Non ricordo chi ero,
prima che fossi,
ancor prima che fossi chi sono,
ma ora che sono
e ho paura di non essere più,
d’improvviso
tutto di me mi manca.
Morendo a me stessa ogni giorno
sono chiamata alla ritualità
e richiamata dal sacro
a spargere le ceneri di qualcosa
che di me non è più,
e spasmodicamente scavo
dentro, fuori
è il delirio,
la nevrosi
non è consolante neppure la morte
dell'ultimo degli sposi
costretto alla croce
per la salvazione delle anime.
Ogni volta,
rannicchiata
nell'angolo del mio letto
mi sottraggo al dovere;
scegliere di lasciarmi andare
alla naturale perdizione di qualcosa,
No,
io non posso
lasciare che accada
e allora mi lego i capelli,
stretti nella morsa d’un elastico soffocante,
porto i pantaloni di mia madre
troppo stretti per i miei fianchi larghi
come a rimarcare l’appartenenza,
la provenienza
mentre d’estate mi sottraggo
al ristoro dalla vita
ballando la danza della morte
nelle maglie d’una giacca di velluto troppo larga
che tiene insieme le stagioni
violentando il tempo che passa.
Apro gli occhi a un nuovo giorno,
il bruciore è troppo
li richiudo,
cerco il compromesso
e nel socchiuderli
intravedo l'eterno: è luce tutt’intorno,
ch'io contengo con la stretta
i miei occhi chiedono venia
ed io,
nel riso arrogante
d’un Dio malvagio
m'arrogo l’onere, che diventa onore
mentre trattengo del giorno
l'essenza
privandolo della sua libertà
in un matrimonio combinato col buio
recinto dell'immenso spazio
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