(testo rumeno e italiano)
Come una buona parte degli autori romeni contemporanei che ha amato, studiato e tradotto in italiano, Geo Vasile, cibandosi così della miglior produzione poetica del suo Paese, ci offre una poesia colta, piena di riferimenti espliciti o impliciti, di citazioni più o meno nascoste, di riscritture. Tanti i nomi nel testo, già a partire dalla Nota dell’autore, in apertura: oltre ai francesi, e al simbolismo con Verlaine, sono soprattutto autori italiani a ricorrere, da Pietro Aretino a Dante Alighieri a Mario Luzi a Luigi Pirandello a Dino Campana. E qualcosa di visionario, di onirico, e nello stesso tempo legato a irruzioni della quotidianità, ha, nel proprio sviluppo pluriennale (Vasile raccoglie il proprio percorso poetico dagli anni giovanili alla maturità), questa poesia.
Un onirismo “a grado zero”, questo, al quale si potrebbe applicare ciò che il Vasile critico ha scritto per l’amato Virgil Mazilescu (l’unico nome romeno esplicitamente fatto in uno dei testi, unito a quello della dantesca Beatrice): Mazilescu, in opposizione al dettato automatico, si “proponeva non di trascrivere sogni, bensì di crearli alla luce del giorno, di istituire una realtà analoga al sogno”. Per questo, si possono risentire anche le influenze di una “ragione magica” o di un “irrazionale sorvegliato”, tra Swedenborg e Dalì, come in Gellu Naum; o il “delirio sorvegliato” alla Buñuel di un Gellu Dorian (per rubare di nuovo cifre interpretative al Vasile critico): senza dubbio, siamo qui sopraffatti dalla “moltitudine caotica / delle immagini” (p. 13). Va poi ricordato quel movimento tra simbolismo e quotidianità di un George Bacovia (la storia e il tempo sono presenti nella poesia di Vasile in quanto entità sovrastanti la vita umana: ma c’è anche il concreto riferimento storico-politico al “dittatore”). C’è poi qualcosa anche di certa poesia americana: viene fatto di pensare alle poesie giovanili di Faulkner, autore qui nominato esplicitamente (p. 21).
Un onirismo, per tornare a tale questione, che, psicoanaliticamente, si serve a profusione del mito greco (ma anche di quello cristiano: bellissimo il componimento hölderliniano a p. 39), insieme a un erotismo, frequentemente a “fusione fredda”. Già nel viatico rappresentato dal primo testo (a p. 11), i lemmi seni/segni/sogni si susseguono, anche se il primo e il secondo divisi da più versi, e il secondo e il terzo, pur cuciti nella stessa espressione, allo stesso tempo disgiunti dall’enjambement: “urne dei seni” (v. 3); “i segni / dei sogni” (vv. 8-9). Molto insistito il lavoro sull’impasto linguistico, in un poesia che diventa pluriliguistica all’interno degli stessi testi in italiano (vera riscrittura più che auto-traduzione), tra latino e francese, oltre che per il gioco con il testo romeno a fronte. Nella versione romena di questo primo componimento, il gioco tra i segni delle parole e il mondo dei sogni (ma i sogni sono i segni del linguaggio onirico) ci è dato, giusto al centro del testo – con parole collocate rispettivamente al centro dei propri versi (vv. 9-10) – in questo modo: semnele/somnului (in italiano, vedi ancora, a p. 19, vizi/vezzi). Si scava, già nel testo iniziale, nella mistura del linguaggio, alla ricerca di termini meno consueti, con uno straniamento che richiede, secondo il monito di un Valéry, maggiore impegno al lettore, che non si distragga sul falso piano di una lingua sciatta: così, il ricorso al termine alchemico “nigredo” (nerezza, ovvero opera al nero nella quale la materia si dissolve, putrefacendosi), che trova una rima in “credo”, quasi all’inizio del verso successivo, e nel suo contrario “albedo” (opera al bianco, durante la quale la sostanza si purifica, sublimandosi), in fine di componimento.
Alchemica è questa poesia, che muove dalla “provincia universale” (romena), con “migranti parole” (p. 43), che, nella montaliana postazione della più volte evocata della “casa dei doganieri”, si muove al confine tra vita e morte, luce e buio: è vero, “il poeta è attratto dal buio” (p. 61), ma con la “luciferica” tentazione di portarvi luce. Il qui e l’altrove vanno allora congiunti, ricucendo, in “caparbie righe” (p. 11), i “filamenti sconnessi” (p. 71) del linguaggio: tra le “rivoltose parole” e “il sudario del silenzio” (p. 47). Questo il viaggio di Orfeo ritentato da Geo Vasile.
Pâine şi Vin
citim în elegia Pâine şi Vin:
“...şi la ce mai sunt buni poeţii în vremuri sărace?”
părăsită fiind lumea de Zeu,
asfinţitul acestor vremuri
vesteşte deja noaptea,
acum niciun zeu nu mai uneşte în jurul lui
oamenii şi lucrurile,
însăşi urma sacrului
pare să fi dispărut,
ameninţarea abisului bate la uşă,
în aceste vremuri sărace doar poeţii
aduc în dar
prin cântecul lor mireasma zeilor dispăruţi,
ei rostesc sacrul, împreunează poezia
cu propria ei esenţă,
răspândesc deasupra
casei muritorilor de rând
cântecul plinătăţii timpului,
poetul este ogarul urmelor sacrului
aşa grăit-a Hölderlin
Pane e Vino
leggiamo nell’elegia Pane e Vino:
«...e a che servono i poeti in tempi impoveriti?»
abbandonato il mondo dal Dio,
il tramonto volge
verso l’universa notte
adesso nessun dio riunisce intorno a lui
le genti e le cose
la traccia stessa del sacro
sembra fosse svanita,
la non-salvezza già bussa alla porta
fortunatamente solo i poeti
ci portano in regalo
attraverso il loro canto la fragranza
degli dei scomparsi,
proferiscono il sacro, innestano nella poesia
l’essenza della poesia,
spandono sopra la dimora
dei comuni mortali
il canto della pienezza del tempo:
il poeta è il veltro delle orme del sacro,
parola di Hölderlin