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Raccolta di poesie di Ludovica Gabbiani
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Di due, la terza

Di due, la terza 

 

Libera mi voglio 

mentre mi struggo 

agitandomi nel loculo stretto 

di un angusto spazio che mi abita dentro 

e ch’io sempre 

ho chiamato casa. 

 

Libera mi penso 

mentre attonita 

mi guardo intorno 

incapace a godere di bellezza, 

imbrigliata nelle maglie d’una retorica 

che è oramai biografia:  

La vita mi spezza,  

la vita mi spezza 

La vita mi.. 

Ed io,  

avvezza 

all'alba della medietas 

che mi si affaccia 

dicendomi che non sonol’una, 

né l’altra 

delle due di una dicotomia 

che mi sono cucita addosso 

per eludere l’autonomia, 

ingannare la libertà. 

 

 

Le faccio Vis-à-vis 

la guardo negli occhi 

e non ci vedo niente: chi sono io,

se mi togli le spalle 

dietro cui mi nascondo da sempre, 

dal mondo 

sentendomi potente

a comandare il nulla, 

nient'altro che niente? 

 

Chi sono io, 

se mi togli il dolore, 

mio avido amico 

che mi ha mutilato il cuore 

 

Chi... 

chi sono io, 

senza di te? 

Occasione mancata 

ch'io sbircio da sempre, 

da sempre imbrigliata 

in tre o quattro cose 

marchi da fuoco 

due otre pose 

una statua perfetta 

Inetta, 

Inetta. 

 

Vis-à-vis con nient’altro che questo 

simulacri al vento,

da sempre in lotta 

con gli Anemoi furiosi 

che m’impediscono, 

irosi 

ogni tentativo di salvazione. 

 

Niente, 

nient’altro che diade 

logica serrata 

sillogismo ch’attende 

nevrosi latente, 

è chiaro lo schema 

eppure, 

imminente è la voragine 

che anela la vita. 

 

Scostumata,

voglio accettare la sfida: dei due punti 

la retta infinita.


Id: 71227 Data: 13/06/2024 15:40:50

*

paura del buio

Non ricordo chi ero, 

prima che fossi, 

ancor prima che fossi chi sono, 

ma ora che sono 

e ho paura di non essere più, 

d’improvviso

tutto di me mi manca. 

 

Morendo a me stessa ogni giorno 

sono chiamata alla ritualità 

e richiamata dal sacro 

a spargere le ceneri di qualcosa 

che di me non è più, 

e spasmodicamente scavo 

dentro, fuori 

è il delirio 

la nevrosi 

non è consolante neppure la morte 

dell'ultimo degli sposi

costretto alla croce

per la salvazione delle anime.

 

Ogni volta, 

rannicchiata 

nell'angolo del mio letto 

mi sottraggo al dovere; 

scegliere di lasciarmi andare 

alla naturale perdizione di qualcosa, 

No,  

io non posso 

lasciare che accada 

e allora mi lego i capelli 

stretti nella morsa d’un elastico soffocante,

porto pantaloni di mia madre 

troppo stretti per i miei fianchi larghi 

come a rimarcare l’appartenenza, 

la provenienza 

mentre d’estate mi sottraggo  

al ristoro dalla vita 

ballando la danza della morte 

nelle maglie d’una giacca di velluto troppo larga 

che tiene insieme le stagioni 

violentando il tempo che passa. 

 

Apro gli occhi a un nuovo giorno, 

il bruciore è troppo 

li richiudo 

cerco il compromesso 

e nel socchiuderli

intravedo l'eterno: è luce tutt’intorno, 

ch'io contengo con la stretta 

i miei occhi chiedono venia 

ed io,

nel riso arrogante

d’un Dio malvagio

m'arrogo l’onere, che diventa onore 

della trascendenza 

mentre trattengo del giorno 

l'essenza

privandolo della sua libertà 

in un matrimonio combinato col buio 

recinto dell'immenso spazio

che altrimenti andrebbe 

che sarebbe 

ma non deve,

perché se fosse, 

io poi 

chi sarei? 

 


Id: 70910 Data: 12/05/2024 17:16:17

*

Mit-sein, o sulla libertà

«Pensati libero!»
ma poi che vuol dire?

Avrebbe ugualmente valore
se fosse mio,
e solo mio,
questo sentire?

E sarebbe ancora poi così speciale
s'io spogliassi ogni memoria
di te,
dell'altro,
e di quello
dallo sfigurato volto,
ch'io neanche più ricordo
per il tempo ch'è passato.

Né nome
né cognome,
non ricordo com'è stato,
ma lui c'è
e tu ignori
mentre ancora mi comandi
indifferente al mio sentire,
che insiste,
incede,
mentre insidioso pretende di sapere: se lo sottraessi al mio sentire,
se quell'ombra si facesse vento,
avrebbe,
avrebbe ancora poi
valore?

«E cancella il tuo dolore»
mi dici,
«Recidi ovunque le radici!»

«Togli il cognome
dimentica il segno generazionale
né donna,
né figlia
sii solo qualcuno che a nessuno più somiglia.»

Ma io ho paura di te,
di questo tuo imperativo che cancella,
il dover dire addio a nonne e madri ch'io,
non ho mai conosciuto,
ma i cui umori custodisco in grembo
come se questo mio ventre
fosse quello dell'intero mondo;
e ancora,
per i padri nessun odio,
ma di ingiustizie
censure e sottrazioni,
cosa ne potrei fare
se non m'unissi al resto dei cognomi?

Agli altri,
alle memorie
a chi,
come me,
non ha paura di sentire.

Libera mi sento,
mentre ad uno col vento
trapasso alberi,
volti,
mandrie di stormi
e di genti,
e custodisco nel cuore
di tutti i venti l’essenza.

Ma ancora mi comandi di epurare
laddove è stato dolore,
perché ti pare crudele
che qualcuno possa fare ad un altro
tutto quanto è lontano dal semplice accadere
la vita,
il bene.

Ma mica ti capita
la gioia,

ti dico!

Pure quella è inferta,
ma lo fa da sé,
lasciandoti credere che esista una giustizia altra,
un venire al mondo
le cose belle
senza alcun progenitore,
solo perché sia dato un equilibrio al male;
ma la gioia è inferta,
e per arrivarti dentro
quella attraversa il loculo angusto
dove chissà quale ricordo riposa;
pare una carezza e mi dà pace,
quell'atto sacrale e fugace
di lasciarmi toccare in viso,
sperando che quello sia suggello permanente
pronto a ricordarmi sempre
ch'io sono,
ma sono
solo perché siamo.

Perché soli,
soli dove andiamo?

Gli altri
sono tutto quello che abbiamo.


Id: 68655 Data: 07/07/2023 15:57:05

*

Il mio passo a due con la vita

Faccio spazio
laboriosamente,
anche i miei vuoti sono pieni, 
della fatica,
del giudizio che manca all'appello,
mentre al vaglio di tutte le cose mai fatte
è solo la colpa,
rendiconto e compagna
dell'indecisione,
ma quanto tempo perso dietro l'intenzione
il volto di mio padre pescatore,
che da bambina mi forzava alla pazienza.

Io,
nell'attesa dell'aggancio certo
godevo del naturale impeto
d'una marea libera
al mio controllo sconosciuta.
 
Mio padre vedeva la calma
laddove io cercavo tempesta,
e aspettando l'alba
in modo sacrale
appoggiavo ogni mia vertebra sul duro scheletro del mare
e tutto di lui sentivo e assorbivo,
mentre con la presa forte mi tenevo alla draglia
e il silenzio del motore spento m'agitava dentro,
scoperchiando ogni mia faglia;
là sotto era l'impeto
generoso nel concedermi il lusso
delle fitte di dolore;
in ogni mia parte,
pur nel mio cuore,
era vita pulsante.

La conservo dentro la marea,
il senso
che la terraferma soggiace
è tutt'uno nel mio passo a due,
audace con la vita.

Sono certa e convinta di non ricordare
né il quando, né il ché
del mio soppesare la scelta,
del mio divenire coraggio;
ho lasciato la presa
e la draglia al suo gelo
restituito al mare il favore del suo sentire,
lo scire,
per la beltà dell'ignorare,
tutto quanto ho già saputo,
non già nello scrutare,
ma nello stare nudo del tempo.

E adesso,
adesso io colgo beltà di questo assurdo momento: fuori è freddo,
ed è il tempo dello spazio.

Il mio minuzioso lavorìo è oggetto di baratto
col giudizio ora presente: a lui l'essente fare,
l'insistenza, il giudicare
a me l'andare,
per favore
col vento in faccia
e il ricordo del mare.
 


Id: 68533 Data: 19/06/2023 17:52:49

*

Cattività estinta

Mi metto seduto scomposto,
e nella precisione di un movimento conosciuto
mi tengo fermo entro il perimetro
giustapposto a un movimento altro,
forse libero.

Con me
non ho niente,
o nient'altro almeno
oltre questo: un pezzo di carta,
un usurpato spazio
che qualcuno dice dovrebbe esser casa mia,
ma io mi sento deportato,
costretto alla nudità,
animato da un'avida volontà,
che però non è la mia.

Ridotto al lastrico emozionale
mi costringo al pensiero,
e nel pensare mi perdo,
ma perché è tutto nero?
E la curiosità neanche mi sfiora,
dov'è fantasia?
E dove,
i riscatti?
In quale preciso punto di questa terra
la gente migra
perché si trovi vita?

 

Neanche il privilegio del sole nascente,
niente,
non ho niente.

Scomposto e allineato
nella geometria dell'angusto spazio,
stringo forte le ginocchia al petto,
in modo da poggiare nell'incavo,
tra lo sterno e l'ginocchio
altro,
il mio foglio stropicciato.

Neanche il tempo di chiedere giustizia
o affacciarmi al di là di questa usurata balaustra
che irrompe un fuori,
un altro
dal mio dentro,
e lo fa naturalmente
passando per la fenditura di una finestra incastrata
su un muro povero e piangente.


La familiarità è dilaniante,
mutano gli ambienti
le proporzioni
le prospettive,
e nell'angolo interposto tra la cucina di marmo
e il ripostiglio nascosto,
è un piccolo raggio di luce.

Non m'ero accorto
assorto nelle ingiustizie
del cui padre non conoscevo il volto,
che quel volto,
alla fine, 

era il mio.


Mi guardo riflesso
strappando un respiro
all'irrompere prepotente
di un pianto novizio;

è la stagione nascente,
e su quel foglio è sì
forse arte prestata,
non mia,
ma quel riflesso
di cui miro e rimiro
i lineamenti,
adesso
lo riconosco come mio.

Mi guardo dall'alto,
distendo le cosce,
la schiena è dritta

la cattività estinta,

e il dolore
fosse anche solo per oggi,
quest'anima mia
non l'ha mica convinta.


Id: 68532 Data: 19/06/2023 17:39:00

*

Ieri il cielo era proprio bello!

Mi sono conosciuta nel dialogo con gli altri, e nel mio rispondere ho riconosciuto in me un fortissimo idealismo, che ancora oggi sento dentro.

Capitava che mi venisse riferita un'esperienza poco felice, quale può essere ad esempio una delusione d'amore, ed io non esitavo a ripiegarla su di sé fino a volerne svelarne la vera identità, come se ce ne fosse una, ed una soltanto. Era una sorta di de-costruzione al contrario.

Una sintesi a posteriori di cui solo io rivendicavo l'originarietà.
Agli occhi degli altri pareva che io stessi cercando qualcosa la cui realtà era non dubbia, ma dubbissima, mentre per me era solo cercare di mostrarne loro la realtà, ammesso che ve ne fosse una.
Ci ho messo poco a capire che non ci sarei riuscita.
Dov'era la verità del mio spasmodico tentare e ri-tentare di condurre le loro narrazioni ai miei ideali, sperando che anche ai loro occhi si palesasse uno spazio dove ogni azione, ri-conciliata al suo più alto "dover essere", potesse trovare un altro senso, magari più felice?
Che la vita prima o poi risponda, ci credo veramente.

Ma che spesso e volentieri queste risposte sono diametralmente opposte a quelle che ci aspettiamo...io mica lo sapevo.
Dunque, dove collocare questa discrepanza?
Per anni mi sono sforzata di rendere verità e giustizia a quel mio parlare.
La naturalità di una tale dialettica mi è chiara solo adesso: come potevo far coincidere i miei altissimi con la terra, e poi perché?
Quell'urgenza era figlia di una pretesa viziosa, quella di una verità univoca, che fosse mia e solo mia, e alla quale l'altro si potesse adeguare. Dio benedica gli smarrimenti. Mi sono imbattuta nei miei limiti col tempo, col confronto, con la cessazione di un laborioso e sterile ricercare, per imparare poi, genuinamente, a cercare da capo; solo così ho potuto scoprire uno spazio vitale, creativo, quello della inestinguibile tensione tra ideale e reale che ci permette di rendere valore alle azioni incoerenti.
Qualcuno di speciale recentemente mi ha detto che, seppur le nostre azioni non siano sempre coerenti con nostri ideali, non per questo viene meno la possibilità dei secondi, dunque la realtà delle prime.
La vita è un'equazione imperfetta, e cercare di rendere perfetta la perfettibilità è un compito oltre che sterile, estremamente dannoso.
Il mio idealismo è pregno, oggi, di quella dialettica vitale che non solo anima la mia vita, ma anche quegli stessi dialoghi; non più un assunzione di principio, ma accettazione di una discrepanza, che per me ha più valore di qualsiasi principio identitario: tertium datur, e menomale.
Oggi sto imparando a dialogare con gli altri, ma non vi nego che spesso e volentieri mi capita di tenere gli occhi fissi al cielo, nella disincantata ricerca di quegli altissimi, salvo poi scoprire che sono dentro, che sono fuori, che sono tutt'intorno e che reggono, nel senso di conferire senso, la trama intricata di questa vita.
E comunque, ieri il cielo era proprio bello.


Id: 68531 Data: 19/06/2023 17:23:48

*

Me ne sto con gli ultimi

Tu non li capivi mai
i miei digiuni emotivi.

Mi guardavi sott’occhio,
mentre incredulo te ne stavi
di fronte a quel mio strano compiacermi
al suono di quel brontolio
un po’ bradicardico
ma pur sempre mio: il mio peculiare modo
di sentirmi protetto.

Ti rifiutavi,
sordo al mio continuo chiederti
di avvicinare il tuo capo al mio petto.

Aspettavi forse di sentire un'eccedenza
la stessa tua,
o anche solo che so,
la parvenza di qualcosa,
e invece in me era il vuoto da tutte le parti.

Io mutila non potevo neanche più abbracciarti
mentre tu ancora attendevi.

Ti ricordo speranza,
nel fare di tutti gli angoli di quella nostra casa dei piccoli focolai caldi,
spazi angusti ma sicuri,
pronti ad accogliere la tua paura
il tuo guardarmi da una piccolissima fessura
qual era quella del tuo cuore;
io lo ricordo
battente e vivo
incredulo pure lui
di fronte al mio: una monade,
né finestre né amore
che ne potevo capire io dell’anatomia del tuo cuore?

Per me quella era la normalità,
ma non pensarmi cattiva,
vivevo nell’attesa messianica d’un altro
e d’un altro ancora,
incastrandomi bene tra gli spazi felici
e ingenuamente liberi
di quello che c’era,
e di quel non ancora.

Tu mi pensavi assente,
io invece aspettavo
col capo rivolto alla destra del padre,
che mi si figurasse il volto
del suo trasfigurato figlio
il solo che poteva riconoscermi.

Ne sono ancora certa,
in mezzo a tanti interi
come potevano passare inosservati
quei miei grandi occhi neri?

E poi ero quella mutila,
dalle assenze rumorose,
l’interrogativo fastidioso in mezzo al campo di grano,
germogliante e certo del suo benestare.

Io,
io dell’erba cattiva ero l’antenato ancestrale;
ai tuoi occhi
l’origine del male.

Eppure,
quella per me era comunque l’ammissione d’un alterità
non so come dire
quel mio strano modo di stare al mondo,
era comunque diramazione d’un esistere,
sì mio,
incomprensibile
ma c’ero,
in mezzo a quel nulla,
io ero.

Tu non li capisci mai,
i miei digiuni emotivi,
il mio rifiutare un amore certo,
diniego anoressizzante
tutto è per te assurdità,
autolesionismo evidente.

Io ci vedevo,
in quello spazio rumoroso,
il principio del silenzio,
della calma l’albeggiare,
e no,
non l’ho mai vista arrivare,
ma sono certa,
io sono certa del suo stare.

Tu non li capirai mai,
i miei digiuni emotivi.

Ti guardo,
sazio d’una eccedenza che ti si palesa,
te ne stai sereno,
andante nel tuo lineare camminare
mentre scruti all’orizzonte,
violando il mio confine,
lo spazio dell’evidenza
d’una mia imperante resa,
certo della pochezza del mio accondiscendente andare,
tra la vita che mi chiama e il non essere che dilaga.

Il tuo sguardo giudica e deride
mentre mi deforma l’interno.

Tu mi pensi pazza,
sottrai significanza al mio storto camminare
non accorgendoti dello sforzo
del mio tenermi in equilibrio
il valore del mio persistente starti accanto,
accanto al tuo assordante cuore sazio
che per te è silenzio,
certezza,
mentre per me è lacerazione,
è qualcosa che in sé stesso non mi vuole.

Me ne sto tra i ripudiati,
e col capo chino,
sempre rivolto alla destra del padre,
riconosco l’altrui dolore: noi per il mondo pazzi
e invece affamati,
affamati d’amore.


Id: 68529 Data: 19/06/2023 17:17:24