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Cani e gatti

di Alberto Rizzo
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Pubblicato il 10/12/2010 19:24:21

CANI E GATTI Un anno era passato da quando avevo perduto il mio cane: un magnifico pastore belga di nome Black (sì, lo ammetto: non ho mai avuto grande fantasia per i nomi) ricevuto in regalo da un amico. All’età di quattordici anni cominciò ad avere dolori alle zampe posteriori, dolori sempre più forti tanto che una mattina, rientrando sul tardi dall’ufficio, lo trovai in casa con il ventre a terra: non riusciva più a rialzarsi (chissà da quante ore giaceva in quella posizione) e mugolava sommessamente. Tirò avanti per qualche giorno traballando sulle zampe, ma più spesso accasciandosi al suolo, finché, su consiglio del veterinario, mi rassegnai mestamente a porre fine alle sue sofferenze. Lo portai in macchina all’ambulatorio, il veterinario gli praticò due iniezioni, una per addormentarlo e l’altra per interrompere quella vita che era ormai diventata un calvario. Non sono incline ai facili sentimentalismi, ma non dimenticherò mai quello sguardo implorante affetto e compassione, come se mi avesse voluto salutare per l’ultima volta o chiedesse un impossibile aiuto. Tornai a casa sconvolto, con la coscienza in subbuglio, poi lo stesso veterinario mi tranquillizzò con scientifica competenza: “Non si poteva fare altrimenti – mi disse – i cani di quella taglia a una certa età soffrono di artrosi agli arti posteriori, i dolori sono insopportabili – anche se si lamentano poco – e sono più forti di qualsiasi farmaco”. Anche del cortisone che da qualche tempo gli somministravo in dosi sempre più massicce. Fu appunto a distanza di un anno da quel triste evento, quando ormai mi stavo rassegnando a una vita senza il mio Black, che un’amica mi chiese se sarei stato disposto ad adottare un gattino, anzi una gattina. Mi concessi qualche secondo per riflettere, poi risposi con decisione: “Per il momento non se ne parla, voglio restare un po’ solo e mi sembrerebbe di tradire la memoria di Black”. Risposta scontata, persino banale, di tutti coloro che hanno perduto un cane cui sono stati molto affezionati. Senonché l’indomani mattina l’amica mi si presentò con uno scatolone: sul fondo vi giaceva la gattina, anzi un essere informe, un bozzolo di pelo che a stento poteva essere riconosciuto come una creatura appartenente al mondo dei felini. Non aveva neanche un mese, si muoveva goffamente cercando di uscire dalla scatola ma, per quanti sforzi facesse, ricadeva ridicolmente a pancia all’aria. Il pelo era tigrato, grigio chiaro, con delle sfumature fulve lungo il collo. Esitai un attimo, poi non ebbi il coraggio di respingere al mittente la scatola con il suo indecifrabile contenuto. Fu così che, sebbene alquanto contrariato e perplesso, adottai la gattina, non illudendomi che potesse riempire il vuoto lasciatomi dalla morte del mio Black. Conosco bene il carattere dei gatti, animali solo raramente affettuosi, il più delle volte selvatici, solitari, scontrosi, per la loro indole felina che li porta a evitare contatti troppo stretti con il genere umano. In effetti, la gattina, cui diedi il nome di Lola, appena diventata adulta assunse nei miei confronti un comportamento contraddittorio: ogni volta che l’accarezzavo, dapprima si mostrava compiaciuta di simili attenzioni, mi faceva le fusa emettendo il caratteristico “ron-ron”, ma improvvisamente cominciava a mordermi le mani e a mostrarmi gli artigli, come se un subitaneo soprassalto di dignità felina le ricordasse che non doveva troppo concedersi alle coccole del padrone. Altra caratteristica dei gatti è la grande curiosità, che Lola possedeva in sommo grado e che la portava ad esplorare territori sempre più ampi. Abito al sesto piano di un grande caseggiato, le terrazze dei vari appartamenti sono adiacenti e collegate fra loro da un cornicione. Ebbene, Lola, dopo aver esplorato in lungo e in largo il mio appartamento, aveva preso l’abitudine di introdursi, percorrendo il cornicione, in una abitazione accanto alla mia, soprattutto d’estate, quando le finestre rimangono aperte giorno e notte. In una di queste spericolate esplorazioni, terrorizzò la mia vicina di casa, comparendole improvvisamente sul tavolo di cucina. Il giorno dopo la vittima di quell’incursione, incontrandomi al mercato, mi disse:”Non faccia uscire quella bestiaccia” (disse proprio così) “ho paura dei gatti e ho un soffio al cuore che mi potrebbe essere fatale”. Per qualche giorno tenni la finestra del terrazzo ermeticamente chiusa. Poi una notte, non potendone più dal caldo, aprii uno spiraglio della suddetta finestra e, ahimè, avvenne l’irreparabile. La gatta saltò sul letto della vicina, placidamente addormentata, la signora si svegliò di soprassalto e il suo cuore malato ebbe un principio di infarto. Trasportata d’urgenza all’ospedale, le fu diagnosticata una lesione al cuore di lieve entità, ma pur sempre preoccupante. Rimproverai aspramente Lola, che mi fissava con i suoi occhi verdi; la sera le feci saltare il pasto, sperando che imparasse la lezione. Il giorno dopo era sparita. La cercai in ogni angolo di casa, negli sgabuzzini, negli armadi, dietro i libri (i gatti, si sa, hanno l'abitudine di acquattarsi nei luoghi più disparati), la chiamai a gran voce. Niente da fare, scomparsa nel nulla. Qualche giono dopo ricevetti una citazione dal tribunale: la signora non aveva perso tempo, coadiuvata da un medico e da un avvocato mi chiedeva un risarcimento di diecimila euro, per danni irreversibili al cuore. Peggio di così non mi poteva andare. Assunsi anch’io un avvocato per difendere le mie ragioni, ma l’avvocato mi disse che c’era ben poco da fare. Il danno, quantificato con precisione, era stato certificato da un illustre cardiologo e solo una perizia medica, altrettanto autorevole, avrebbe potuto ridurre quella cifra, che per il mio modesto stipendio era assai alta. Poi accadde il miracolo: qualche settimana dopo l’avvocato mi telefonò raggiante, per comunicarmi che la signora aveva ritirato la citazione, non chiedeva più nulla, insomma la causa era finita con un esito per me insperato. Più volte mi chiesi il perché di tale rinuncia, ma non riuscii a trovare una risposta plausibile. Andai a trovare a casa la mia vicina, portandole un grande mazzo di fiori. Mi venne ad aprire in vestaglia, il suo sguardo severo, rancoroso, aveva lasciato il posto a un sorriso pieno di felicità. Incredibile: tra le sue gambe si muoveva, strusciandosi, Lola! Rimasi allibito, rischiando a mia volta l’infarto. La signora mi accolse con viva cordialità e, dopo un attimo di silenzio, mi disse:”La prego, dottore, non se la riprenda, sono sola e mi fa una gran compagnia. Da quando si è trasferita da me, mi sento molto meglio, ho riacquistato la gioia di vivere”. Guardai Lola che sembrava felice di stare con la signora, tributandole grandi manifestazioni d’affetto, accettando con evidente piacere le carezze della nuova padrona. Mi venne un dubbio: e se Lola, con diabolica astuzia, avesse voluto farsi perdonare la sua “marachella”? Oppure aveva scelto un nuovo padrone, perché offesa dai miei rimproveri­ e indispettita dal mio divieto? Fissai a lungo i suoi occhi verdi, immobili, glaciali – che a loro volta fissavano i miei – ma, lì per lì, non riuscii a decifrare il mistero di quello sguardo. Eppure, al momento del congedo, mi parve di scorgere nella fissità di quello sguardo un lampo di malizia, come se mi volesse dire: "Vedi, non l'ho fatta poi tanto grossa, perché non mi riprendi con te?"


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