I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Di due, la terza
Di due, la terza agitandomi nel loculo stretto di un angusto spazio che mi abita dentro incapace a godere di bellezza, imbrigliata nelle maglie d’una retorica dicendomi che non sono né l’una, delle due di una dicotomia che mi sono cucita addosso e non ci vedo niente: chi sono io, se mi togli le spalle dietro cui mi nascondo da sempre, sentendomi potente a comandare il nulla, che mi ha mutilato il cuore Vis-à-vis con nient’altro che questo ogni tentativo di salvazione. voglio accettare la sfida: dei due punti
Id: 71227 Data: 13/06/2024 15:40:50
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paura del buio
Non ricordo chi ero, prima che fossi, ancor prima che fossi chi sono, ma ora che sono e ho paura di non essere più, d’improvviso tutto di me mi manca. Morendo a me stessa ogni giorno sono chiamata alla ritualità e richiamata dal sacro a spargere le ceneri di qualcosa che di me non è più, e spasmodicamente scavo dentro, fuori è il delirio, la nevrosi non è consolante neppure la morte dell'ultimo degli sposi costretto alla croce per la salvazione delle anime. Ogni volta, rannicchiata nell'angolo del mio letto mi sottraggo al dovere; scegliere di lasciarmi andare alla naturale perdizione di qualcosa, No, io non posso lasciare che accada e allora mi lego i capelli, stretti nella morsa d’un elastico soffocante, porto i pantaloni di mia madre troppo stretti per i miei fianchi larghi come a rimarcare l’appartenenza, la provenienza mentre d’estate mi sottraggo al ristoro dalla vita ballando la danza della morte nelle maglie d’una giacca di velluto troppo larga che tiene insieme le stagioni violentando il tempo che passa. Apro gli occhi a un nuovo giorno, il bruciore è troppo li richiudo, cerco il compromesso e nel socchiuderli intravedo l'eterno: è luce tutt’intorno, ch'io contengo con la stretta i miei occhi chiedono venia ed io, nel riso arrogante d’un Dio malvagio m'arrogo l’onere, che diventa onore mentre trattengo del giorno l'essenza privandolo della sua libertà in un matrimonio combinato col buio recinto dell'immenso spazio
Id: 70910 Data: 12/05/2024 17:16:17
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Mit-sein, o sulla libertà
«Pensati libero!» ma poi che vuol dire? Avrebbe ugualmente valore se fosse mio, e solo mio, questo sentire? E sarebbe ancora poi così speciale s'io spogliassi ogni memoria di te, dell'altro, e di quello dallo sfigurato volto, ch'io neanche più ricordo per il tempo ch'è passato. Né nome né cognome, non ricordo com'è stato, ma lui c'è e tu ignori mentre ancora mi comandi indifferente al mio sentire, che insiste, incede, mentre insidioso pretende di sapere: se lo sottraessi al mio sentire, se quell'ombra si facesse vento, avrebbe, avrebbe ancora poi valore? «E cancella il tuo dolore» mi dici, «Recidi ovunque le radici!» «Togli il cognome dimentica il segno generazionale né donna, né figlia sii solo qualcuno che a nessuno più somiglia.» Ma io ho paura di te, di questo tuo imperativo che cancella, il dover dire addio a nonne e madri ch'io, non ho mai conosciuto, ma i cui umori custodisco in grembo come se questo mio ventre fosse quello dell'intero mondo; e ancora, per i padri nessun odio, ma di ingiustizie censure e sottrazioni, cosa ne potrei fare se non m'unissi al resto dei cognomi? Agli altri, alle memorie a chi, come me, non ha paura di sentire. Libera mi sento, mentre ad uno col vento trapasso alberi, volti, mandrie di stormi e di genti, e custodisco nel cuore di tutti i venti l’essenza. Ma ancora mi comandi di epurare laddove è stato dolore, perché ti pare crudele che qualcuno possa fare ad un altro tutto quanto è lontano dal semplice accadere la vita, il bene. Ma mica ti capita la gioia, ti dico! Pure quella è inferta, ma lo fa da sé, lasciandoti credere che esista una giustizia altra, un venire al mondo le cose belle senza alcun progenitore, solo perché sia dato un equilibrio al male; ma la gioia è inferta, e per arrivarti dentro quella attraversa il loculo angusto dove chissà quale ricordo riposa; pare una carezza e mi dà pace, quell'atto sacrale e fugace di lasciarmi toccare in viso, sperando che quello sia suggello permanente pronto a ricordarmi sempre ch'io sono, ma sono solo perché siamo. Perché soli, soli dove andiamo? Gli altri sono tutto quello che abbiamo.
Id: 68655 Data: 07/07/2023 15:57:05
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Il mio passo a due con la vita
Faccio spazio laboriosamente, anche i miei vuoti sono pieni, della fatica, del giudizio che manca all'appello, mentre al vaglio di tutte le cose mai fatte è solo la colpa, rendiconto e compagna dell'indecisione, ma quanto tempo perso dietro l'intenzione il volto di mio padre pescatore, che da bambina mi forzava alla pazienza. Io,
nell'attesa dell'aggancio certo godevo del naturale impeto d'una marea libera al mio controllo sconosciuta. Mio padre vedeva la calma laddove io cercavo tempesta, e aspettando l'alba in modo sacrale appoggiavo ogni mia vertebra sul duro scheletro del mare e tutto di lui sentivo e assorbivo, mentre con la presa forte mi tenevo alla draglia e il silenzio del motore spento m'agitava dentro, scoperchiando ogni mia faglia; là sotto era l'impeto generoso nel concedermi il lusso delle fitte di dolore; in ogni mia parte, pur nel mio cuore, era vita pulsante.
La conservo dentro la marea, il senso che la terraferma soggiace è tutt'uno nel mio passo a due, audace con la vita.
Sono certa e convinta di non ricordare né il quando, né il ché del mio soppesare la scelta, del mio divenire coraggio; ho lasciato la presa e la draglia al suo gelo restituito al mare il favore del suo sentire, lo scire, per la beltà dell'ignorare, tutto quanto ho già saputo, non già nello scrutare, ma nello stare nudo del tempo. E adesso,
adesso io colgo beltà di questo assurdo momento: fuori è freddo, ed è il tempo dello spazio. Il mio minuzioso lavorìo è oggetto di baratto col giudizio ora presente: a lui l'essente fare, l'insistenza, il giudicare a me l'andare, per favore col vento in faccia e il ricordo del mare.
Id: 68533 Data: 19/06/2023 17:52:49
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Cattività estinta
Mi metto seduto scomposto, e nella precisione di un movimento conosciuto mi tengo fermo entro il perimetro giustapposto a un movimento altro, forse libero.
Con me non ho niente, o nient'altro almeno oltre questo: un pezzo di carta, un usurpato spazio che qualcuno dice dovrebbe esser casa mia, ma io mi sento deportato, costretto alla nudità, animato da un'avida volontà, che però non è la mia.
Ridotto al lastrico emozionale mi costringo al pensiero, e nel pensare mi perdo, ma perché è tutto nero? E la curiosità neanche mi sfiora, dov'è fantasia? E dove, i riscatti? In quale preciso punto di questa terra la gente migra perché si trovi vita? Neanche il privilegio del sole nascente, niente, non ho niente.
Scomposto e allineato nella geometria dell'angusto spazio, stringo forte le ginocchia al petto, in modo da poggiare nell'incavo, tra lo sterno e l'ginocchio altro, il mio foglio stropicciato.
Neanche il tempo di chiedere giustizia o affacciarmi al di là di questa usurata balaustra che irrompe un fuori, un altro dal mio dentro, e lo fa naturalmente passando per la fenditura di una finestra incastrata su un muro povero e piangente. La familiarità è dilaniante, mutano gli ambienti le proporzioni le prospettive, e nell'angolo interposto tra la cucina di marmo e il ripostiglio nascosto, è un piccolo raggio di luce.
Non m'ero accorto assorto nelle ingiustizie del cui padre non conoscevo il volto, che quel volto, alla fine,
era il mio. Mi guardo riflesso strappando un respiro all'irrompere prepotente di un pianto novizio;
è la stagione nascente, e su quel foglio è sì forse arte prestata, non mia, ma quel riflesso di cui miro e rimiro i lineamenti, adesso lo riconosco come mio.
Mi guardo dall'alto, distendo le cosce, la schiena è dritta la cattività estinta, e il dolore fosse anche solo per oggi, quest'anima mia non l'ha mica convinta.
Id: 68532 Data: 19/06/2023 17:39:00
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Ieri il cielo era proprio bello!
Mi sono conosciuta nel dialogo con gli altri, e nel mio rispondere ho riconosciuto in me un fortissimo idealismo, che ancora oggi sento dentro. Capitava che mi venisse riferita un'esperienza poco felice, quale può essere ad esempio una delusione d'amore, ed io non esitavo a ripiegarla su di sé fino a volerne svelarne la vera identità, come se ce ne fosse una, ed una soltanto. Era una sorta di de-costruzione al contrario. Una sintesi a posteriori di cui solo io rivendicavo l'originarietà. Agli occhi degli altri pareva che io stessi cercando qualcosa la cui realtà era non dubbia, ma dubbissima, mentre per me era solo cercare di mostrarne loro la realtà, ammesso che ve ne fosse una. Ci ho messo poco a capire che non ci sarei riuscita. Dov'era la verità del mio spasmodico tentare e ri-tentare di condurre le loro narrazioni ai miei ideali, sperando che anche ai loro occhi si palesasse uno spazio dove ogni azione, ri-conciliata al suo più alto "dover essere", potesse trovare un altro senso, magari più felice? Che la vita prima o poi risponda, ci credo veramente. Ma che spesso e volentieri queste risposte sono diametralmente opposte a quelle che ci aspettiamo...io mica lo sapevo. Dunque, dove collocare questa discrepanza? Per anni mi sono sforzata di rendere verità e giustizia a quel mio parlare. La naturalità di una tale dialettica mi è chiara solo adesso: come potevo far coincidere i miei altissimi con la terra, e poi perché? Quell'urgenza era figlia di una pretesa viziosa, quella di una verità univoca, che fosse mia e solo mia, e alla quale l'altro si potesse adeguare. Dio benedica gli smarrimenti. Mi sono imbattuta nei miei limiti col tempo, col confronto, con la cessazione di un laborioso e sterile ricercare, per imparare poi, genuinamente, a cercare da capo; solo così ho potuto scoprire uno spazio vitale, creativo, quello della inestinguibile tensione tra ideale e reale che ci permette di rendere valore alle azioni incoerenti. Qualcuno di speciale recentemente mi ha detto che, seppur le nostre azioni non siano sempre coerenti con nostri ideali, non per questo viene meno la possibilità dei secondi, dunque la realtà delle prime. La vita è un'equazione imperfetta, e cercare di rendere perfetta la perfettibilità è un compito oltre che sterile, estremamente dannoso. Il mio idealismo è pregno, oggi, di quella dialettica vitale che non solo anima la mia vita, ma anche quegli stessi dialoghi; non più un assunzione di principio, ma accettazione di una discrepanza, che per me ha più valore di qualsiasi principio identitario: tertium datur, e menomale. Oggi sto imparando a dialogare con gli altri, ma non vi nego che spesso e volentieri mi capita di tenere gli occhi fissi al cielo, nella disincantata ricerca di quegli altissimi, salvo poi scoprire che sono dentro, che sono fuori, che sono tutt'intorno e che reggono, nel senso di conferire senso, la trama intricata di questa vita. E comunque, ieri il cielo era proprio bello.
Id: 68531 Data: 19/06/2023 17:23:48
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Me ne sto con gli ultimi
Tu non li capivi mai i miei digiuni emotivi.
Mi guardavi sott’occhio, mentre incredulo te ne stavi di fronte a quel mio strano compiacermi al suono di quel brontolio un po’ bradicardico ma pur sempre mio: il mio peculiare modo di sentirmi protetto.
Ti rifiutavi, sordo al mio continuo chiederti di avvicinare il tuo capo al mio petto.
Aspettavi forse di sentire un'eccedenza la stessa tua, o anche solo che so, la parvenza di qualcosa, e invece in me era il vuoto da tutte le parti.
Io mutila non potevo neanche più abbracciarti mentre tu ancora attendevi.
Ti ricordo speranza, nel fare di tutti gli angoli di quella nostra casa dei piccoli focolai caldi, spazi angusti ma sicuri, pronti ad accogliere la tua paura il tuo guardarmi da una piccolissima fessura qual era quella del tuo cuore; io lo ricordo battente e vivo incredulo pure lui di fronte al mio: una monade, né finestre né amore che ne potevo capire io dell’anatomia del tuo cuore?
Per me quella era la normalità, ma non pensarmi cattiva, vivevo nell’attesa messianica d’un altro e d’un altro ancora, incastrandomi bene tra gli spazi felici e ingenuamente liberi di quello che c’era, e di quel non ancora.
Tu mi pensavi assente, io invece aspettavo col capo rivolto alla destra del padre, che mi si figurasse il volto del suo trasfigurato figlio il solo che poteva riconoscermi.
Ne sono ancora certa, in mezzo a tanti interi come potevano passare inosservati quei miei grandi occhi neri?
E poi ero quella mutila, dalle assenze rumorose, l’interrogativo fastidioso in mezzo al campo di grano, germogliante e certo del suo benestare.
Io, io dell’erba cattiva ero l’antenato ancestrale; ai tuoi occhi l’origine del male.
Eppure, quella per me era comunque l’ammissione d’un alterità non so come dire quel mio strano modo di stare al mondo, era comunque diramazione d’un esistere, sì mio, incomprensibile ma c’ero, in mezzo a quel nulla, io ero.
Tu non li capisci mai, i miei digiuni emotivi, il mio rifiutare un amore certo, diniego anoressizzante tutto è per te assurdità, autolesionismo evidente.
Io ci vedevo, in quello spazio rumoroso, il principio del silenzio, della calma l’albeggiare, e no, non l’ho mai vista arrivare, ma sono certa, io sono certa del suo stare.
Tu non li capirai mai, i miei digiuni emotivi.
Ti guardo, sazio d’una eccedenza che ti si palesa, te ne stai sereno, andante nel tuo lineare camminare mentre scruti all’orizzonte, violando il mio confine, lo spazio dell’evidenza d’una mia imperante resa, certo della pochezza del mio accondiscendente andare, tra la vita che mi chiama e il non essere che dilaga.
Il tuo sguardo giudica e deride mentre mi deforma l’interno.
Tu mi pensi pazza, sottrai significanza al mio storto camminare non accorgendoti dello sforzo del mio tenermi in equilibrio il valore del mio persistente starti accanto, accanto al tuo assordante cuore sazio che per te è silenzio, certezza, mentre per me è lacerazione, è qualcosa che in sé stesso non mi vuole.
Me ne sto tra i ripudiati, e col capo chino, sempre rivolto alla destra del padre, riconosco l’altrui dolore: noi per il mondo pazzi e invece affamati, affamati d’amore.
Id: 68529 Data: 19/06/2023 17:17:24
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