Pubblicato il 22/11/2010 17:41:27
IO E MIO ZIO Una vecchia foto ingiallita di un giornale locale , che ritrae mio zio in tenuta da cacciatore, mi rimanda a un momento della mia vita che non scorderò finché campo. Sotto la foto poche righe di cronaca annunciano la morte del sig. Arminio Ripamonti, colpito al mento da una pallottola del suo fucile da caccia. “Morte accidentale – concludeva l’anonimo cronista – provocata da un colpo partito dal fucile, un vecchio Mauser 45, mentre il suo proprietario ne stava pulendo la canna”. Mi chiamo Angelo Ripamonti, zio Arminio era uno zio paterno che mi aveva adottato , ospitandomi in un piccolo appartamento dove viveva da solo in un quartiere periferico di Roma, dopo che avevo perso entrambi i genitori in un tragico incidente d’auto. Allora avevo nove anni , ero solo , senza fratelli e sorelle o altri parenti e qualcuno doveva pur prendersi cura di me. Fu così che mio zio si occupò di me, garantendomi per un certo tempo vitto, alloggio e persino qualche sfizio: ogni tanto una gita fuori porta, un cinema, un gelato da Giolitti. Insomma, non mi sono mai potuto lamentare per qualche rinuncia o privazione. Ho anche potuto studiare, diplomandomi al liceo classico con una discreta votazione. A vent’anni, grazie a una raccomandazione di zio Arminio, funzionario del Ministero, fui assunto alla Poste in pianta stabile – o almeno così credevo io. Nei primi anni andò tutto bene, il lavoro mi rendeva autosufficiente, ero diventato amico di due o tre colleghi e, malgrado la routine tipica del lavoro impiegatizio, riuscivo a trscorrere senza eccessivo tedio le sei ore quotidiane tra un conto corrente, una chiacchiera con i colleghi e un caffè. (Nonostante i numerosi tentativi da parte di funzionari troppo zelanti di proibire la pausa caffè, tale abitudine è sempre rimasta nel pubblico impiego come un rito collettivo, che possiede la medesima sacralità della comunione per un cattolico. E’ pur vero che talvolta acuni impiegati si attardano troppo a consumare il caffè al bar, ma in questo caso alcuni colleghi che apettano con impazienza il proprio turno fanno circolare battute sarcastiche del tipo: “Accidenti, Ferrini preferisce il caffè lungo”, oppure: “Ma dove è andato a prenderlo questo benedetto caffè? In Brasile?”). Fu allo scadere del sesto anno lavorativo che cominciò il calvario: era arrivata una circolare ministeriale che prevedeva, all’interno di ogni ufficio postale, la cosiddetta “mobilità nell’espletamento delle mansioni”. In pratica fui strappato al tranquillo lavoro allo sportello dei conti correnti e assegnato ad altro incarico, poi ad un altro ancora e poi ancora ad un altro. Non facevo in tempo ad imparare una procedura o a completare una pratica, che subito venivo assegnato ad altra mansione e dovevo ricominciare da capo. Per farla breve, divenni il iolly dell’ufficio, il tappabuchi, sempre in bilico tra uno sportello e l’altro, tra una promozione e una retrocessione, senza più certezze relative alla mia carriera. Così, per non buscarmi un esaurimento nervoso, fui costretto a scrivere una lettera al Ministero. Evitando accuratamente il gergo burocratico (verso cui nutro una profonda avversione ), mi rivolgevo con un linguaggio aspro e tagliente ai funzionari ( linguaggio poi giudicato “ingiurioso e diffamatorio” dai destinatari della lettera), accusandoli, in sostanza, di insensibilità e incompetenza e descrivendo la mia kafkiana condizione di impiegato sospeso in un limbo di mansioni imprecise tra il miraggio di un’improbabile promozione e l’incubo di una più probabile retrocessione. Per descrivere meglio la mia situazione terminavo con una citazione dantesca: “In conclusione – scrivevo – il sottoscritto si trova, ormai da tempo, fra “color che son sospesi”. Il funzionario che ebbe l’incarico di leggere la missiva o non capì il carattere dolente della citazione o non la gradì affatto. Il risultato fu che, qualche giorno dopo, dal Ministero mi arrivò la comunicazione che “in attesa di ulteriori provvedimenti nelle sedi competenti, la S.V. deve considerarsi sospesa dal servizio e dallo stipendio a decorrere dal ricevimento della presente et sine die”. Tradotto in termini più espliciti, di fatto venivo licenziato, andando anche incontro a una denuncia per diffamazione. E’ assai difficile, come tutti sanno, che si arrivi nella Pubblica amministrazione al licenziamento di un dipendente, ma in presenza di un sospetto di reato (nel mio caso diffamazione o, peggio, calunnia) il dipendente può essere sospeso, in attesa del processo. Per essere reintegrato nell’organico delle Poste avrei dovuto ritrattare tutto (cosa che non avrei fatto per tutto l’oro del mondo), ovvero nel processo, che non sapevo quando si sarebbe svolto, mi avrebbero dovuto assolvere con formula piena, circostanza improbabile visto che la parte lesa era il Ministro in persona. Intanto rimanevo “tra color che son sospesi”, seppure in un senso tutto diverso da quello che mi ero permesso di denunciare nella lettera. In compenso (davvero magra consolazione!), il mio nome entrava nella storia della Pubblica amministrazione italiana come l’unico caso di impiegato sospeso de iure e licenziato de facto, non per aver malmenato o ucciso il capufficio, ma semplicemente per aver scritto una lettera critica nei confronti dei propri superiori. “Pazienza – pensai rassegnato in un primo tempo – vuolsi così colà dove si puote”. Appresa la notizia, tutti i colleghi mi manifestarono la loro solidarietà, esprimendo indignazione per un provvedimento così severo, che in pratica mi metteva in mezzo a una strada. In particolare il collega Topini volle leggere la lettera che avevo incautamente inviato. Topini era un modesto impiegato, ma non alieno da buone letture. Apprezzò molto quello che avevo scritto, soprattutto per il linguaggio semplice e chiaro e per i riferimenti a Kafka e a Dante, autori che egli leggeva e rileggeva continuamente. Così mi disse, non so se per consolarmi o per autentica convinzione: “Accidenti, Ripamonti, dovresti fare lo scrittore”. Mi congedai mestamente dai colleghi, tornai a casa, lo zio naturalmente mi fece il classico “cazziatone”, minacciando di buttarmi fuori di casa, dicendomi che ero un irresponsabile, un incapace, uno scansafatiche e...vi risparmio il resto. La sera, dopo aver girovagato senza meta per le squallide strade del quartiere, cenai presto e andai subito a letto. Inutile dire che quella notte non chiusi occhio: avevo perso tutto, il lavoro, l’indipendenza economica e rischiavo una condanna per diffamazione. In poche parole avevo toccato il fondo e non vedevo la possibilità di risalire in superficie. Eppure fu proprio quella notte che le parole del buon Topini cominciarono a rodermi il cervello: “Dovresti fare lo scrittore”. Scrittore, scrittore..., ma, mi chiedevo, ne sarei stato capace? Si può vivere solo scrivendo libri? Quanto si può guadagnare in un paese dove si legge così poco? L’indomani mattina presi la storica (e stoica ) decisione: sì, avrei fatto lo scrittore, anche a costo di adattarmi a una vita grama. In fondo, avevo alle spalle le letture del liceo e anche dopo avevo continuato a leggere, sia pure in modo disordinato e saltuario. Mi misi a tavolino, armato di penna e quaderno, e cominciai il primo romanzo della mia carriera letteraria. Avevo deciso di iniziare con un romanzo facile, di consumo, destinato a un pubblico più ampio di quello dei soli lettori abituali. Composi così un romanzo d’ avventura, ambientato in Africa e intitolato In mezzo al guado. Non starò a raccontarvi la trama, intessuta di personaggi buoni e cattivi, morti ammazzati, coccodrilli, scimmioni, fiumi in piena e foreste impenetrabili, tutti ingredienti di un romanzo di sicuro successo. In effetti, devo dire, il libro fu pubblicato da una piccola casa editrice e riuscì a vendere un discreto numero di copie, tanto che con i proventi tirai avanti per qualche mese senza chiedere un soldo allo zio. Nel frattempo, con un’attività febbrile, avevo scritto un racconto e un altro romanzo, quest’ultimo intitolato Nelle pieghe dell’amore, con cui feci piangere un certo numero di casalinghe , avide lettrici di fotoromanzi e narrativa sentimentale. Poi venne la fase sperimentale con due racconti lunghi Pensare il nulla e Prospettiva zero, composti entrambi con uno stile volutamente involuto, provocatoriamente intellettualistico, pretenziosamente cerebrale. Forse anche per i titoli non troppo felici – vagamente premonitori di un disastro totale – questi due libri, ancorché pubblicati, non riuscirono a vendere neanche una copia. Complessivamente tuttavia, nell’arco di una decina d’anni, riuscii a pubblicare sei romanzi e quattro racconti. Inoltre fui insignito del premio letterario “Il cinghiale d’oro”, conferitomi dal circolo dei cacciatori del mio quartiere, per il racconto Anatomia di un cinghiale, minuziosa descrizione di una battuta di caccia nei boschi dell’Amiata. Come scrisse il critico Aristide Caciotti, nel motivare il conferimento del premio, “il Ripamonti esibisce uno stile piano e scorrevole, denso ma talora rarefatto, sempre corretto nell’uso della lingua italiana, con un uso sapiente del congiuntivo solo quando serve effettivamente, evitandone insomma l’abuso che, configurandosi talora come ipercorrettismo, determina in molti intellettuali quell’ aberrazione linguistica che il sottoscritto non esita a definire congiuntivite”. Un po’ contorta come motivazione, ma tutto sommato efficace e non priva di una qualche arguzia. Devo, a questo punto, fare un passo indietro e tornare a parlare di zio Arminio. Una volta andato in pensione, era stato preso dalla passione della caccia al cinghiale, aveva comprato un fucile di seconda mano nonché un’impeccabile tenuta da cacciatore e, insieme con un paio di amici anch’essi cacciatori, aveva incominciato a partecipare ad epiche battute di caccia. A bordo di una scassata Land Rover, la combriccola raggiungeva ogni domenica quei pochi luoghi del nostro paese dove ancora sopravvive questo sfigato animale. Il più delle volte, dopo ore di estenuanti appostamenti, ne accoppavano uno, lo facevano a pezzi sul pianale della Land Rover e si dividevano il bottino in parti uguali. Mio zio tornava a casa raggiante, ora con un cosciotto, ora con un lombo , ora con una testa o con altre parti del cinghiale. La nostra abitazione cominciò ad assomigliare sempre di più a una macelleria: prosciutti appesi ad essiccare ovunque, in frigo costolette, salsicce e ogni genere di frattaglie, perché del cinghiale - come del maiale – non si butta niente. Io stesso avevo partecipato ad un paio di battute di caccia e questa esperienza mi aveva fornito gli elementi narrativi per il già citato Anatomia di un cinghiale. Fu dopo questo racconto che, ahimè, sopraggiunse la crisi creativa: mi bloccavo davanti al foglio bianco, non riuscivo a scrivere più di due o tre righe, mi mancavano le idee; insomma si era esaurita la vena letteraria, l’ispirazione mancava, la fantasia si era inaridita. Fu una crisi terribile che durò qualche mese e mi spinse sull’orlo del suicidio. Mio zio mi vedeva sempre più depresso e mi domandava cosa avessi, ma fu proprio Arminio a fornirmi involontariamente una via d’uscita all’impasse in cui mi trovavo. Immerso com’ero nella più cupa disperazione, cominciai a coltivare un pensiero criminoso e folle: dovevo uccidere lo zio, simulando naturalmente una morte accidentale. L’evento in sé e tutti gli eventi successivi mi avrebbero fornito senza sforzo gli elementi per una sorta di racconto autobiografico. Invertivo così il procedimento tipico di tutti gli autori di fiction. Invece di immaginare una trama avvincente, la creavo nella realtà, limitandomi a registrarla giorno per giorno come un cronista scrupoloso. In tal modo avrei potuto narrare la mia vita con lo zio, la sua passione per la caccia, il tragico “incidente”, le indagini successive. Specialmente l’ “incidente” forniva al racconto uno spunto emozionante in una storia altrimenti piuttosto banale. Studiai la cosa nei minimi dettagli: avrei sparato con il Mauser da caccia una pallottola sotto il mento di Arminio, poi avrei simulato l’incidente. Del resto la polizia non avrebbe trovato nessun movente che giustificasse un omicidio da parte mia. Arminio non possedeva nulla , tranne qualche piccolo risparmio, e l’appartamento dove abitavamo era in affitto. Inoltre i nostri rapporti erano stati quasi sempre buoni; a parte il “cazziatone” seguito al mio licenziamento, nessuno aveva mai avuto notizia di litigi, contrasti, rancori. Certo mi dispiaceva di dover sacrificare una vita (e per di più di un parente) sull’altare della creatività artistica, ma era la vita di una persona ormai anziana (all’epoca aveva quasi ottantacinque anni). Ancora pochi anni e la natura avrebbe fatto il suo corso. D’altronde, se è vera la massima latina mors tua vita mea, la crisi di creatività mi aveva condotto, come ho già detto, sull’orlo del suicidio. Avevo anche messo in conto l’eventualità, peraltro remota, che la polizia scoprisse il crimine e ciò avrebbe comportato per me un processo e quasi certamente la condanna all’ergastolo. Ma in fondo, pensavo, anche questa possibilità mi avrebbe fornito altro materiale per lo svolgimento del racconto. Del resto, concludevo nel mio ragionamento sempre più delirante, meglio la prigione che il suicidio. Dovevo agire di notte, colpendolo nel sonno più profondo. E così feci, con una determinazione e una freddezza di cui io stesso mi meravigliai. Erano le tre, Arminio russava come un bufalo, in posizione supina, con la parte inferiore del mento a portata di mano, anzi di Mauser. Feci partire un colpo micidiale. I fucili da caccia grossa sparano pallottole esplosive, quindi vi risparmio i dettagli della devastazione che quell’unico colpo provocò sul volto dello zio. Subito dopo, ancor prima che sopravvenisse il rigor mortis, accostai una sedia al letto e con grande sforzo vi trasferii sopra il cadavere, gli misi il fucile in mezzo alle gambe con la canna rivolta all’in su. Il peso della testa del cadavere, rovesciata all’indietro, nonché una leggera inclinazione dello schienale della sedia nella stessa direzione, garantivano che il busto restasse eretto. Accostai la sedia alla parete, poi lasciai accanto alla sedia il nettafucili, strumento costituito da ua sottile asticella di ferro sormontata da una spazzola. Infine cambiai il materasso e la biancheria del letto, ne lavai accuratamente la testata per eliminare tracce di sangue o di materia organica. La macabra messinscena era perfetta: morte accidentale di un cacciatore mentre pulisce o si accinge a pulire il suo fucile. Superfluo dire che avevo compiuto tutta l’operazione indossando guanti di lattice. Subito dopo telefonai, con voce rotta dall’emozione, alla guardia medica e alla polizia. L’indagine cominciò subito ma durò poco. Il commissario, dott. Paolini, mi interrogò un paio di volte, chiedendomi quali fossero stati i miei rapporti con lo zio, se si fossero mai verificati gravi litigi, se la vittima possedesse qualche proprietà .Infine, dal momento che il medico legale aveva stabilito con buona approssimazione l’ora della morte tra le due e le quattro di notte, Paolini mi domandò perché mio zio avesse iniziato a pulire il fucile proprio di notte. Ebbi un attimo di esitazione, ma poi risposi tranquillo: “Zio soffriva di insonnia – ed era vero – quindi di notte si dedicava alle più svariate occupazioni”. Tutte domande piuttosto scontate per escludere l’ipotesi di omicidio. Infatti, nel giro di un mese, la polizia archiviò l’inchiesta sotto la voce “morte accidentale”. Tutto come previsto. Avevo appena deposto la penna che, a tarda sera, entrò in casa Arminio, di buon umore e fresco come una rosa. Quando mi vide ancora a tavolino, mi chiese se avevo finito di lavorare. In quel momento sentii il bisogno di rispondergli: “Scusa, caro, se sono stato costetto a ucciderti, ma dovevo assolutamente completare questo racconto”. Lui mi guardò perplesso, senza capire. Poi andò in cucina, da dove dieci minuti dopo mi chiamò: “Angelo vieni, la cena è pronta. Stasera ho preparato costolette di cinghiale al forno”. Alberto Rizzo .
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