Si legge a pagina 20 di “Prose buie”, elegante libretto di Marco Ercolani:
“la mia opera sono io che cerco di perderla dentro e fuori di me (grida), dal mio sacrificio dipenderà qualcosa di straordinario e di bello, forse una nuova civiltà (grida), poi dimentica testa, braccia, mani, mente, parole. Non è più uno straniero, uno scrittore. Basta con il peso delle pagine. Seduto sul bordo dell’aria, in mezzo all’acqua fittissima, comincia a tacere”.
Ci troviamo dinanzi a un desiderio di scomparsa.
Chi scrive (un personaggio immaginario? L’autore stesso?) è ben conscio delle sue capacità, nondimeno una sorta di aspirazione al dissolvimento si è impadronita di lui: decide, allora di “tacere”.
Dove si trova?
“Seduto sul bordo dell’aria, in mezzo all’acqua fittissima”.
Immagine davvero inusuale, quest’ultima, definibile quale tendente a una consapevole astrazione.
Quel silenzio sembra più il manifestarsi di un’intima urgenza che un atteggiamento di dolorosa denuncia: lo scrittore avverte un greve senso di fatica e decide, così, di rifugiarsi nel territorio della non parola (“Basta con il peso delle pagine”).
Quanto durerà siffatto mutismo?
Non lo sappiamo.
Il Nostro non intende proporre un breve racconto, bensì una sorta di espressivo flash linguistico, un’immagine vivida non certo volta a provocare statici indugi.
Questa, in generale, è la caratteristica precipua delle intense sequenze verbali di “Prose buie”, la cui dinamica articolazione è in grado d’indurre noi lettori a esaminare attentamente tutti i particolari e, nel medesimo tempo, a spingerci oltre.
La scrittura, precisa e mai chiusa, segue le consuete regole idiomatiche: proprio tale aperta normalità tende a promuovere l’emergere d’idee ulteriori.
Quasi vorremmo, dopo aver letto ogni singola proposizione, chiudere il libro e dare inizio al corso del pensiero.
La lingua di Marco, insomma, è viva e non è priva d’effetti.
“Al risveglio, qualche ora prima dell’alba, qualche ora prima di vedere, ricostruirà la cattedrale a memoria, con sogni e ricordi mescolati insieme, nella prima nebbia del mattino, senza aprire gli occhi, chiamandola con il suo nome. Solo così sarà in grado di comprendere una cosa che esiste durante il giorno e che esiste durante la notte”.
Talvolta, gli uomini vedono meglio al buio, poiché l’immagine, che la memoria è in grado di ricostruire, può dire più del dato reale: l’assenza può essere più stimolante della presenza.
E così, tra desiderio di silenzio e senso di mancanza, si articola, a mio avviso, tutta la complessa trama dell’opera in esame.
Gli scenari, in genere, non sono gioiosi, tuttavia la scrittura riesce a soffermarsi sui singoli dettagli con delicata fermezza: una possibilità c’è, è quella di stare al mondo anche accettandolo.
La felicità potrebbe esistere senza il suo contrario?
Potrebbe considerarsi felice chi non è mai stato triste?
Tutti noi, davvero, siamo simili a quei “giovani macilenti” “che sorridono, intonando poemi d’amore ai loro dèi, che vogliono vivere, vivere ancora e di più, nonostante la polvere nera”.
Ricca d’enigmatico fascino la pregnante allusività delle tavole di Carlo Merello.