Pubblicato il 09/12/2010 17:28:07
...e la gente dirà che era un disadattato… un emarginato. Non aveva né moglie né figli e, a trentasette anni, la convivenza con i genitori poteva risultare penosa. Non aveva hobby o interessi particolari, se non quello dello sci, a cui vi si era dedicato solo da qualche anno. Ma una settimana di vacanze e qualche week-end sulla neve potevano risultare di ben poco svago nell’intero arco di un anno. La sua vita era ormai là, sul luogo di lavoro, confinata tra quelle mura a cui egli guardava come a quelle di una prigione che gli avevano incatenato l’intera esistenza. Un’esistenza tutt’altro che lieta. Attendeva l’orario d’uscita e le ore passavano monotone e lente tra una sigaretta e l’altra. Ne fumava parecchie, anche due pacchetti al giorno. Spesso, si appartava in uno stanzino comunicante con il laboratorio adibito solo in specifici momenti a lavorazioni speciali, e rimaneva lì al buio per parecchio tempo. Da qui, i colleghi di lavoro, quelli più maligni o solo più burloni, gli affibbiarono il sopranome di pipistrello. Se qualcuno entrava nello stanzino accendendo la luce, egli se ne lamentava, diceva che amava restare al buio, era più riposante. Sovente era oggetto di burle a causa del suo carattere un po’ schivo. La stessa condotta di vita nonché l’aspetto non più brillante e giovanile, ne avevano fatto la mira dei soliti colleghi buontemponi (se così è lecito definirli). Attendeva il suono della campanella, che indicava la fine della giornata lavorativa, come una liberazione. Ma, contrariamente all’illusione creatasi lungo il giorno, anche il dopolavoro, atteso con tanta ansia, non gli portava che noia. Avrebbe tanto desiderato una moglie ad attenderlo nella quiete domestica, e magari dei figli che lo avessero tempestato di problemi. Invece non gli rimaneva che andare a passeggiare sul lungomare, come sempre lo si vedeva ogni volta che ci si recava a Lerici. Solo o in compagnia di amici, che, per la verità, sembravano molto occasionali. Continuava a camminare per ore non passando di certo inosservato, anche per via di un paio di occhiali scuri che raramente si toglieva e che gli procuravano un poco di bramata oscurità, nascondendo così agli ignari due grandi occhi azzurri velati di malinconia per il desiderio di una vita diversa. L’avevo conosciuto cinque anni prima, m’era parso molto più allegro e scherzoso, disponibile anche a reciproche burle. Poi, il tempo gli aveva gradatamente affievolito quelle qualità. Forse anche perché si era stufato del fatto che le sue spontanee manifestazioni d’allegria potessero essere, per alcuni, ulteriore oggetto di scherno. Qualcuno insinuava che avesse avuto una delusione amorosa, dato che quasi mai parlava di donne e raramente si univa alla discussione quando se ne trattava l’argomento in maniera mondana. Di natura molto permalosa, passava facilmente dallo scherzo all’offesa. Aveva, difatti, litigato un po’ con tutti, ma sempre roba di poco conto. Difficilmente portava il broncio a qualcuno per lungo tempo. Aveva lavorato per qualche periodo all’estero, prima di essere assunto in quella piccola ditta elettronica. In Iraq e in Libia, mi pare di ricordare che dicesse. Ne parlava con una certa fierezza ed orgoglio, tacendo però dettagli e particolari personali. Cosicché si sospettò potesse aver avuto delle esperienze negative e che la causa delle sue stranezze derivasse proprio da ciò. Ma tutto rimaneva nel dubbio creandogli intorno un alone di mistero, e la gente, probabilmente indispettita dalla difficoltà di superare questo ostacolo, rinunciava ad ogni stimolo di curiosità, disinteressandosi del problema ed abbandonando il poveraccio ad un isolamento sempre più deleterio. L’anno prima, poi, ero andato a trovarlo a casa sua insieme a due miei colleghi. Era stato parecchio male, rimanendo addirittura in coma per qualche giorno. Dissero che aveva bevuto incoscientemente una birra dopo aver ingerito dei sedativi e che l’effetto era stato disastroso. Ci accolse tranquillo e giulivo nella sua casetta di campagna sita in località Sarzanello, poco distante dalla città di Sarzana. Conobbi i suoi genitori, gente semplice che sprigionava spontaneità dai loro modi di fare. Ma anche ormai avanzati nell’età, e questo, pensai, avrebbe potuto creargli problemi d’incomprensione. Tutto l’ambiente domestico, comunque, traspirava, almeno quel dì, un senso di spensierata serenità.
***
Quella mattina la notizia giunse inaspettata. All’inizio tutto era molto vago e i colleghi si riunivano in piccoli gruppi bisbigliando ciò che era di loro conoscenza e cercando di carpire dagli altri le novità. Poi, in poco tempo, ogni dubbio ed ogni imprecisione scomparve e tutti dovettero accettare la realtà. Fonti era morto, si era suicidato! Nella notte antecedente si era recato sul viale per Marina di Carrara, qui aveva ingerito un grosso quantitativo di sedativi, aiutandosi, nell’atto, con una birra. Proprio ciò gli era stato fatale. Poi aveva posizionato il sedile ribaltabile della macchina in maniera da coricarsi supino in attesa della morte. Allora fu chiaro che l’episodio dell’anno passato non era stato un incidente, bensì un primo fallito tentativo di farla finita. I commenti sulla tragedia erano i più diversi, nell’ambiente lavorativo. C’era chi, preso da tardivi scrupoli di coscienza, si domandava se noi non avessimo contribuito in qualche modo alla sua morte o perlomeno non avessimo lasciato qualcosa d’intentato perché egli non giungesse a quella fatale decisione. Ma vi era anche chi, trincerando la propria coscienza dietro un costruito cinismo, se ne usciva con frasi del tipo: “Uno di meno… ora c’è più spazio”. In particolare mi colpì il commento di un responsabile, che, per salvare la propria immagine forse più con se stesso che verso agli altri, ne concluse che Fonti era malato e non si sarebbe potuto far nulla per evitare il dramma. Mi confidò inoltre che lui e qualche altro dirigente erano a conoscenza del fatto che l’episodio dell’anno precedente non era stato un banale incidente, ma la cosa era stata taciuta per evidenti motivi di riservatezza personale. Il giorno seguente il giornale riportava con un breve trafiletto la notizia dell’accaduto. Al funerale erano presenti tutti i dirigenti ed i massimi responsabili della ditta, mentre molti compagni di lavoro avevano disertato la cerimonia con banali scuse di inderogabili impegni. Probabilmente avevano voluto evitare che i pianti strazianti dei genitori intaccassero la corazza in cui era avvolta la loro coscienza, così ben protetta in quel tranquillo letargo.
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