Sono già dentro il pullman, quando tu infili le braccia tra le porte semi chiuse
‹Dai prendi la borsa›
‹Per me puoi buttare via tutto›
‹Quando realizzerà che te ne sei andata, la faina sverrà›
‹Fantastico, mandami una foto›.
Mi giro senza salutarti, Susy. Vederti con le braccia tese, con il borsone da cui spunta un nastro di raso rosa, potrebbe farmi cambiare idea. Mi sbrigo a prendere posto, appena si accende il motore del pullman, poggio la testa e chiudo gli occhi. Pochi attimi e sono di nuovo lì.
Arriva dalle scale sulla pelle e nel naso. Un odore di cuoio e polvere di pece, umido di sudore. Una galleria di danzatori mi accompagna lungo la scala di marmo: Nureyev con la Fracci, Margot Fontaine, la Plisetskaja con un fascio di rose gialle in trionfo.
La porta è socchiusa. Dicono sia questo il punto esatto in cui alcuni si fermano solo un istante a prendere fiato, mentre altri tornano sui propri passi rinviando di una sessione.
Una targa recita: “Teatro dell’Opera di Roma”.
Ingoio la saliva, stringo più forte le dita intorno alla cinta della borsa, entro.
Arriva la segretaria. Gonna nera e camicia grigio perla, labbra sottili disegnate con la matita e sopracciglia tatuate. Senza dire nulla, si avvicina e mi attacca sul petto un numero: “n.8”. Mentre si china su di me sento pigmenti di cipria profumata entrare nelle narici.
Inizio a spogliarmi, mi guardo allo specchio, devo perdere più peso, riuscire a scendere sotto i 47. Bagno i piedi con l’alcool, li asciugo oscillando le gambe seduta sulla panca; i cerotti sulle curve delle dita, le calze, il salvapunta in lattice. Le scarpe da punta sono già pronte. La soletta staccata, ammorbidita, riattaccata. Le infilo intrecciando i lacci di raso: dietro, avanti e ancora dietro. Troppo stretti.
Slego tutto e ricomincio, maledetti lacci.
Dal corridoio arriva: ‹Dieci minuti e in sala!›
La porta è aperta, brusio di voci e note di pianoforte dall’interno. La sala è percorsa su tre lati dalla sbarra di legno, agganciata al muro da perni di acciaio. Alte finestre affacciano sul cortile interno, dove una palma soffoca tra due siepi.
Cammino sul parquet intriso di pece, mentre la paura si incastra tra le luci al neon, in mezzo a pareti come tele vergini, che aspettano un capolavoro.
Lo sguardo va a un paio di scarpe da punta dietro il pianoforte. Quella di sopra, spezzata, ciondola sull’altra accanto a batuffoli di cotone, intriso di sangue rappreso.
Una ragazza dalle gambe di fenicottero mi fissa il collo del piede, le sorrido, ma lei si volta. In silenzio inizia la fila per la pece. Diagonali ordinate di danzatori avanzano verso le cassette di legno. Al mio turno la ragazza fenicottero mi passa avanti infilando il piede quasi sopra il mio.
Arriva la commissione, sono in tre. Due membri esterni, e lei. Non si separa mai dalla bacchetta di legno che usa per segnare gli otto tempi, dicono avverta un errore anche di spalle, dal fruscio dei piedi: la direttrice. Faina è il nome che le abbiamo dato per via del viso appuntito e degli occhietti scaltri; come una faina si apposta in luoghi inaspettati per braccare la preda, nessuno ne conosce l’età.
Dopo un colpo di tosse, ci passa in rassegna, prima di fissare lo sguardo in un punto indefinito della parete.
‹Salve a tutti. Oggi abbiamo l’onore di avere tra noi Anton Ramaikov etoile del Bolshoi, e Giulia Ferri che come tutti saprete, ha svolto in questa scuola la sua formazione artistica›.
I due alzano appena il mento. Lei stringe le labbra in un sorriso stitico.
Il russo ha la faccia da bastardo. Lo vedo picchiettare le dita sul tavolo mentre osserva l’orologio. Probabilmente ha il fidanzato che lo aspetta a un vernissage.
La direttrice continua
‹La prova dura due ore. E’ vietato fare uso di bevande e caramelle. Il primo cellulare a vibrare, porterà nello spogliatoio il rispettivo proprietario. Adesso andate a pesarvi, la segretaria annoterà pesò ed altezza sulla vostra scheda›.
‹Quarantasette› scandisce con voce acuta la donna.
Alcune ragazze mi guardano. Sento i loro occhi sui glutei e sulle cosce.
Poi annota il numero e mi fa cenno di procedere.
E’ il momento dell’esibizione: piquet in diagonale e fouetè, il mio cavallo di battaglia; sistemo una forcina e respiro.
Sette, otto. Braccio sinistro, gamba tesa, colpo di testa, via.
La serie di 32 pirouette sta finendo nel migliore dei modi, un paio di giri ed è fatta, non poteva andare meglio di così.
Mentre una goccia di sudore scivola dietro l’orecchio, al penultimo giro la punta del piede destro si inceppa su qualcosa, il laccio si è scucito mentre la caviglia fa un suono di cimice schiacciata. Guardo con orrore il laccio rotolare sul parquet e spero in una pausa.
‹Tutti fuori. Quindici minuti›
Filo via come pioggia tra i tergicristalli.
‹Ago e filo! Qualcuno può prestarmi ago e filo?› Urlo tornando allo spogliatoio ancora vuoto. Corro in segreteria, ma la porta è chiusa a chiave
‹Per cortesia qualcuno ha almeno una spilla?›
-Tre minuti e in sala, tuona l’altoparlante.
‹Me le porto dietro per i casi disperati, sbrigati›.
La ragazza fenicottero è accanto a me, con un paio di scarpe da punta tra le mani che sembrano proprio del mio numero.
Siamo passati in quattro, noi due, e due ragazzi francesi. Corso professionale di formazione, durata: 8 anni, il più ambito.
Da qualche mese ho iniziato a soffrire di attacchi di ansia. Durante le prove, le vertigini mi si incollano alla pelle come una muta di ghiaccio, allora corro a bere l’acqua, già diluita con lo xanax poggiata dietro la sbarra. La tachicardia mi sveglia di notte con una cinghiata al petto. Tra una lezione e l’altra guardo sui social le altre “fuori”: tagliano i capelli, pattinano, prendono il sole. Qua invece più giri, più salti, più magre. Più.
Ieri c’è stata la prova generale, non stavo nella pelle dalla felicità di avere il ruolo della matrigna. Forse per questo ero distratta e ho infilato le punte, senza guardarci dentro. E’ una cosa che faccio sempre, quella di guardare il fondo delle punte, come prima di bere una medicina. Il dolore è arrivato dalle dita, dritto al cervello. Il sangue ha imbrattato le scarpe nuove, da usare solo per la prova generale, e minuscoli frammenti di vetro brillavano nella pelle delle dita. In infermeria ci hanno messo più di un’ora a sistemare la cosa con le pinzette delle ciglia, e l’alcool che bruciava molto meno della mia rabbia.
Appena arrivo al mare li taglio anche io i capelli e ti mando una foto, Susy fenicottero.
C’eri sempre tu dietro alle quinte a tenermi la mano prima dell’entrata in scena, a trovarmi la mela nello zaino incasinato, a fare progetti irrealizzabili nei pomeriggi di sole.
Chissà adesso a chi andrà la parte della matrigna in Cenerentola, mi piacerebbe vedere la faina nel momento in cui leggerà del mio ritiro a due giorni dal debutto. Probabilmente in quel momento sarò al sole a mangiare un croissant alla crema.
Con la testa schiacciata sul sedile, ascolto musica a caso senza doverne contare le battute. Tutto si allontana con un rumore bellissimo:
Le schegge di vetro nelle scarpe da punta alla prova generale, Le frasi ripetute ad ogni nuova arrivata: ‹Rughetta si, lattuga no troppe fibre/ Cinque minuti in bocca e cinque mesi sul sedere/ Non puoi prendere il sole, se balliamo le Silfidi, l’hai mai visto uno spettro abbronzato?›
Ho paura che il controllore mi rintracci mandandomi indietro.
La donna accanto a me ha una grande borsa arancione sulle ginocchia. Sorride e domanda se vado a raggiungere gli amici al mare. Sorrido anche io e faccio cenno di si, consapevole che nessuno mi aspetta.
‹Ti va un cioccolatino?› La donna tira fuori dalla borsa un Bacio Perugina lucente, che assaggio per la prima volta.
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