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Raccolta di poesie di cristina capograssi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Luoghi del cuore

La stazione di Santa Marinella mi accoglie deserta nel sole ingombrante di agosto.

Percorro un centinaio di metri tra le vie strette e le vecchie case con gli asciugamani colorati sui fili, poi la villetta bianca con il cancello aragosta arrugginito ai bordi si apre alla vista.

Il salice indolente che minaccia di morire ogni anno, è ancora qui.

La faccia seria di mia nonna sporge dalla stanza preparata di fresco. Mi stendo sulle lenzuola azzurre, e l’odore aspro della muffa mi fa pensare alle cose abbandonate, a mio padre che dimenticherà un altro compleanno. Dalla terrazza il mare esplode in scintille d’argento.

 


Id: 71219 Data: 13/06/2024 10:26:13

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L’ultima notte d’amore

L’ho chiamato tra me e me. E poi a voce alta, Lorenzo. Durante tutta la notte non mi ha abbracciato, non si è mai girato dalla mia parte. Ha aperto gli occhi, ma guardava fuori dalla finestra. Si è alzato e ha chiuso le imposte, cancellando il cielo all’improvviso.

Lo champagne di San Valentino ancora chiuso, sopra il minibar. Mi rivesto e lui mi accompagna alla porta della stanza 303. Mentre percorro il corridoio dell’albergo mi striscia dietro un: ‹forse più avanti›.  In una stanza, bambini ascoltano cartoni animati dalla tv, ma non sono i miei figli, e nemmeno i suoi.


Id: 71218 Data: 13/06/2024 10:23:51

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Pelle di pece

Sono già dentro il pullman, quando tu infili le braccia tra le porte semi chiuse

‹Dai prendi la borsa›

‹Per me puoi buttare via tutto›

‹Quando realizzerà che te ne sei andata, la faina sverrà›

‹Fantastico, mandami una foto›.

Mi giro senza salutarti, Susy. Vederti con le braccia tese, con il borsone da cui spunta un nastro di raso rosa, potrebbe farmi cambiare idea. Mi sbrigo a prendere posto, appena si accende il motore del pullman, poggio la testa e chiudo gli occhi. Pochi attimi e sono di nuovo lì.

 

Arriva dalle scale sulla pelle e nel naso. Un odore di cuoio e polvere di pece, umido di sudore. Una galleria di danzatori mi accompagna lungo la scala di marmo: Nureyev con la Fracci, Margot Fontaine, la Plisetskaja con un fascio di rose gialle in trionfo.

La porta è socchiusa. Dicono sia questo il punto esatto in cui alcuni si fermano solo un istante a prendere fiato, mentre altri tornano sui propri passi rinviando di una sessione.

Una targa recita: “Teatro dell’Opera di Roma”.

Ingoio la saliva, stringo più forte le dita intorno alla cinta della borsa, entro.

Arriva la segretaria. Gonna nera e camicia grigio perla, labbra sottili disegnate con la matita e sopracciglia tatuate. Senza dire nulla, si avvicina e mi attacca sul petto un numero: “n.8”. Mentre si china su di me sento pigmenti di cipria profumata entrare nelle narici.

Inizio a spogliarmi, mi guardo allo specchio, devo perdere più peso, riuscire a scendere sotto i 47. Bagno i piedi con l’alcool, li asciugo oscillando le gambe seduta sulla panca; i cerotti sulle curve delle dita, le calze, il salvapunta in lattice. Le scarpe da punta sono già pronte. La soletta staccata, ammorbidita, riattaccata. Le infilo intrecciando i lacci di raso: dietro, avanti e ancora dietro. Troppo stretti.

Slego tutto e ricomincio, maledetti lacci.

Dal corridoio arriva: ‹Dieci minuti e in sala!›

La porta è aperta, brusio di voci e note di pianoforte dall’interno. La sala è percorsa su tre lati dalla sbarra di legno, agganciata al muro da perni di acciaio. Alte finestre affacciano sul cortile interno, dove una palma soffoca tra due siepi.

Cammino sul parquet intriso di pece, mentre la paura si incastra tra le luci al neon, in mezzo a pareti come tele vergini, che aspettano un capolavoro.

Lo sguardo va a un paio di scarpe da punta dietro il pianoforte. Quella di sopra, spezzata, ciondola sull’altra accanto a batuffoli di cotone, intriso di sangue rappreso.

Una ragazza dalle gambe di fenicottero mi fissa il collo del piede, le sorrido, ma lei si volta. In silenzio inizia la fila per la pece. Diagonali ordinate di danzatori avanzano verso le cassette di legno. Al mio turno la ragazza fenicottero mi passa avanti infilando il piede quasi sopra il mio.

Arriva la commissione, sono in tre. Due membri esterni, e lei. Non si separa mai dalla bacchetta di legno che usa per segnare gli otto tempi, dicono avverta un errore anche di spalle, dal fruscio dei piedi: la direttrice. Faina è il nome che le abbiamo dato per via del viso appuntito e degli occhietti scaltri; come una faina si apposta in luoghi inaspettati per braccare la preda, nessuno ne conosce l’età.

Dopo un colpo di tosse, ci passa in rassegna, prima di fissare lo sguardo in un punto indefinito della parete.

‹Salve a tutti. Oggi abbiamo l’onore di avere tra noi Anton Ramaikov etoile del Bolshoi, e Giulia Ferri che come tutti saprete, ha svolto in questa scuola la sua formazione artistica›.

I due alzano appena il mento. Lei stringe le labbra in un sorriso stitico.

Il russo ha la faccia da bastardo. Lo vedo picchiettare le dita sul tavolo mentre osserva l’orologio. Probabilmente ha il fidanzato che lo aspetta a un vernissage.

La direttrice continua

‹La prova dura due ore. E’ vietato fare uso di bevande e caramelle. Il primo cellulare a vibrare, porterà nello spogliatoio il rispettivo proprietario. Adesso andate a pesarvi, la segretaria annoterà pesò ed altezza sulla vostra scheda›.

‹Quarantasette› scandisce con voce acuta la donna.

Alcune ragazze mi guardano. Sento i loro occhi sui glutei e sulle cosce.

Poi annota il numero e mi fa cenno di procedere.

 E’ il momento dell’esibizione: piquet in diagonale e fouetè, il mio cavallo di battaglia; sistemo una forcina e respiro.

Sette, otto. Braccio sinistro, gamba tesa, colpo di testa, via.

La serie di 32 pirouette sta finendo nel migliore dei modi, un paio di giri ed è fatta, non poteva andare meglio di così.

Mentre una goccia di sudore scivola dietro l’orecchio, al penultimo giro la punta del piede destro si inceppa su qualcosa, il laccio si è scucito mentre la caviglia fa un suono di cimice schiacciata. Guardo con orrore il laccio rotolare sul parquet e spero in una pausa.

‹Tutti fuori. Quindici minuti›

 Filo via come pioggia tra i tergicristalli.

‹Ago e filo! Qualcuno può prestarmi ago e filo?› Urlo tornando allo spogliatoio ancora vuoto. Corro in segreteria, ma la porta è chiusa a chiave

‹Per cortesia qualcuno ha almeno una spilla?›

-Tre minuti e in sala, tuona l’altoparlante.

‹Me le porto dietro per i casi disperati, sbrigati›.

La ragazza fenicottero è accanto a me, con un paio di scarpe da punta tra le mani che sembrano proprio del mio numero.

Siamo passati in quattro, noi due, e due ragazzi francesi. Corso professionale di formazione, durata: 8 anni, il più ambito.

Da qualche mese ho iniziato a soffrire di attacchi di ansia. Durante le prove, le vertigini mi si incollano alla pelle come una muta di ghiaccio, allora corro a bere l’acqua, già diluita con lo xanax poggiata dietro la sbarra. La tachicardia mi sveglia di notte con una cinghiata al petto. Tra una lezione e l’altra guardo sui social le altre “fuori”: tagliano i capelli, pattinano, prendono il sole. Qua invece più giri, più salti, più magre. Più.

Ieri c’è stata la prova generale, non stavo nella pelle dalla felicità di avere il ruolo della matrigna. Forse per questo ero distratta e ho infilato le punte, senza guardarci dentro. E’ una cosa che faccio sempre, quella di guardare il fondo delle punte, come prima di bere una medicina. Il dolore è arrivato dalle dita, dritto al cervello. Il sangue ha imbrattato le scarpe nuove, da usare solo per la prova generale, e minuscoli frammenti di vetro brillavano nella pelle delle dita. In infermeria ci hanno messo più di un’ora a sistemare la cosa con le pinzette delle ciglia, e l’alcool che bruciava molto meno della mia rabbia.

Appena arrivo al mare li taglio anche io i capelli e ti mando una foto, Susy fenicottero.

C’eri sempre tu dietro alle quinte a tenermi la mano prima dell’entrata in scena, a trovarmi la mela nello zaino incasinato, a fare progetti irrealizzabili nei pomeriggi di sole.

Chissà adesso a chi andrà la parte della matrigna in Cenerentola, mi piacerebbe vedere la faina nel momento in cui leggerà del mio ritiro a due giorni dal debutto. Probabilmente in quel momento sarò al sole a mangiare un croissant alla crema.

 Con la testa schiacciata sul sedile, ascolto musica a caso senza doverne contare le battute. Tutto si allontana con un rumore bellissimo:

Le schegge di vetro nelle scarpe da punta alla prova generale, Le frasi ripetute ad ogni nuova arrivata: ‹Rughetta si, lattuga no troppe fibre/ Cinque minuti in bocca e cinque mesi sul sedere/ Non puoi prendere il sole, se balliamo le Silfidi, l’hai mai visto uno spettro abbronzato?› 

Ho paura che il controllore mi rintracci mandandomi indietro.

La donna accanto a me ha una grande borsa arancione sulle ginocchia. Sorride e domanda se vado a raggiungere gli amici al mare. Sorrido anche io e faccio cenno di si, consapevole che nessuno mi aspetta.

‹Ti va un cioccolatino?› La donna tira fuori dalla borsa un Bacio Perugina lucente, che assaggio per la prima volta.

 

 


Id: 71217 Data: 13/06/2024 10:11:22

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vi amo da sparire

Oggi lei si è messa lo smalto fucsia sulle unghie di mani e piedi. È in mutande, con la crema di Victoria Secret tra le mani. Si avvicina al mio armadio e con la scusa di mettere a posto mi fruga tra i cassetti. Odio quando lo fa, e infatti glielo dico.

«Mamma. Accanna. Dimmi cosa cerchi e scollati.»

La prima cosa che lei ha fatto, dopo essere uscita dal tribunale per la separazione e aver stabilito l’assegno di mantenimento, è stata prenotare l’intervento di mastoplastica additiva.

Si è comprata una quinta di seno manco facesse i film hard, e adesso compra magliette ridicole più piccole di due taglie; preferibilmente tempestate di strass colorati e cuori che si aprono tra le tette.

«Oddio Annetta sempre così cafona. Stavo solo cercando quel top nero che non metti mai, quello di Zara. Me lo presteresti per la lezione di pilates?»

Che poi vorrebbe dire: stasera mi scopo il nuovo tipo conosciuto in palestra e devo dimostrare 28 anni.

Mia madre è una milf arrapata.

Infilo le cuffiette e mi giro verso il muro.

 

Margherita è la mia psicoterapeuta.

Lei, la milfona, dice che ne ho bisogno perché non ho accettato la separazione con mio padre e sono in competizione con la sua 'nuova vita'. Dice che per attirare l’attenzione sono diventata anoressica. Insomma, ha già fatto la diagnosi.

«Come va oggi Anna?»

Mi accomodo nella poltrona arancione di velluto.

«Lei continua a mettersi i miei vestiti. Non faccio più salire in casa i miei amici, o quello che ne è rimasto. Non posso sopportare il loro sguardo fisso su quei cocomeri innaturali.»

«Hai lavorato sul cibo come avevamo detto?»

«Ci sto provando. Per il momento passo il tempo a tavola a tagliuzzare il cibo in pezzi minuscoli, e formo figure geometriche nel piatto.»

«Hai provato con gli integratori che ti avevo detto? Non fanno ingrassare, sono naturali, e rilassano le pareti dello stomaco per far passare meglio il cibo.»

«Tutta la scorsa settimana l’ho passata su un gruppo whattsapp in cui altre ragazze si davano consigli per vomitare e digiunare. Mi hanno accettata dopo avergli comunicato peso ed altezza. 160 cm per 45 kg. Dicono che devo migliorare, che il primo obiettivo è quello dei 42 kg, di aiutarmi con i lassativi, e che i crampi alla pancia sono gli ultimi segni di vita dei chili di troppo.»

«Pensi di uscire dal gruppo?»

 

Quando arrivo a casa mi sdraio sul tappetino, mi avvolgo la pancia nel domopak di nylon e faccio 300 addominali. Da sotto il letto comincia a sentirsi la puzza del cibo vomitato dopo pranzo e nascosto nel sacchetto del super. Devo ricordarmi di buttarlo.

In ogni caso ho deciso di andarmene.

Non l’ho detto a Margherita. Ieri ho sentito lei parlare al telefono con mio padre. Diceva che se le cose non cambiano sarà costretta a mettermi in una struttura, una specie di istituto dove fanno rieducazione alimentare. Litigavano per chi avrebbe dovuto sostenere le spese.

In pratica le ho dato la scusa perfetta per liberarsi di me. Potrà addirittura dire a tutti che lo ha fatto per il mio bene.

 

Stanotte andrò alla stazione dei pullman, direzione Milano. La sacca è già pronta sotto il letto, vicino al sacchetto del super. Devo ricordarmi di buttarlo.

All’arrivo mi verrà a prendere Jimmy. L’ho conosciuto su FB, chattiamo da un paio di mesi, l’ho pure visto in webcam. È figo, ha 20 anni, e dice che per qualche giorno potrà ospitarmi.

Mentre mi infilo la felpa, butto lo zaino sulle spalle, prendo la busta del super, mi giro verso il salone. Vedo noi tre che facciamo l’albero. Lei nella vestaglia azzurra e mio padre che le bacia i capelli. Lei ha qualche chilo di troppo, ma papà le dice che è bellissima baciandola sul collo, lei ride e piega la testa da un lato. Io tengo tra le braccia la scatola dei nastri colorati, non vedo l’ora di arrivare al puntale d’oro. Quello lo metto io mentre papà mi solleva dalla vita. A un certo punto, quando sto per mettere il puntale sull’albero lei lo accusa di portarsi a letto la nuova segretaria. Il puntale mi cade tra le mani.

 

Una notte mi ha svegliato la voce di un uomo che non era mio padre. Ho aperto la porta della mia stanza e l'ho vista tirarsi dietro un ragazzo dai capelli scuri; avrà avuto vent’anni di meno.

«Papà verrà a salutarti sabato. È dovuto partire per lavoro. Ti saluta e ti manda un bacio», mi disse lei quando mi vide, prima di entrare con il ragazzo in camera da letto.

 

Chiudo la porta, e mentre lo faccio mi prende una fitta all’addome. Penso che sia nostalgia di lei. Di quando mi salutava prima della scuola, della vita di prima.

Allora le scrivo un messaggio: ‘mamma, scusa per tutto’. Lo invio, ma mentre lo rileggo mi accorgo che il T9 lo ha trasformato in ‘mamma, paura per tutto’.

Ma in fondo è vero, chiedere scusa mi ha sempre fatto un po’ paura. E vado via, con il sacchetto del super in mano.

 

 

 

 


 


Id: 57466 Data: 17/03/2020 17:58:04