Pubblicato il 06/01/2025 13:59:15
Quando la normalità era ancora normale
Mi chiedo, a volte, quando è che tutto è cambiato. Quando è che abbiamo iniziato a vivere in un mondo dove ogni parola, ogni gesto, ogni pensiero sembra dover essere ponderato come se fossimo sotto un continuo esame di coscienza. Un mondo in cui il politicamente corretto è diventato il nostro più grande giudice, la nostra censura moderna, l'ombra che ci segue ovunque, dicendoci cosa possiamo dire, come possiamo pensare, chi possiamo essere.
Un tempo, il mondo non era così. C’erano due generi,e non c'era bisogno di giustificare ogni singolo comportamento o parola. La realtà era semplice. Era chiara. Non c’era il bisogno di etichettare ogni cosa con una definizione che dovesse essere approvata da un algoritmo invisibile, un'entità astratta che decideva cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. La gente viveva senza paura di essere accusata di sbagliare, di essere intollerante o di essere retrogrado solo per aver espresso una semplice opinione. Non era necessario fare i conti con una società che, ogni giorno, si inventava nuove categorie, nuove identità, nuove battaglie per definire cosa fosse giustoe cosa fosse sbagliato.
Penso a come guardavamo la televisione. Le serie TV non avevano bisogno di forzare una narrazione inclusiva a tutti i costi per sembrare avanzate. Non c’era bisogno di inserire una coppia gay o una storia femminista solo per non sembrare arretrati. Le storie erano raccontate per quello che erano: storie. E non per lanciare un messaggio morale, non per fare propaganda politica, ma per intrattenere, riflettere e, sì, anche sfidare, ma senza la preoccupazione di dover placare le sensibilità di ogni singola minoranza. Oggi, però, sembra che ogni parola, ogni espressione, ogni pensiero debba essere costantemente rivisitato e approvato. Se non rientri nella categoria giusta, se non parli nel modo giusto, sei etichettato come parte del problema. Non importa se sei semplicemente un cittadino che cerca di esprimere una visione del mondo che ha sempre avuto. Oggi, se non sei d’accordo con la visione dominante della diversità e dell'inclusività diventi automaticamente un nemico. Eppure, ci dicono che siamo noi quelli arretrati.Quelli che sono rimasti indietro. Quelli che non hanno capito.
Eppure, non posso fare a meno di pensare che, in quella semplicità, in quella chiarezza, ci fosse una bellezza che oggi stiamo perdendo. Perché, facciamoci una domanda: cosa significa essere inclusivi quando questo implica sacrificare la normalità? Che valore ha una società se ogni suo passo deve essere giustificato da una regola imposta dall'alto, se ogni singola parola è una potenziale offesa? Non stiamo forse perdendo la capacità di *pensare liberamente*, di esprimere opinioni senza paura di essere inghiottiti da una cultura del silenzio,che premia la conformità e punisce chi osa alzare la voce?
A volte, mi sembra che la vera libertà non sia quella di poter dire qualsiasi cosa, ma di poter dire quello che si pensa senza paura di essere travolti da un'ondata di moralismo. E allora mi chiedo: quando è che abbiamo deciso di rinunciare a tutto questo?Quando abbiamo deciso di farci schiacciare da una marea di etichette e di definizioni che non solo non ci rappresentano, ma che ci impediscono di essere semplicemente chi siamo?
Sì, forse i tempi passati non erano perfetti. Certo, c’erano problemi, ingiustizie, sfide. Ma almeno c’era una normalità. Una normalità che oggi, in nome di un progresso senza fine, stiamo perdendo. Forse, il vero progresso non è nella moltiplicazione delle categorie, ma nel recupero di quella semplicità che ci faceva sentire più vicini, più umani, più autentici. Non è un ritorno al passato, ma un ritorno a noi stessi.
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