oscurità profonda della sua stanza a casa e il silenzio della campagna così assoluto da essere quasi tangibile, rotto solo a volte dall'abbaiare di un cane o dal verso di una civetta. Qui attraverso le stecche della persiana si infiltrava la luce di un'insegna al neon disegnando sul soffitto strie luminose e la città continuava fuori la sua vita tumultuosa, anche se a poco a poco i rumori dei motori di macchine di passaggio e lo sferragliare dei tram si andavano facendo più radi.
Si addormentò tardissimo e di un sonno che era piuttosto uno stordimento, in cui si accavallarono strani sogni frenetici e da cui si destò alle prime luci dell'alba con la testa confusa. L'acqua fredda con cui si lavò la faccia l'aiutò a tornare alla realtà disperdendo gli ultimi brandelli di sogni. Rassettò il letto, fece sparire il pigiama sotto il cuscino, chiuse la valigia ed uscì piano piano cercando di non far rumore, ché il resto della casa sembrava ancora immerso in un sonno profondo.
Uscito in strada nella luce fredda del mattino le cose gli parvero meno ostili, anche perché aveva l'impressione di aver sorpreso la città in un suo aspetto inconsueto, un aspetto che essa non era solita mostrare che a pochi. Le macchine passavano assai rade così che nel silenzio era possibile avvertire il rumore dei passi di qualche pedone che si affrettava al lavoro. I semafori non funzionavano ancora e solo ammiccavano con una luce gialla intermittente; le saracinesche dei negozi erano abbassate, tranne qualche bar che stava aprendo, e il garzone insonnolito spazzava fuori segatura bagnata. C'era una leggera nebbiolina e l'aria era fresca e pungente. Camminò a lungo senza meta per strade che gli apparivano tutte uguali assistendo al lento risveglio della città. Finché da sopra i tetti delle case il sole versò i suoi primi raggi quasi un gioioso segnale che invitava la città a scuotersi dal torpore. Allora si sedette al tavolino di un bar, ordinò una brioche e un cappuccino e restò lì a sorseggiare lentamente osservando gli stenti alberelli di un giardinetto pubblico e l'umidità che evaporava dai vialetti di ghiaia ai primi raggi di sole.

***

La città universitaria sebbene fosse brutta gli piaceva. Gli era presto diventata familiare e fu uno dei primi luoghi della città dove cessò di sentirsi un estraneo. Gli avevano subito detto che frequentare era inutile e che per prepararsi agli esami bastavano i libri, ma lui frequentava lo stesso molte lezioni che lo interessavano e a furia di andare all'università mattina e pomeriggio la piazza con la fontana della Minerva, le aiuole, i viali alberati, i grandi edifici bianchi avevano smesso l'aspetto arcigno dei primi giorni ed erano diventati benigni e amichevoli. Aveva subito preso il fare indolente degli studenti e negli intervalli fra una lezione e l'altra andava anche lui a sedersi sui gradini del rettorato o sui bordi della fontana crogiolandosi al sole ad occhi chiusi. Oppure andava al piccolo bar sempre sovraffollato a sorseggiarsi voluttuosamente un caffè. Gli piaceva quella città nella città, che sembrava abitata solo da un'umanità giovane, pigra e spensierata: chi passeggiava per i vialetti col braccio intorno alla vita della ragazza fermandosi a baciarla quando l'intrico dei rami si faceva un po' più fitto, chi stava fermo a parlare in un crocchio o steso torpidamente al sole sui praticelli verdi delle aiuole. I bianchi e massicci edifici dalle linee nette e squadrate, buon esempio dell'architettura del regime, erano brutti, ma intonati all'atmosfera generale: se ne stavano lì immobili, grandi e sonnacchiosi, riflettendo il sole sulle loro superfici chiare ed anche quelle patetiche scritte che decoravano i frontoni inneggiando alla dottrina non davano ormai più fastidio a nessuno.
Fu iniziato anche al caos della grande biblioteca universitaria. Vi regnava una complicatissima e oscura burocrazia, che sembrava volta a scoraggiare del tutto le velleità di consultazione. Si sarebbe detto che il legislatore volesse evitare il più possibile la profanazione del patrimonio librario da parte dei lettori. Se poi anche si riusciva a compilare in tutte le loro parti gli appositi moduli - ovviamente differenziati a seconda di oscure categorie - e a deporli nella cassetta delle richieste, il più delle volte la scheda tornava con su stampigliata la scritta "disperso", "dal legatore", "in prestito", oppure veniva un libro diverso da quello richiesto e allora bisognava tornare pazientemente al catalogo e cercar di capire dove stava l'errore. Se il libro alla fine veniva, non era mai prima di un'attesa oscillante fra mezz'ora e un'ora, per cui dopo le prime esperienze i richiedenti avevano imparato ad andarsene a fare uno spuntino o una passeggiata. In compenso la biblioteca universitaria era un ottimo luogo dove preparare gli esami portandosi libri e appunti, specialmente per gli studenti fuori sede come lui che non avevano una casa dove studiare, e ancora più per fare la siesta dormendo saporitamente col capo poggiato sul tavolo nell'intervallo fra lezioni del mattino e lezioni del pomeriggio.

***

Aveva intorno una grande e famosa città tutta da esplorare, ma si muoveva poco dal suo quartiere. Il tempo libero preferiva passarlo con gli amici conosciuti nel frattempo, in interminabili riunioni al 'circolo', dove si discuteva di politica fino a diventare rochi e si fumava una sigaretta dopo l'altra, nelle salette di piccoli cinema di avanguardia a vedere I pugni in tasca di Bellocchio o Fahrenheit 471 di Truffaut, a ballare con le poche ragazze disponibili in un locale semisotterraneo in via dei Sabelli, a giocare a calcetto nel retrobottega di un bar in interminabili partite. Del quartiere dello scalo di S. Lorenzo gli piaceva quell'aria popolana, le strade piene di gente affaccendata e donne con la borsa della spesa, il vivace e rumoroso mercato all'aperto, qualche piccola trattoria dove si mangiava alla romana. La vicinanza della grande città universitaria non aveva alterato il carattere del quartiere: unica traccia della presenza degli studenti qualche grande libreria universitaria, che forniva soprattutto i libri di testo richiesti per le lezioni e al di fuori di quelli non offriva quasi nulla di interessante.
Luisa la conobbe frequentando le lezioni di filologia classica, tenute quell'anno da un professore ancora giovane trasferito da poco a Roma da un'università periferica, che costituiva una singolare eccezione nel panorama dell'università presessantottina. Gli altri professori vivevano in un loro mondo separato e inaccessibile agli studenti, che incontravano solo a lezione; quando pure facevano lezione, giacché non era infrequente che non si presentassero affatto senza alcun preavviso o che si facessero sostituire. I rapporti degli studenti coi professori erano mediati da una pletora di giovani assistenti, per lo più volontari (il che significava che facevano da assistenti gratuitamente o per una cifra simbolica): quanto più il professore era di chiara fama tanto più lo stuolo degli assistenti era folto. Questo piccolo esercito di precari senza diritto alcuno era tiranneggiato dai professori in maniera che di lì a poco, dopo il '68, sarebbe divenuta inconcepibile. Spesso erano veramente portarborse. E non erano solo giovani: se ne vedevano anche alcuni che già avevano qualche filo d'argento nei capelli. L'irresistibile miraggio della carriera universitaria li spingeva a svolazzare come falene intorno al fulgore delle glorie accademiche. Le lezioni di un famoso latinista (la frequenza era obbligatoria) si svolgevano nell'aula magna cogli studenti che riempivano quasi tutti i posti disponibili nelle gradinate ad emiciclo. L'enorme cattedra alla quale sedeva il professore nella cavea di questa sorta di teatro era collocata su un alto podio e davanti ad essa, molto più in basso, c'era un tavolone rettangolare intorno al quale si sedevano gli assistenti: con questo stuolo di chierichetti frapposto fra lui e il pubblico studentesco l'anziano e celebre latinista sembrava veramente officiare un rito solenne. Il professore di filologia classica invece faceva lezione in una comune aula della capacità forse di una quarantina di posti complessivi che non era mai piena del tutto. Le sue lezioni subito si trasformavano in un seminario, perché lo studente era sollecitato a intervenire, a dire la sua su questioni testuali, a collaborare, a porre domande. Il professore era cortesissimo, dava del lei agli studenti e li trattava con grande formalità, ma al tempo stesso era avvicinabile e disponibile e i suoi magnetici occhi azzurri, il suo modo informale di far lezione, la sua vivacità sapevano comunicare l'entusiasmo e provocare la partecipazione. Lo studente che, timidamente e quasi stupito della sua stessa audacia, osava dire la sua su una delle questioni dibattute aveva la sorpresa di sentirsi ascoltato da pari a pari e vedere la sua opinione soppesata al vaglio del ragionamento e dell'esperienza e accolta o respinta con la massima serietà. Accadeva così che gli studenti più brillanti frequentassero le lezioni di filologia classica senza mancarne una per più anni di seguito e l'atmosfera di collaborazione favoriva coesione e amicizie fra di loro: alla fine dell'anno si creava un gruppo compatto che continuava a vedersi anche fuori dalle lezioni. Del gruppo faceva parte quell'anno Luisa, una ragazzina esile, che dimostrava ancor meno dei suoi diciotto anni (era matricola anche lei). Di bello aveva due grandi occhi che le mangiavano il viso e un sorriso timido smentito da quegli occhi, che restavano sempre pensosi. Era di Roma e non aveva i problemi degli studenti fuori sede: poteva tornare a casa sua ogni sera con l'autobus.
L'atmosfera delle lezioni di filologia classica e il prestigio di cui godeva il professore facevano sì che all'esame ci si preparasse con particolare scrupolo e lunga applicazione: nessuno avrebbe voluto fare brutta figura di fronte a un simile docente. Fu quello che invece accadde a lui, nonostante l'accuratissima preparazione: fu l'ultimo ad essere esaminato e si era stancato nella lunga attesa in corridoio e forse anche la commissione era un po' stanca. Dopo un buon inizio inciampò su una domanda di metrica plautina che non si aspettava e che era obiettivamente difficile, con la conseguenza di divenire insicuro e rispondere in modo poco brillante anche al resto delle domande. Ebbe un ventisette, che in qualunque altra situazione avrebbe considerato un buon voto, ma che tale non gli sembrò in quell'esame e in rapporto a come sapeva di essersi preparato. Luisa, che aveva dato l'esame col massimo dei voti all'inizio di quella stessa sessione pomeridiana, aveva aspettato con lui facendogli compagnia e fu quindi presente quando uscì dalla stanza dove si svolgevano gli esami, scuro in volto per quel voto che gli sembrava una macchia. Continuò a fargli compagnia fuori dalla facoltà e camminarono affiancati prima nella città universitaria e poi nelle strade del quartiere di San Lorenzo. Cominciarono a parlare come non avevano mai fatto prima. Luisa forse voleva distrarlo dal cruccio di quel voto. Così si aprirono a vicenda, parlarono ognuno di sé, di quella poca vita che avevano alle spalle e che a loro sembrava tanta, delle loro aspirazioni, dei loro sogni, in un'intimità crescente.
Quello di filologia classica era stato per lui l'ultimo esame della sessione estiva. Il giorno dopo partì da Roma e tornò al paese per le vacanze. Ma non si ritrovò nella vita di prima. Ne aveva un senso di soffocamento. Per combattere la noia si buttò nello studio e nella preparazione degli esami per la sessione autunnale. Usciva solo verso sera, dopo ore passate sui libri, quando la vampa del sole si attenuava; ma non andava a incontrare gli amici o a percorrere in su e in giù la strada principale del paese occhieggiando le ragazze. Ora preferiva allontanarsi dall'abitato e camminare a lungo per strade deserte di campagna, finché la testa gli si snebbiava, i pensieri si facevano più leggeri e in cielo si accendevano le prime stelle. Pensava spesso a Luisa.
Il giorno prima di ripartire per il paese era entrato per comprarsi le sigarette in una tabaccheria e si era messo a frugare fra le cartoline in mostra per trovarne una da mandare ai suoi. In mezzo alle altre, finita chissà come fra le solite convenzionali vedute di Roma, ne aveva trovato una con "La bambina in azzurro" di Modigliani. Ne era rimasto straordinariamente colpito. Era un quadro costruito con pochi tratti essenziali e giocato su toni di azzurro. Sullo sfondo dell'angolo nudo e azzurro di una stanza pavimentata a mattoni, gettando su di esso un'ombra lieve di un azzurro più scuro, stava in piedi una bambina dall'aria stranamente seria e adulta, in un grembiule anch'esso azzurro dall'ampio colletto bianco merlettato, con calzette nere ai piedi e capelli pure neri, tenuti fermi e ravvivati da un fiocchetto rosso come il rosso delle guance e della boccuccia serrata. Teneva le mani unite davanti, in una posa un po' goffa e impacciata, e con la testa leggermente inclinata sulla spalla sinistra sgranava in faccia all'osservatore due grandi occhi azzurri dallo sguardo intenso ed enigmatico. Questa cartolina ora la teneva sulla scrivania e ogni tanto sollevando gli occhi dal libro la contemplava. Quello sguardo indecifrabile e malinconico gli sembrava che volesse dirgli qualcosa, non sapeva cosa. Un giorno ci scrisse dietro "Tanti cari saluti", si firmò in maniera un po' formale con nome e cognome e la mandò a Luisa.

***

Tornò a Roma alla fine di settembre. Ora non provava più alcun senso di estraneità. Roma gli sembrava piena di promesse e viveva in una gradevole sensazione di attesa di un futuro vago e indeterminato. Studiava, ma era abbastanza libero perché le lezioni sarebbero cominciate solo a novembre inoltrato. I suoi amici erano ancora dispersi dalle vacanze e da altre occupazioni. Così telefonò a Luisa e cominciarono a uscire insieme regolarmente. Esploravano la città. Luisa gli faceva un po' da guida, anche se in verità pure lei che c'era nata Roma la conosceva pochissimo; se ne era curata poco proprio per il fatto di averla sempre avuta lì a portata di mano. C'erano quelle limpide giornate ottobrine di sole così caratteristiche del clima romano. Quell'esplorazione li portò nei vicoli del centro, nel verde dei parchi, nel fresco silenzio delle chiese. Preferivano stare all'aperto e trascurarono i musei. Camminavano per ore, instancabili, tenendosi per mano. Solo ogni tanto sostavano al tavolino di un bar a prendere qualcosa o riposavano su una panchina al sole osservando i voli brevi dei passeri. Stare con lei gli faceva vedere le cose in una luce più vivida e colorata, le impressioni erano più intense. A volte lei lo guardava coi suoi grandi occhi un po' malinconici. Quello sguardo lo turbava; gli sembrava che volesse dirgli qualcosa, ma non sapeva cosa.
La primavera successiva ci fu l'occupazione che portò alle dimissioni del Rettore Papi, a cui lui partecipò attivamente fin dal primo momento. Il 27 aprile, in occasione delle elezioni studentesche, provocazioni di studenti fascisti causarono scontri, nei quali uno studente di nome Paolo Rossi fu colpito violentemente allo stomaco. Poco dopo ebbe un malore mentre si affacciava dalla balaustra in cima alla scalinata della Facoltà di Lettere. Cadde, si ferì gravemente e fu portato in ospedale, dove morì la notte seguente. La polizia, pur ripetutamente sollecitata da alcuni professori, era stata a guardare senza intervenire. Per protesta Lettere fu occupata dagli studenti, ma questa volta invece la polizia intervenne, su ordine del Rettore, e nella notte stessa in cui Paolo Rossi moriva la Facoltà fu sgombrata con la forza. Gli occupanti non opposero resistenza e si lasciarono portar via di peso. Ma il giorno successivo la protesta divampò di nuovo, fu rioccupata Lettere, furono occupate anche altre Facoltà, si chiesero le dimissioni del Rettore.
Il 2 maggio arrivò la notizia che Papi si era dimesso e l'occupazione fu sospesa. Luisa, che in quei giorni era stata a casa perché la famiglia non le avrebbe mai permesso di dormire nella Facoltà occupata, venne ad aspettarlo ai piedi della scalinata di Lettere. C'era un clima di festa per la vittoria ottenuta dagli studenti. Andarono a bere una coca-cola in un lurido bar di via dello Scalo di S. Lorenzo. Lui aveva la barba lunga ed era come stranamente ubriacato dalla lotta. Esibì un'allegria chiassosa e febbrile e giunse a dire a Luisa che era contento di rivederla e che era lei che dava significato a tutto. Luisa taceva visibilmente imbarazzata.
Terminata l'occupazione ricominciarono a uscire insieme. Lui provò a condividere con Luisa la vita che aveva fatto prima di conoscerla. Le presentò i suoi amici, ma capì chiaramente che non le piacevano, che anzi le facevano un po' paura. Un giorno la portò a ballare nel locale semisotterraneo. Luisa aveva un vestitino di lana azzurra lavorato a maglia da una zia. Ballò solo con lui, non parlò con nessuno dei suoi amici e lui si accorse vedendola lì di quanto fosse diversa dagli altri.
Sapeva che i locali del 'circolo' dove si svolgevano le loro riunioni politiche, un modesto appartamento di un paio di stanze sulla via Tiburtina, restavano vuoti la mattina. Ne aveva la chiave. Qualche volta ci aveva portato qualche ragazza e così gli venne l'idea di portarci Luisa. Riuscì a convincerla col pretesto di farle vedere quelle stanze in cui si svolgeva una parte così importante della sua vita romana. Luisa era curiosa di quello che lo riguardava. Erano entrati da poco quando venne la donna delle pulizie. Lui le andò incontro, le diede una mancia e riuscì a farla andare via. Ora era finalmente solo con Luisa in un appartamento chiuso a chiave. Ma la reazione di lei quando tentò un approccio lo colse di sorpresa. "No" disse soltanto a bassa voce e con forza, e bastò questo a fermarlo di colpo. Lei lo fissava dritto negli occhi con uno sguardo intenso ed enigmatico. "Mi guardi con odio" le disse cercando di interpretare quello sguardo, ma non ne era affatto sicuro. In quel momento l'uomo del sud che era in lui nonostante politica occupazioni e film di avanguardia era contento che Luisa avesse reagito così. Uscirono dal 'circolo' e camminarono per le strade del quartiere tenendosi per mano.
Ci fu un'altra estate, un'altra separazione e un altro ritorno. Ora a casa aveva parlato di Luisa; uno dei suoi fratelli di passaggio a Roma l'aveva conosciuta e ne aveva a sua volta parlato con entusiasmo. Così questa volta tornando dalle vacanze estive aveva con sé doni per lei dalle sue due sorelle: un foulard e un profumo fatto con essenze di erbe e fiori delle sue parti, che ricordava il paese anche nel nome e nell'etichetta, sulla quale si vedeva una vezzosa contadina con un fazzoletto svolazzante in capo e un cesto di fiori in mano. Nella sessione autunnale dette parecchi esami recuperando quel che aveva perso per l'occupazione. Ricominciarono le lezioni, le giornate si accorciarono, vennero i primi freddi. Un giorno una telefonata concitata gli portò la notizia che suo padre era morto sul colpo in un grave incidente automobilistico. Lui era il maggiore di cinque fratelli, alcuni dei quali ancora piccoli. Non c'era possibile scelta: bisognava lasciare gli studi, tornare al paese, prendere il posto del padre alla direzione di una piccola azienda familiare.
Quando lasciò definitivamente Roma, dove era tornato dopo i funerali per riprendere le sue cose e sgombrare la stanza in affitto nel quartiere San Lorenzo, Luisa lo accompagnò alla stazione. Aspettarono insieme l'arrivo del treno che doveva riportarlo al sud, come avevano aspettato insieme un anno e mezzo prima quell'esame di filologia classica. Per mostrarlo a lei cavò dalla tasca interna della giacca, quella sul cuore dove lo custodiva gelosamente, l'orologio da polso di suo padre col vetro incrinato e le lancette ferme all'ora dell'incidente mortale. Un altro orologio, quello su uno dei piloni di bianco travertino che reggevano la pensilina, scandiva i tempi dell'attesa e l'approssimarsi della partenza. Quando la vide l'ultima volta, dal finestrino del treno che già lentamente si metteva in moto, lei era ferma accanto a quel pilone e lo guardava con lo stesso sguardo enigmatico e indecifrabile della bambina in azzurro.

Poderuccio, 12 agosto 2003 - Roma, 28 gennaio 2004 (rielaborando un abbozzo di romanzo scritto il 23-25 settembre 1969).


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