Introduzione di Giuliano Brenna a Salon Proust
Per lo scrittore lo stile, come il colore per il pittore, non è un problema di tecnica ma di visione
(Da Il Tempo ritrovato, trad. G. Raboni, Mondadori)
Honoré Daumier, caricatura del Salon de Paris
I Salons, furono delle esposizioni, soprattutto pittoriche, che si svolsero a Parigi con cadenza regolare, o meglio, come ci illustra con concisa precisione l’enciclopedia Treccani: “Esposizioni periodiche parigine di pittori contemporanei, in uso dalla seconda metà del 18° secolo. Soprattutto nel 19° sec., rappresentarono la tendenza accademica. Per la storia della pittura moderna sono importanti alcuni S. organizzati in polemica con i S. ufficiali e divenuti, in qualche caso, istituzioni stabili. Tra essi si ricordano il S. des refusés (dal 1863), che accoglieva i rifiutati dai S. ufficiali; il S. des indépendants, fondato nel 1884 da artisti d’avanguardia e aperto a tutti coloro che volessero esporre; il S. d’automne, fondato nel 1903 con l’intento di dare risalto a manifestazioni artistiche d’avanguardia riconosciute, che organizzò importanti retrospettive. Da ricordare inoltre il S. des surindépendants, fondato (1934) da L. Garcin e C. Bryen, il S. des réalités nouvelles, inaugurato nel 1939 ma avviato con regolarità nel 1946 da F. Sidès, il S. de mai (1945)”.
Possiamo immaginare che Proust, grande ammiratore della pittura contemporanea, sia stato un assiduo frequentatore di tali esposizioni, dalle quali poi filtrava e distillava le descrizioni, più o meno celate tra le righe della Recherche, di opere che l’avevano colpito. In particolare, dai pittori suoi contemporanei creò il personaggio di Elstir. Questo pittore, dapprima sconosciuto e dileggiato nel salotto dei Verdurin con appellativi non del tutto lusinghieri, quali Tiche o Biche, acquista uno spessore ed una fama sempre maggiori nel corso della narrazione. Se i suoi quadri sono appesi in un salotto poco frequentato nella residenza della duchessa di Guermantes è perché per amor dell’arte, che oggi chiameremmo trasgressiva, unito ad un indiscutibile valore, Oriane sa che non può farseli mancare, è anche vero che, comunque, il perbenismo imperante e il doversi/volersi adeguare al gusto ufficiale non le permette di tenerli esposti come meriterebbero. Nello scorrere delle pagine apprendiamo che Elstir ha dapprima uno stile che ricorda Whistler (ed è forse un omaggio al pittore amato da Montesquiou/Charlus) ma via via diventa un grande pittore di marine in cui però nulla sembra essere al suo posto, ricordando così Monet, soprattutto, e per certi versi Chardin o Manet. Nel corso della celeberrima visita del Narratore all’atelier di Elstir, durante la vacanza a Balbec, assistiamo ad una sorta di inventario di quadri impressionisti, ma anche (volendo tirare il narratore per la manica) ad una sorta di Salon, in cui la voce narrante ci racconta le tele esposte.
Se Elstir rappresenta il pittore proustiano per antonomasia, poiché il suo personaggio è creato fondendo tanti pittori, tuttavia non mancano, nella Recherche, rimandi ad altri artisti, resi perfettamente visibili, non celati sotto il tipico artificio proustiano del fondere varie persone per creare un personaggio tutto nuovo, ma perfettamente reali e talvolta riconoscibili. Ciò per rendere omaggio a chi, Proust, aveva modo di ammirare nella sua vita reale. Sappiamo dell’amore fortissimo per Vermeer; Bergotte muore dopo aver visitato una mostra per poter ammirare quella “Veduta di Delft” che fu il quadro più caro a Proust. Quindi il quadro come apoteosi di una esistenza, l’immagine che si fa capolinea dell’esistenza di parole. Ed in effetti la scrittura proustiana è assolutamente pittorica, spesso le frasi hanno autentici colori, spessori di pennellate, chiaroscuri ed evanescenze, soprattutto impressioniste, ma anche nitori fiamminghi e angolosità inaspettate che si potrebbero ricondurre ad un pre-cubismo letterario che forse rimase solo in fasce. La Recherche, insomma, un grandioso Salon, in cui Proust esponeva, in primis, i suoi quadri, fatti di parole, ma condivideva quell’immenso spazio che andava creando con altri pittori, contemporanei e non. Ad esempio, di Rembrandt scrisse “Quando osserviamo un quadro di Rembrandt, vi vediamo una vecchia che taglia le unghie d’una giovine donna, una collana di perle che brilla oscuramente su una pelliccia, dei tappeti rossi o delle stoffe rossastre d’indiana…”. Una descrizione che rimanda anche a certi interni proustiani, pensiamo al salotto di Odette, circonfuso di lucori rossastri delle lampade giapponesi, ed ingombro di ninnoli e tessuti buttati qua e là con apparente noncuranza dalla padrona di casa, ma perfettamente ordinati dalla penna proustiana per creare il giusto effetto di un interno fiammingo. E parlando di Moreau esce dalla penna proustiana una descrizione di alcune pagine della Recherche medesima “Un quadro è una specie di apparizione d’un cantuccio misterioso, di cui conosciamo alcuni altri frammenti, che sono i quadri dello stesso artista. Ci troviamo in un salotto, stiamo chiacchierando, alziamo d’improvviso gli occhi e scorgiamo un quadro che non conoscevamo e che abbiamo tuttavia già riconosciuto, come il ricordo di una vita anteriore”.
Molti di questi pittori erano già stati celebrati in Ritratti di pittori (e musicisti) generalmente raccolti fra le sue poesie. Per finire il breve excursus sui Salons proustiani non mi pare del tutto peregrina l’idea di accostare il giovanile Les plaisirs et les jours ad un precoce Salon: molti dei brevi racconti sono come acquarelli o piccole tele; realizzati con mano mirabile ed assoluta maestria, immortalano momenti o sensazioni che, in massima parte, confluiranno poi in quell’immenso affresco che diventerà la Recherche. Ma queste splendide miniature vennero considerate alla stregua degli acquarelli di M.me Villeparisis/Madeleine Lemaire, che tra l’altro illustrò la prima edizione dei Plaisirs, ovvero degli esercizi fini a loro stessi, un passatempo simpatico e un po’ snob di un giovane mondano, ma sterile e fine a se stesso. E non rimarcherò un’altra volta il fatto che questi avventati critici, col solo dono della superficialità, si sbagliarono in modo madornale. Mi viene da pensare che tutti i monocoli che ondeggiano sui petti elegantemente abbigliati dei personaggi della Recherche stiano proprio ad indicare la miopia dei contemporanei del giovane e salottiero Marcel, che molto difficilmente scorsero in lui la stoffa del genio.
Dunque Proust frequentatore dei Salons e creatore egli stesso di un grande Salon in continuo movimento ed espansione, grande quanto sono le interpretazioni cui si prestano le pagine della Recherche. Ma anche critico d’arte e appassionato descrittore di opere d’arte. Quale miglior regalo, quindi, per il suo compleanno, di un Salon creato appositamente per lui. In cui ciascuno degli artisti che vi espone gli rende un duplice omaggio. Il primo rappresentato dal ricordo e dalle sensazioni che ognuno trae dalla lettura dell’opera proustiana, dimostrando l’eterna attualità dell’opera e la sua grande capacità di alimentare ancora oggi nuove scritture e nuove opere d’arte, quasi fosse in grado di rilasciare a ciascuno l’enorme mole di informazioni che Proust riusciva a immagazzinare nella sua mente (tutti ricordano la sua memoria prodigiosa, soprattutto Céleste). Proust come linfa per le nuove leve, albero secolare su cui fioriscono continuamente nuove gemme, foglie e fiori. Ed il secondo dono che facciamo a Proust, è quello di un Salon tutto per lui, che egli potrà visitare con comodo, dopo il crepuscolo, senza incontrare troppa folla, senza esporsi a malanni e pollini letali, per ammirare quanto la sua opera, a distanza di anni, ancora alimenta, e sorridere sornione per la gioia del dono che da ciascun espositore riceverà.
La grandezza dell’arte vera sta nel farci ritrovare quella realtà da cui viviamo separati e da cui ci allontaniamo sempre di più a misura che la conoscenza convenzionale che le sostituiamo acquista in spessore e impenetrabilità – questa realtà è la vita stessa e rischieremmo di morire senza averla conosciuta.
(Da Il Tempo ritrovato, trad. G. Raboni, Mondadori)
G. B.