I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Il fantasma del soldato
Il fantasma del soldato
Un paio d'anni fa mi recai in treno a Napoli, città dove svolgo una parte della mia attività lavorativa. Il treno sostò qualche minuto nella stazione di Formia. Dal finestrino potei ammirare il golfo di Gaeta, con il mare scintillante nella luce di mezzogiorno e immobile perché, visto da quella distanza, appare privo di quelle increspature che culminano in rapide creste di spuma. Poi volsi gli occhi dalla parte opposta, dove una rupe alta qualche decina di metri incombe sulla linea ferroviaria, quasi a guardia della stazione. Mi sorpresi a fissare quella rupe, del tutto insignificante dal punto di vista paesaggistico, brulla, pietrosa, punteggiata qua e là da una rada e bassa vegetazione. Perché quella desolata collinetta suscitava in me tanto interesse? E perché guardavo proprio là, in quel punto preciso quasi a metà del pendio, pochi metri prima della vetta? A poco a poco, frammento dopo frammento, tassello dopo tassello, emerse dalle nebbie della memoria la storia che mi accingo a raccontare. Nell'agosto del 1964, quando avevo quasi quattordici anni, andai a villeggiare a Formia con tutta la famiglia. Il medico mi aveva raccomandato il mare, come rimedio per la mia costituzione gracile e la mia salute cagionevole. Del resto il mare era per me una fonte di inesauribile divertimento. La spiaggia di Formia era il luogo preferito dei miei giochi acquatici: tuffi, nuotate, osservazione di pesci, conchiglie, granchi e tutto ciò che si poteva fare in un mare, all'epoca, pulitissimo. Il pomeriggio, quando i raggi del sole si facevano meno cocenti, esploravo la graziosa cittadina e i suoi immediati dintorni. Un pomeriggio, appunto, decisi di arrampicarmi sulla rupe che ho sopra descritto. Attraversai con circospezione i binari e iniziai la mia escursione, con l'intento di raggiungere la vetta, da cui si gode una vista magnifica del golfo sottostante. Trovai anche uno stretto sentiero e senza troppa fatica andai su, aggrappandomi con le mani agli arbusti laddove il sentiero si faceva più ripido. Giunto a una trentina di metri in linea d'aria dalla vetta mi fermai improvvisamente: sul lato sinistro del sentiero, in un tratto pianeggiante, una bara semidissepolta ostruiva parzialmente il passaggio. Col cuore in gola, osservai quel macabro reperto: era una bara di legno massiccio, l'esposizione alle intemperie ne aveva corroso la lucidatura, ma il legno sembrava ancora integro. Tuttavia il coperchio era in parte divelto e da una fessura di qualche centimetro si intravedevano i miseri resti della salma. Mi precipitai giù per il sentiero, con la velocità di una lepre inseguita dai cacciatori e, in pochi minuti, raggiunsi l'albergo dove alloggiavamo. Lì raccontai tutto a mio padre che, con la calma di chi aveva vissuto i terribili anni della seconda guerra, mi spiegò che Formia si trovava allora sulla linea Gustav, estremo baluardo difensivo dei tedeschi per arginare l'avanzata degli alleati verso il nord. Nel '44 tutta quella zona, a cominciare da Montecassino, era stata teatro di furiosi bombardamenti. Anche Formia era stata bombardata a tappeto, la linea ferroviaria distrutta, e quasi certamente le bombe avevano colpito quello che forse era stato un cimitero di guerra tedesco. Ciò spiegava la bara dissepolta, ma rimase per me sempre un mistero il perché, a distanza di vent'anni da quegli eventi, un unico sepolcro, violato dalla furia bellica, fosse rimasto là abbandonato e dimenticato da tutti, senza che nessuno si fosse preoccupato di dare degna sepoltura alla salma dell'ignoto soldato. Riferii tutto anche ai miei compagni di giochi, Giorgio e Marco, invitandoli a verificare di persona (cosa che fecero immediatamente) la veridicità del mio racconto. Una sera ci ritrovammo tutti e tre a passeggiare sul lungomare; la noia di quelle passeggiate ci rendeva inquieti e desiderosi di inventarci nuovi giochi. Fu Giorgio a proporne uno, veramente eccitante ai nostri occhi di adolescenti annoiati. Si trattava di raggiungere a turno e di notte il sepolcro del soldato, lasciandovi una traccia del proprio passaggio. Era una sfida fra di noi e con noi stessi, per dimostrare coraggio e indifferenza alle storie di spettri, di cui in quegli anni erano intessute le nostre letture e conversazioni. Intanto, discorrendo di questo progetto, si era fatta quasi mezzanotte e decidemmo di agire subito. Andai in albergo dove, eludendo la sorveglianza del portiere semiaddormentato, sottrassi da un armadietto, che conteneva gli attrezzi per le riparazioni, un martello e dei robusti chiodi. I miei genitori probabilmente già dormivano, abituati com'erano ai miei estivi vagabondaggi notturni. Raggiunti Giorgio e Marco, spiegai loro cosa dovevamo fare: ognuno di noi avrebbe piantato un chiodo nella bara per dimostrare agli altri l'avvenuto passaggio. Iniziai io inerpicandomi velocemente lungo il sentiero illuminato dalla luna, raggiunsi presto la bara, vi piantai il chiodo e corsi giù senza voltarmi. Lo stesso fece Giorgio, il promotore di questo gioco, il più sicuro e spavaldo. Infine venne il turno di Marco, che sembrava di noi tre il più titubante e impaurito. Indossava, per ripararsi dall'umidità della notte, una giacca a vento nera, ampia e svolazzante nella brezza marina. Andò su anche lui. Io e Giorgio restammo ad aspettarlo all'inizio del sentiero, contenti perché il gioco si stava felicemente concludendo senza che nessun fantasma si fosse manifestato. Senonché, dopo qualche minuto, vedemmo Marco tornare precipitosamente, pallido come un morto. Era tutto un tremito, non riusciva a parlare; riuscì solo a balbettare le seguenti parole: "...Mi...mi ha trattenuto...qualcosa...ho sentito che mi afferrava la giacca. Dio che paura...voglio andare a casa". L'indomani mattina era a letto con la febbre. Sempre l'indomani mattina io e Giorgio andammo a verificare l'esito dell'impresa, un po' preoccupati per ciò che ci aveva raccontato Marco. La bara era là, con i tre chiodi: l'ultimo, quello di Marco, tratteneva un lembo di stoffa nera. Era un lembo della giacca a vento che indossava il nostro amico.
Dopo quel viaggio in treno, che mi rammentò la storia appena narrata, nelle notti senza luna il fantasma del povero soldato mi appare in sogno, quasi a rimproverarmi l'insensatezza di quel gioco sacrilego di tanti anni fa.
P.S. Chi ha soggiornato a Formia nei primi anni '60 (e ovviamente anche prima) può confermare l'esistenza di quella tomba colpita dalle bombe. Spero vivamente che oggi, a distanza di tanti anni, quel soldato senza nome, che ha trovato la guerra anche dopo la morte, abbia avuto decorosa sepoltura. La vicenda del macabro gioco attribuito a tre ragazzi - cui il sottoscritto non ha per fortuna realmente partecipato - mi fu raccontata (era una leggenda ?)nell'anno della mia villeggiatura a Formia. Il fantasma del soldato, infine, esiste veramente: se non esistesse non avrei scritto questa storia.
Id: 827 Data: 07/01/2011 12:04:51
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Cani e gatti
CANI E GATTI Un anno era passato da quando avevo perduto il mio cane: un magnifico pastore belga di nome Black (sì, lo ammetto: non ho mai avuto grande fantasia per i nomi) ricevuto in regalo da un amico. All’età di quattordici anni cominciò ad avere dolori alle zampe posteriori, dolori sempre più forti tanto che una mattina, rientrando sul tardi dall’ufficio, lo trovai in casa con il ventre a terra: non riusciva più a rialzarsi (chissà da quante ore giaceva in quella posizione) e mugolava sommessamente. Tirò avanti per qualche giorno traballando sulle zampe, ma più spesso accasciandosi al suolo, finché, su consiglio del veterinario, mi rassegnai mestamente a porre fine alle sue sofferenze. Lo portai in macchina all’ambulatorio, il veterinario gli praticò due iniezioni, una per addormentarlo e l’altra per interrompere quella vita che era ormai diventata un calvario. Non sono incline ai facili sentimentalismi, ma non dimenticherò mai quello sguardo implorante affetto e compassione, come se mi avesse voluto salutare per l’ultima volta o chiedesse un impossibile aiuto. Tornai a casa sconvolto, con la coscienza in subbuglio, poi lo stesso veterinario mi tranquillizzò con scientifica competenza: “Non si poteva fare altrimenti – mi disse – i cani di quella taglia a una certa età soffrono di artrosi agli arti posteriori, i dolori sono insopportabili – anche se si lamentano poco – e sono più forti di qualsiasi farmaco”. Anche del cortisone che da qualche tempo gli somministravo in dosi sempre più massicce. Fu appunto a distanza di un anno da quel triste evento, quando ormai mi stavo rassegnando a una vita senza il mio Black, che un’amica mi chiese se sarei stato disposto ad adottare un gattino, anzi una gattina. Mi concessi qualche secondo per riflettere, poi risposi con decisione: “Per il momento non se ne parla, voglio restare un po’ solo e mi sembrerebbe di tradire la memoria di Black”. Risposta scontata, persino banale, di tutti coloro che hanno perduto un cane cui sono stati molto affezionati. Senonché l’indomani mattina l’amica mi si presentò con uno scatolone: sul fondo vi giaceva la gattina, anzi un essere informe, un bozzolo di pelo che a stento poteva essere riconosciuto come una creatura appartenente al mondo dei felini. Non aveva neanche un mese, si muoveva goffamente cercando di uscire dalla scatola ma, per quanti sforzi facesse, ricadeva ridicolmente a pancia all’aria. Il pelo era tigrato, grigio chiaro, con delle sfumature fulve lungo il collo. Esitai un attimo, poi non ebbi il coraggio di respingere al mittente la scatola con il suo indecifrabile contenuto. Fu così che, sebbene alquanto contrariato e perplesso, adottai la gattina, non illudendomi che potesse riempire il vuoto lasciatomi dalla morte del mio Black. Conosco bene il carattere dei gatti, animali solo raramente affettuosi, il più delle volte selvatici, solitari, scontrosi, per la loro indole felina che li porta a evitare contatti troppo stretti con il genere umano. In effetti, la gattina, cui diedi il nome di Lola, appena diventata adulta assunse nei miei confronti un comportamento contraddittorio: ogni volta che l’accarezzavo, dapprima si mostrava compiaciuta di simili attenzioni, mi faceva le fusa emettendo il caratteristico “ron-ron”, ma improvvisamente cominciava a mordermi le mani e a mostrarmi gli artigli, come se un subitaneo soprassalto di dignità felina le ricordasse che non doveva troppo concedersi alle coccole del padrone. Altra caratteristica dei gatti è la grande curiosità, che Lola possedeva in sommo grado e che la portava ad esplorare territori sempre più ampi. Abito al sesto piano di un grande caseggiato, le terrazze dei vari appartamenti sono adiacenti e collegate fra loro da un cornicione. Ebbene, Lola, dopo aver esplorato in lungo e in largo il mio appartamento, aveva preso l’abitudine di introdursi, percorrendo il cornicione, in una abitazione accanto alla mia, soprattutto d’estate, quando le finestre rimangono aperte giorno e notte. In una di queste spericolate esplorazioni, terrorizzò la mia vicina di casa, comparendole improvvisamente sul tavolo di cucina. Il giorno dopo la vittima di quell’incursione, incontrandomi al mercato, mi disse:”Non faccia uscire quella bestiaccia” (disse proprio così) “ho paura dei gatti e ho un soffio al cuore che mi potrebbe essere fatale”. Per qualche giorno tenni la finestra del terrazzo ermeticamente chiusa. Poi una notte, non potendone più dal caldo, aprii uno spiraglio della suddetta finestra e, ahimè, avvenne l’irreparabile. La gatta saltò sul letto della vicina, placidamente addormentata, la signora si svegliò di soprassalto e il suo cuore malato ebbe un principio di infarto. Trasportata d’urgenza all’ospedale, le fu diagnosticata una lesione al cuore di lieve entità, ma pur sempre preoccupante. Rimproverai aspramente Lola, che mi fissava con i suoi occhi verdi; la sera le feci saltare il pasto, sperando che imparasse la lezione. Il giorno dopo era sparita. La cercai in ogni angolo di casa, negli sgabuzzini, negli armadi, dietro i libri (i gatti, si sa, hanno l'abitudine di acquattarsi nei luoghi più disparati), la chiamai a gran voce. Niente da fare, scomparsa nel nulla. Qualche giono dopo ricevetti una citazione dal tribunale: la signora non aveva perso tempo, coadiuvata da un medico e da un avvocato mi chiedeva un risarcimento di diecimila euro, per danni irreversibili al cuore. Peggio di così non mi poteva andare. Assunsi anch’io un avvocato per difendere le mie ragioni, ma l’avvocato mi disse che c’era ben poco da fare. Il danno, quantificato con precisione, era stato certificato da un illustre cardiologo e solo una perizia medica, altrettanto autorevole, avrebbe potuto ridurre quella cifra, che per il mio modesto stipendio era assai alta. Poi accadde il miracolo: qualche settimana dopo l’avvocato mi telefonò raggiante, per comunicarmi che la signora aveva ritirato la citazione, non chiedeva più nulla, insomma la causa era finita con un esito per me insperato. Più volte mi chiesi il perché di tale rinuncia, ma non riuscii a trovare una risposta plausibile. Andai a trovare a casa la mia vicina, portandole un grande mazzo di fiori. Mi venne ad aprire in vestaglia, il suo sguardo severo, rancoroso, aveva lasciato il posto a un sorriso pieno di felicità. Incredibile: tra le sue gambe si muoveva, strusciandosi, Lola! Rimasi allibito, rischiando a mia volta l’infarto. La signora mi accolse con viva cordialità e, dopo un attimo di silenzio, mi disse:”La prego, dottore, non se la riprenda, sono sola e mi fa una gran compagnia. Da quando si è trasferita da me, mi sento molto meglio, ho riacquistato la gioia di vivere”. Guardai Lola che sembrava felice di stare con la signora, tributandole grandi manifestazioni d’affetto, accettando con evidente piacere le carezze della nuova padrona. Mi venne un dubbio: e se Lola, con diabolica astuzia, avesse voluto farsi perdonare la sua “marachella”? Oppure aveva scelto un nuovo padrone, perché offesa dai miei rimproveri e indispettita dal mio divieto? Fissai a lungo i suoi occhi verdi, immobili, glaciali – che a loro volta fissavano i miei – ma, lì per lì, non riuscii a decifrare il mistero di quello sguardo. Eppure, al momento del congedo, mi parve di scorgere nella fissità di quello sguardo un lampo di malizia, come se mi volesse dire: "Vedi, non l'ho fatta poi tanto grossa, perché non mi riprendi con te?"
Id: 795 Data: 10/12/2010 19:24:21
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Io e mio zio
IO E MIO ZIO Una vecchia foto ingiallita di un giornale locale , che ritrae mio zio in tenuta da cacciatore, mi rimanda a un momento della mia vita che non scorderò finché campo. Sotto la foto poche righe di cronaca annunciano la morte del sig. Arminio Ripamonti, colpito al mento da una pallottola del suo fucile da caccia. “Morte accidentale – concludeva l’anonimo cronista – provocata da un colpo partito dal fucile, un vecchio Mauser 45, mentre il suo proprietario ne stava pulendo la canna”. Mi chiamo Angelo Ripamonti, zio Arminio era uno zio paterno che mi aveva adottato , ospitandomi in un piccolo appartamento dove viveva da solo in un quartiere periferico di Roma, dopo che avevo perso entrambi i genitori in un tragico incidente d’auto. Allora avevo nove anni , ero solo , senza fratelli e sorelle o altri parenti e qualcuno doveva pur prendersi cura di me. Fu così che mio zio si occupò di me, garantendomi per un certo tempo vitto, alloggio e persino qualche sfizio: ogni tanto una gita fuori porta, un cinema, un gelato da Giolitti. Insomma, non mi sono mai potuto lamentare per qualche rinuncia o privazione. Ho anche potuto studiare, diplomandomi al liceo classico con una discreta votazione. A vent’anni, grazie a una raccomandazione di zio Arminio, funzionario del Ministero, fui assunto alla Poste in pianta stabile – o almeno così credevo io. Nei primi anni andò tutto bene, il lavoro mi rendeva autosufficiente, ero diventato amico di due o tre colleghi e, malgrado la routine tipica del lavoro impiegatizio, riuscivo a trscorrere senza eccessivo tedio le sei ore quotidiane tra un conto corrente, una chiacchiera con i colleghi e un caffè. (Nonostante i numerosi tentativi da parte di funzionari troppo zelanti di proibire la pausa caffè, tale abitudine è sempre rimasta nel pubblico impiego come un rito collettivo, che possiede la medesima sacralità della comunione per un cattolico. E’ pur vero che talvolta acuni impiegati si attardano troppo a consumare il caffè al bar, ma in questo caso alcuni colleghi che apettano con impazienza il proprio turno fanno circolare battute sarcastiche del tipo: “Accidenti, Ferrini preferisce il caffè lungo”, oppure: “Ma dove è andato a prenderlo questo benedetto caffè? In Brasile?”). Fu allo scadere del sesto anno lavorativo che cominciò il calvario: era arrivata una circolare ministeriale che prevedeva, all’interno di ogni ufficio postale, la cosiddetta “mobilità nell’espletamento delle mansioni”. In pratica fui strappato al tranquillo lavoro allo sportello dei conti correnti e assegnato ad altro incarico, poi ad un altro ancora e poi ancora ad un altro. Non facevo in tempo ad imparare una procedura o a completare una pratica, che subito venivo assegnato ad altra mansione e dovevo ricominciare da capo. Per farla breve, divenni il iolly dell’ufficio, il tappabuchi, sempre in bilico tra uno sportello e l’altro, tra una promozione e una retrocessione, senza più certezze relative alla mia carriera. Così, per non buscarmi un esaurimento nervoso, fui costretto a scrivere una lettera al Ministero. Evitando accuratamente il gergo burocratico (verso cui nutro una profonda avversione ), mi rivolgevo con un linguaggio aspro e tagliente ai funzionari ( linguaggio poi giudicato “ingiurioso e diffamatorio” dai destinatari della lettera), accusandoli, in sostanza, di insensibilità e incompetenza e descrivendo la mia kafkiana condizione di impiegato sospeso in un limbo di mansioni imprecise tra il miraggio di un’improbabile promozione e l’incubo di una più probabile retrocessione. Per descrivere meglio la mia situazione terminavo con una citazione dantesca: “In conclusione – scrivevo – il sottoscritto si trova, ormai da tempo, fra “color che son sospesi”. Il funzionario che ebbe l’incarico di leggere la missiva o non capì il carattere dolente della citazione o non la gradì affatto. Il risultato fu che, qualche giorno dopo, dal Ministero mi arrivò la comunicazione che “in attesa di ulteriori provvedimenti nelle sedi competenti, la S.V. deve considerarsi sospesa dal servizio e dallo stipendio a decorrere dal ricevimento della presente et sine die”. Tradotto in termini più espliciti, di fatto venivo licenziato, andando anche incontro a una denuncia per diffamazione. E’ assai difficile, come tutti sanno, che si arrivi nella Pubblica amministrazione al licenziamento di un dipendente, ma in presenza di un sospetto di reato (nel mio caso diffamazione o, peggio, calunnia) il dipendente può essere sospeso, in attesa del processo. Per essere reintegrato nell’organico delle Poste avrei dovuto ritrattare tutto (cosa che non avrei fatto per tutto l’oro del mondo), ovvero nel processo, che non sapevo quando si sarebbe svolto, mi avrebbero dovuto assolvere con formula piena, circostanza improbabile visto che la parte lesa era il Ministro in persona. Intanto rimanevo “tra color che son sospesi”, seppure in un senso tutto diverso da quello che mi ero permesso di denunciare nella lettera. In compenso (davvero magra consolazione!), il mio nome entrava nella storia della Pubblica amministrazione italiana come l’unico caso di impiegato sospeso de iure e licenziato de facto, non per aver malmenato o ucciso il capufficio, ma semplicemente per aver scritto una lettera critica nei confronti dei propri superiori. “Pazienza – pensai rassegnato in un primo tempo – vuolsi così colà dove si puote”. Appresa la notizia, tutti i colleghi mi manifestarono la loro solidarietà, esprimendo indignazione per un provvedimento così severo, che in pratica mi metteva in mezzo a una strada. In particolare il collega Topini volle leggere la lettera che avevo incautamente inviato. Topini era un modesto impiegato, ma non alieno da buone letture. Apprezzò molto quello che avevo scritto, soprattutto per il linguaggio semplice e chiaro e per i riferimenti a Kafka e a Dante, autori che egli leggeva e rileggeva continuamente. Così mi disse, non so se per consolarmi o per autentica convinzione: “Accidenti, Ripamonti, dovresti fare lo scrittore”. Mi congedai mestamente dai colleghi, tornai a casa, lo zio naturalmente mi fece il classico “cazziatone”, minacciando di buttarmi fuori di casa, dicendomi che ero un irresponsabile, un incapace, uno scansafatiche e...vi risparmio il resto. La sera, dopo aver girovagato senza meta per le squallide strade del quartiere, cenai presto e andai subito a letto. Inutile dire che quella notte non chiusi occhio: avevo perso tutto, il lavoro, l’indipendenza economica e rischiavo una condanna per diffamazione. In poche parole avevo toccato il fondo e non vedevo la possibilità di risalire in superficie. Eppure fu proprio quella notte che le parole del buon Topini cominciarono a rodermi il cervello: “Dovresti fare lo scrittore”. Scrittore, scrittore..., ma, mi chiedevo, ne sarei stato capace? Si può vivere solo scrivendo libri? Quanto si può guadagnare in un paese dove si legge così poco? L’indomani mattina presi la storica (e stoica ) decisione: sì, avrei fatto lo scrittore, anche a costo di adattarmi a una vita grama. In fondo, avevo alle spalle le letture del liceo e anche dopo avevo continuato a leggere, sia pure in modo disordinato e saltuario. Mi misi a tavolino, armato di penna e quaderno, e cominciai il primo romanzo della mia carriera letteraria. Avevo deciso di iniziare con un romanzo facile, di consumo, destinato a un pubblico più ampio di quello dei soli lettori abituali. Composi così un romanzo d’ avventura, ambientato in Africa e intitolato In mezzo al guado. Non starò a raccontarvi la trama, intessuta di personaggi buoni e cattivi, morti ammazzati, coccodrilli, scimmioni, fiumi in piena e foreste impenetrabili, tutti ingredienti di un romanzo di sicuro successo. In effetti, devo dire, il libro fu pubblicato da una piccola casa editrice e riuscì a vendere un discreto numero di copie, tanto che con i proventi tirai avanti per qualche mese senza chiedere un soldo allo zio. Nel frattempo, con un’attività febbrile, avevo scritto un racconto e un altro romanzo, quest’ultimo intitolato Nelle pieghe dell’amore, con cui feci piangere un certo numero di casalinghe , avide lettrici di fotoromanzi e narrativa sentimentale. Poi venne la fase sperimentale con due racconti lunghi Pensare il nulla e Prospettiva zero, composti entrambi con uno stile volutamente involuto, provocatoriamente intellettualistico, pretenziosamente cerebrale. Forse anche per i titoli non troppo felici – vagamente premonitori di un disastro totale – questi due libri, ancorché pubblicati, non riuscirono a vendere neanche una copia. Complessivamente tuttavia, nell’arco di una decina d’anni, riuscii a pubblicare sei romanzi e quattro racconti. Inoltre fui insignito del premio letterario “Il cinghiale d’oro”, conferitomi dal circolo dei cacciatori del mio quartiere, per il racconto Anatomia di un cinghiale, minuziosa descrizione di una battuta di caccia nei boschi dell’Amiata. Come scrisse il critico Aristide Caciotti, nel motivare il conferimento del premio, “il Ripamonti esibisce uno stile piano e scorrevole, denso ma talora rarefatto, sempre corretto nell’uso della lingua italiana, con un uso sapiente del congiuntivo solo quando serve effettivamente, evitandone insomma l’abuso che, configurandosi talora come ipercorrettismo, determina in molti intellettuali quell’ aberrazione linguistica che il sottoscritto non esita a definire congiuntivite”. Un po’ contorta come motivazione, ma tutto sommato efficace e non priva di una qualche arguzia. Devo, a questo punto, fare un passo indietro e tornare a parlare di zio Arminio. Una volta andato in pensione, era stato preso dalla passione della caccia al cinghiale, aveva comprato un fucile di seconda mano nonché un’impeccabile tenuta da cacciatore e, insieme con un paio di amici anch’essi cacciatori, aveva incominciato a partecipare ad epiche battute di caccia. A bordo di una scassata Land Rover, la combriccola raggiungeva ogni domenica quei pochi luoghi del nostro paese dove ancora sopravvive questo sfigato animale. Il più delle volte, dopo ore di estenuanti appostamenti, ne accoppavano uno, lo facevano a pezzi sul pianale della Land Rover e si dividevano il bottino in parti uguali. Mio zio tornava a casa raggiante, ora con un cosciotto, ora con un lombo , ora con una testa o con altre parti del cinghiale. La nostra abitazione cominciò ad assomigliare sempre di più a una macelleria: prosciutti appesi ad essiccare ovunque, in frigo costolette, salsicce e ogni genere di frattaglie, perché del cinghiale - come del maiale – non si butta niente. Io stesso avevo partecipato ad un paio di battute di caccia e questa esperienza mi aveva fornito gli elementi narrativi per il già citato Anatomia di un cinghiale. Fu dopo questo racconto che, ahimè, sopraggiunse la crisi creativa: mi bloccavo davanti al foglio bianco, non riuscivo a scrivere più di due o tre righe, mi mancavano le idee; insomma si era esaurita la vena letteraria, l’ispirazione mancava, la fantasia si era inaridita. Fu una crisi terribile che durò qualche mese e mi spinse sull’orlo del suicidio. Mio zio mi vedeva sempre più depresso e mi domandava cosa avessi, ma fu proprio Arminio a fornirmi involontariamente una via d’uscita all’impasse in cui mi trovavo. Immerso com’ero nella più cupa disperazione, cominciai a coltivare un pensiero criminoso e folle: dovevo uccidere lo zio, simulando naturalmente una morte accidentale. L’evento in sé e tutti gli eventi successivi mi avrebbero fornito senza sforzo gli elementi per una sorta di racconto autobiografico. Invertivo così il procedimento tipico di tutti gli autori di fiction. Invece di immaginare una trama avvincente, la creavo nella realtà, limitandomi a registrarla giorno per giorno come un cronista scrupoloso. In tal modo avrei potuto narrare la mia vita con lo zio, la sua passione per la caccia, il tragico “incidente”, le indagini successive. Specialmente l’ “incidente” forniva al racconto uno spunto emozionante in una storia altrimenti piuttosto banale. Studiai la cosa nei minimi dettagli: avrei sparato con il Mauser da caccia una pallottola sotto il mento di Arminio, poi avrei simulato l’incidente. Del resto la polizia non avrebbe trovato nessun movente che giustificasse un omicidio da parte mia. Arminio non possedeva nulla , tranne qualche piccolo risparmio, e l’appartamento dove abitavamo era in affitto. Inoltre i nostri rapporti erano stati quasi sempre buoni; a parte il “cazziatone” seguito al mio licenziamento, nessuno aveva mai avuto notizia di litigi, contrasti, rancori. Certo mi dispiaceva di dover sacrificare una vita (e per di più di un parente) sull’altare della creatività artistica, ma era la vita di una persona ormai anziana (all’epoca aveva quasi ottantacinque anni). Ancora pochi anni e la natura avrebbe fatto il suo corso. D’altronde, se è vera la massima latina mors tua vita mea, la crisi di creatività mi aveva condotto, come ho già detto, sull’orlo del suicidio. Avevo anche messo in conto l’eventualità, peraltro remota, che la polizia scoprisse il crimine e ciò avrebbe comportato per me un processo e quasi certamente la condanna all’ergastolo. Ma in fondo, pensavo, anche questa possibilità mi avrebbe fornito altro materiale per lo svolgimento del racconto. Del resto, concludevo nel mio ragionamento sempre più delirante, meglio la prigione che il suicidio. Dovevo agire di notte, colpendolo nel sonno più profondo. E così feci, con una determinazione e una freddezza di cui io stesso mi meravigliai. Erano le tre, Arminio russava come un bufalo, in posizione supina, con la parte inferiore del mento a portata di mano, anzi di Mauser. Feci partire un colpo micidiale. I fucili da caccia grossa sparano pallottole esplosive, quindi vi risparmio i dettagli della devastazione che quell’unico colpo provocò sul volto dello zio. Subito dopo, ancor prima che sopravvenisse il rigor mortis, accostai una sedia al letto e con grande sforzo vi trasferii sopra il cadavere, gli misi il fucile in mezzo alle gambe con la canna rivolta all’in su. Il peso della testa del cadavere, rovesciata all’indietro, nonché una leggera inclinazione dello schienale della sedia nella stessa direzione, garantivano che il busto restasse eretto. Accostai la sedia alla parete, poi lasciai accanto alla sedia il nettafucili, strumento costituito da ua sottile asticella di ferro sormontata da una spazzola. Infine cambiai il materasso e la biancheria del letto, ne lavai accuratamente la testata per eliminare tracce di sangue o di materia organica. La macabra messinscena era perfetta: morte accidentale di un cacciatore mentre pulisce o si accinge a pulire il suo fucile. Superfluo dire che avevo compiuto tutta l’operazione indossando guanti di lattice. Subito dopo telefonai, con voce rotta dall’emozione, alla guardia medica e alla polizia. L’indagine cominciò subito ma durò poco. Il commissario, dott. Paolini, mi interrogò un paio di volte, chiedendomi quali fossero stati i miei rapporti con lo zio, se si fossero mai verificati gravi litigi, se la vittima possedesse qualche proprietà .Infine, dal momento che il medico legale aveva stabilito con buona approssimazione l’ora della morte tra le due e le quattro di notte, Paolini mi domandò perché mio zio avesse iniziato a pulire il fucile proprio di notte. Ebbi un attimo di esitazione, ma poi risposi tranquillo: “Zio soffriva di insonnia – ed era vero – quindi di notte si dedicava alle più svariate occupazioni”. Tutte domande piuttosto scontate per escludere l’ipotesi di omicidio. Infatti, nel giro di un mese, la polizia archiviò l’inchiesta sotto la voce “morte accidentale”. Tutto come previsto. Avevo appena deposto la penna che, a tarda sera, entrò in casa Arminio, di buon umore e fresco come una rosa. Quando mi vide ancora a tavolino, mi chiese se avevo finito di lavorare. In quel momento sentii il bisogno di rispondergli: “Scusa, caro, se sono stato costetto a ucciderti, ma dovevo assolutamente completare questo racconto”. Lui mi guardò perplesso, senza capire. Poi andò in cucina, da dove dieci minuti dopo mi chiamò: “Angelo vieni, la cena è pronta. Stasera ho preparato costolette di cinghiale al forno”. Alberto Rizzo .
Id: 774 Data: 22/11/2010 17:41:27
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claustrofobia
CLAUSTROFOBIA
L’inizio della vicenda che sto per raccontare fu di per sé banale, ma l’esito fu per me drammatico. Ero andato , un venerdì pomeriggio sul tardi, a prelevare un libro dal magazzino della biblioteca dove lavoro come distributore. Senza chiavi, perché le porte d’ingresso sono state lasciate aperte, entro nel magazzino, prendo una copia del suddetto volume ( lo ricordo ancora: l’Asino d’oro di Apuleio in una pregevole edizione rilegata ) e rapidamente mi appresso all’uscita costituita da due porte: una porta a vetri blindata con maniglia interna di sicurezza (“antipanico”, come la chiamano gli esperti) e un cancello in ferro con sbarre verticali. Chiudo alle mie spalle la prima porta, senza accorgermi che, nel frattempo, il cancello è stato chiuso a chiave; faccio per tornare indietro, ma anche la prima porta ha la serratura bloccata. Rimango così intrappolato in uno spazio angusto di pochissimi metri quadri, molto peggio di un carcerato in una cella di massima sicurezza. Non dispongo di cellulare, strumento con il quale ho sempre avuto un rapporto “problematico”. Il panico comincia ad attanagliarmi: è tardi, è la fine della settimana e la biblioteca è deserta di personale e di frequentatori che possano udire le mie grida. Mi si prospetta un fine settimana (venerdì sera e notte, tutto il sabato – giorno in cui nessuno lavora – e tutta la domenica) recluso in uno spazio ridottissimo. Sono le sette di sera e, in preda all’angoscia, comincio inutilmente a scuotere il ca ncello, invocando a gran voce l’aiuto di qualcuno. Poco dopo, un fornitore parcheggia un furgone nel cortile antistante, sente le mie urla, si volta perplesso ma non riesce a individuarne la provenienza. Risale sul furgone e riparte a gran velocità, convinto forse di aver avuto un’allucinazione acustica. Nel frattempo si sono fatte le otto, smetto di gridare e mi preparo a passare una notte e due interi giorni in quell’angusta prigione. Mi sono dimenticato di dire che soffro di claustrofobia, in forma grave e patologica. Questa mia “malattia” si manifesta con alterazioni della percezione visiva, acustica e talora anche tattile: tutto ciò mi conferisce una sensibilità diversa, che mi fa comprendere il senso ultimo delle cose, oltre la realtà apparente e gli epifenomeni che costituiscono il mondo in cui vivono le persone “normali”. Ma il contrasto tra i due mondi, che io continuo ad avvertire anche durante le mie “crisi”, genera in me angoscia e dissociazione. Per questo motivo gli psichiatri che mi hanno visitato mi raccomandano di evitare gli spazi ristretti e/o privi di sufficiente illuminazione, come ascensori, cabine telefoniche, metropolitane, stanzini, sgabuzzini, sottoscala, gabinetti troppo piccoli o senza finestre, cantine et similia. Mi rassegno e mi adagio sul pavimento in posizione fetale, sperando nell’arrivo di qualche guardia notturna che ponga fine al mio incubo. Ma le ore passano e nessuno si fa vedere. Allora, non riuscendo a dormire, comincio a fantasticare, perdendo il contatto col mondo reale e la mia concreta, infelice situazione. Dapprima, mi affiora alla mente il ricordo di una vecchia e intensissima amicizia con una donna, Marisa, all’incirca mia coetanea. L’avevo conosciuta in una di quelle feste che si fanno tra amici e colleghi, per festeggiare non rammento quale ricorrenza. Fra di noi era nato un vincolo che non esiterei a definire affettuoso, fatto di letture comuni: compravamo e ci scambiavamo romanzi e racconti di Gide, Camus, Simenon, Kafka, Mann, Pirandello, Moravia, Sciascia, solo per citarne alcuni. La nosta amicizia, che si esprimeva soprattutto in lunghe conversazioni, era intessuta di situazioni letterarie, popolata di personaggi immaginari, alterata da impressioni estetiche. A tal punto che un certo giorno il nostro rapporto si interruppe, poiché non riuscivamo più a distinguere la realtà dalla fantasia, ciò che avevamo letto da ciò che avevamo vissuto, in una confusione di eventi, personaggi, astrazioni romanzesche che non ci consentiva più di condurre una vita normale. Lei mi attribuiva le intenzioni e i sentimenti di un dato personaggio romanzesco ed io facevo altrettanto, ingenerando sospetti, gelosie, rancori immotivati. Un’amicizia insolita, sospesa com’era tra invenzione e realtà, che però non poteva durare; e infatti non durò più di tre anni. Il fatto è che i personaggi e gli autori di molte nostre letture ci accompagnano per tutta la vita, intrattengono con noi un sommesso colloquio quotidiano, condizionando i nostri sentimenti e le nostre passioni, in poche parole plasmano la nostra personalità. Del resto, chi ha vissuto l’esperienza di trascorrere in una biblioteca pubblica (questi grandiosi templi innalzati al culto delle memorie collettive) qualche ora di notte, al buio, senza presenze umane e nel più assoluto silenzio, sa che i libri emanano strane concrezioni spettrali, come ectoplasmi che, liberati dai loro involucri cartacei , si librano in aria in una luce fluorescente: sono gli autori che rivivono la loro vita anche a distanza di centinaia e migliaia d’anni, liberandosi dalla loro prigione di carta. Credo che questo fenomeno, chimico e materiale, illustri in modo efficace l’idea proustiana che lo scrittore (e, più in generale, l’uomo) possa superare il confine labile tra vita e morte, conquistando l’immortalità nei neuroni preposti alla memoria dei posteri. Tutto ciò avviene per un processo che non ha nulla di metafisico e trascendentale, con buona pace di tutte le teorie sull’ anima e la sua immortalità. A riprova di quanto detto sopra, devo aggiungere che dall’angolo visuale della mia prigione, riuscivo a leggere – senza alcuno sforzo – attraverso i vetri della porta i titoli dei volumi immersi nell’oscurità completa del magazzino: l’Iliade, l’Odissea, l’Orlando furioso, Don Chisciotte ( che è – al di là delle avventure del protagonista – un grande libro sui libri e sul potere che essi esercitano sul lettore) e tanti altri titoli, tutti illuminati da una strana fluorescenza; anche questo fatto dimostra quanto sia intensa la “vita” notturna all’interno di una biblioteca. Tra queste e altre fantasticherie e sensazioni passai la notte del venerdì e tutto il sabato. La domenica i miei pensieri si incupirono: ripensai con inquietudine a quel racconto claustrofobico di Edgar Allan Poe Le esequie premature che narra di persone sepolte vive e a quell’altro , ancora più allucinato, Il gatto nero, storia di un’ossessione,di un delitto atroce e di un cadavere murato nella parete di una cantina; racconti che avevo letto di sera da ragazzo, precludendomi la possibilità di dormire la notte. Intanto le ossa incominciano a farmi male e il freddo del mese di marzo mi lascia in tutto il corpo una sensazione di umidità e di ipotermia. Inoltre i bisogni fisiologici, stimolati dalla paura, mi hanno lordato indecorosamente i pantaloni. Una cornacchia di dimensioni abnormi mi si avvicina fissandomi da dietro il cancello; i suoi occhi neri si dilatano all’inverosimile assumendo un’espressione minacciosa. Alla cornacchia si aggiunge un gabbiano ancora più gigantesco con intenzioni tutt’altro che pacifiche. Senza evocare Gli uccelli di Hitchcock, ho letto da qualche parte che questi sono uccelli rapaci, che si nutrono volentieri anche di carogne e che arrivano ad aggredire l’uomo, quando hanno sentore di morte. Mi rannicchio il più lontano possibile dal cancello e aspetto che se ne vadano, attratti da altro genere di cibo. Ancora una giornata di incubi, ancora una notte di sensi alterati, ossessionato sempre di più dal pensiero della morte imminente. Finalmente il lunedì mattina, sul presto, si avvicina e apre il cancello l’addetto alle pulizie e, vedendomi rannicchiato in un angolo come un cane abbandonato, mi dice: “ Ehi, che ci fa lei qui?”. Io mi avvento su di lui con calci e pugni, urlando come un ossesso: “Disgraziato! Assassino! Mi volevi uccidere!”. Di quel che accadde subito dopo non ricordo più nulla, se non il sibilo di una sirena, quattro braccia robuste che mi afferrano e – giuro – le voci beffarde di Dino Campana e Alda Merini, due poeti che hanno conosciuto l’esperienza dell’internamento psichiatrico, che mi sussurrano all’orecchio: “Ci vediamo presto”.
Ho scritto queste brevi note sul lettino di una clinica psichiatrica, dove sono ricoverato da un paio di settimane. Ai bordi del lettino, sufficientemente stretto per abituare il paziente a un sostanziale immobilismo, vi sono ancora gli anelli, vagamente ammonitori, cui venivano agganciate le cinghie di contenzione, oggi proibite dalla legge Basaglia. Quasi ogni giorno una équipe di medici mi ha visitato, posto domande, ascoltato, auscultato, misurato ( anche di notte) la pressione arteriosa, “picchiettato” col martelletto per saggiare i riflessi, somministrato farmaci e sedativi...Insomma, un autentico supplizio. Come se non bastasse tutto quello che avevo passato. Alla fine sulla mia cartella clinica ho letto il seguente, burocratico, inesorabile verdetto conclusivo: “Il paziente è affetto da sindrome allucinatoria di origine claustrofobica con spiccate pulsioni aggressive”. Il duro referto medico rafforza in me l’amara convinzione che l’Istituzione psichiatica sia una”trappola”, da cui è assai difficile venire fuori. Proprio come scriveva Alda Merini. Ieri infine, dopo anni che non si faceva sentire, ho ricevuto l’inattesa telefonata della mia vecchia amica Marisa. E’ stata molto affettuosa, mi ha chiesto come mi sentivo, che cure mi facevano, come mi trattavano, poi ha aggiunto quasi sussurrando: “In tutti questi anni ho letto molti libri e ogni volta che leggevo un libro pensavo a te; così li ho messi tutti da parte in uno scaffale della mia libreria perché anche tu li potessi leggere. Mi raccomando, fai presto a guarire. Ti aspetto”. Allora, finalmente, ho visto una luce in fondo al tunnel.
Alberto Rizzo
Id: 769 Data: 14/11/2010 14:22:25
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