Ho chiamato l’ascensore nel vano
di una tromba che stanca con la solita scala
ripetuta a più non posso - quasi
un sagrato per lo spirito coll’uso.
E che fare, sennò? Chiamo l’assente
e viene
stridente sulle sue costole nude, brunite
e ritte che sfilano piano piano verticali.
Una sorta di carattere di ferro
per resistere agli sballottamenti
in umore di passaggio. Su e giù
come in una giostra con i seduti legati
a catene in un vorticoso procedere:
la depressione è centrifuga solo distratta.
Basta il tasto giusto, suppongo: dovrebbe
riportare alla serenità dell’ultimo “sei tu?”
No, ora sono 'altro' - un numero
interno per il prossimo che scalo - scemato
dalla pedana che pesa le persone
e spegne la luce a cuor leggero.
Come in amore chi esce dal bacio
lascia in sordina per dire che non sente.
L’ascensore è più ospitale del ricordo
che si fa strada nelle sue corde.
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