Scrivere per le formiche
Poi si fa fessura dalla quale
sa spiarci oltre la porta,
scrivere la luce che ci piace.
Un graffito rituale è il mio respiro,
insetto a caccia nella pietra.
E in fila sugli alberi tronchi
mi sgrano, mi sveno, e ci provo.
In cumuli di sabbia mi rapprendo.
Ma subito prevale la compattezza
della terra, il dovere di sostare.
Si ricompone la roccia, e la polvere
si lascia faro bugiardo alla fame,
compagno ai passi delle formiche
che raccolgono, che mi raccolgono
fino al prossimo tremare
d’un senso nel cuore del vuoto,
nel bisogno ancestrale della tana.
Scrivere, o del mondo accarezzare aperta
la frattura, cancellarsi l’ombra, il profilo
e poi correre non visti, tra le zolle.
L’assurdo non è l’ondularsi
al ripensare della mano,
né sorpresa sono le briciole
troppo pesanti, e il sole contro.
È folle seminare e darsi in pasto
se la neve col suo aratro ti ricopre.
Ma c’è ancora sale, c’è ancora
chi d’inverno si ciba di parole.
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