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La stanza dei ricordi

di Marco Raiti
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Pubblicato il 02/11/2010 08:22:13


A me piace molto parlare con i vecchi, discorrere con loro
del più e del meno, attento a non tralasciare d’intendere neppure
il più piccolo velo di una sfumatura, quando loro, i vegliardi, si
pongono placidi con occhi pieni di ricordi a raccontare frammenti
di vita ormai accatastati in una stanza, che, ora che la stessa vita
glielo permette, più sovente possono scendere a visitare. Varcare
quella soglia soli e silenziosi girando l’interruttore per illuminare
tra la polvere sparsa i loro ricordi. Quelli più preziosi, ancora
lucidi e scintillanti quasi fossero fatti di metalli nobili o cimeli
di una prestigiosa collezione che molto spesso viene ammirata
e lucidata con cura; gli altri, quelli meno amati o solo meno vivi,
lasciati più in disparte, fuori dal colpo d’occhio che si può gettare
appena varcata la soglia della stanza e già un po’ meno lucidi.
Fino poi a scovare con lo sguardo attento della memoria quelli più
impolverati, lasciati lì, in un cantuccio della stanza, semicoperti
dai primi.
Ebbene, dicevo, molto spesso mi soffermo a chiacchierare con
loro, i saggi vecchi. Ma certo non immaginavo che, recandomi
nella vicina cittadella di Sarzana per sbrigare alcuni affari, potessi
scorgere, lungo la strada che vi conduce, una vecchierella, che, a
guisa di spigliata teen-ager, mi domandò un passaggio in auto; o
meglio, in gergo, faceva l’autostop.
Per la verità, il suo gesto era molto differente dal solito pugno
chiuso con il pollice rivolto verso l’esterno. Ella, infatti, alzò la
mano blanda, con lo stesso gesto che si usa per indicare la fermata
dell’autobus. Io, superato il primo momento di perplessità, anche
perché sospettoso che la nonna potesse avere urgente bisogno di
risolvere qualche problema, mi fermai e la invitai a salire.
Portava con sé una larga borsa, dalla quale fuoriuscivano tre grosse
forme di pane ed aveva la testa fasciata in un fazzoletto, come
era sovente vedere qualche anno fa e forse ancora oggi, magari
solamente in qualche paesino di campagna. Sul viso, segnato e
cosparso di rughe, spiccavano due piccoli occhi azzurri.
Mal adagiata sul sedile anteriore della macchina a causa del
fastidioso ingombro che le procurava la borsa, la guardai: mi
ispirava un senso di simpatia misto al naturale rispetto che le
dovevo, data la sua veneranda età.
Settantotto anni, mi aveva detto, e, tralasciando i solchi che il
tempo le aveva inevitabilmente segnato sul volto e sulle mani, le si
sarebbe dato sicuramente qualche anno in meno; se non altro per
la prontezza del suo parlare o per la gioviale vivacità che scaturiva
dai suoi modi. Io ascoltavo attento, cercando di capire il succo
di quella preziosa esperienza.
Poi, come quasi sempre succede, si scese dagli argomenti di carattere generale a quelli più personali.
Pur senza volermi compassionare delle sue disgrazie, mi confidò
che aveva una figlia invalida operata l’anno prima per un tumore
alla mammella e un marito vecchio e logoro che, contrariamente a
quanto era successo a lei, la spietata malattia dei molti anni aveva
reso incapace di badare a se stesso.
Lei era rimasta l’unico pilastro su cui poteva far conto la
disgraziata famiglia. Ma non si lamentava di ciò, anzi diceva che la
vita le aveva insegnato a non lagnarsi per tutto il male che poteva
capitare. L’unico rimedio era rimboccarsi le maniche come sempre
aveva fatto quando il dovere di moglie, e ancor più l’amore di
madre, l’aveva costretta a lavorare duramente nelle cave di marmo
di Carrara per poche lire al giorno. Spesso si era ritrovata a girare
nelle grandi città, lei, umile paesana, nativa di un piccolo borgo in
provincia di Carrara. Si capiva dalla serenità della sua espressione
che, lungi da ogni tentazione di farsi commiserare, era veramente
convinta di ciò che diceva e le sue parole erano vergini di qualsiasi
retorica, come invece potrebbe non apparire dal mio racconto.
Poi, come spesso succede tra tanto parlare, un silenzio si insediò
nell’abitacolo dell’auto e le nostre menti si proiettarono a pensare
indipendenti. Arrivati a Sarzana, ci salutammo cordialmente
ed ella mi ringraziò con la solita semplicità che aveva mostrato
durante tutto il nostro breve incontro.
Ora, io mi domando e dico, chi, ascoltando quell’anziana
signora ormai alla fine della vita, non sarebbe rimasto colpito
dalla sua forza, non le avrebbe invidiato la sua tenacia, così come
ora io le invidio? E se per ciò m’è parso giusto raccontare questo
episodio, quella vecchierella, che io probabilmente non rivedrò
più, rimarrà nella mia memoria con la stessa intensità di un ricordo
prezioso, lucido e scintillante e, quando sarò più in là con gli anni,
scenderò spesso nella stanza a visitarlo come cimelio della mia
preziosa collezione.


Marco Raiti

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