"Accabadora"
La scrittura di Michela Murgia (giovane autrice che con questo romanzo ha vinto il premio Campiello nel 2010) è ricca della magia e della sapienza della sua terra, la Sardegna. Fin dal titolo siamo introdotti in un mondo rituale e misterioso. Difatti Accabadora, che a sua volta deriva dal termine spagnolo “accabar”, finire, ha il significato di colui che finisce cioè che aiuta le persone a trovare una morte dolce: una sorta di eutanasia ante litteram. Il personaggio di “Zia Bonaria”, appunto zia di Maria, alla quale la ragazza era stata affidata fin da piccola, perché la madre naturale per l’estrema indigenza non poteva allevarla, è avvolta nel mistero, è la femmina Accabadora ,che però di mestiere faceva la sarta.
La storia è ambientata negli anni Cinquanta in un paesino della Sardegna: Soreni, di cui l’autrice ci dà ampie descrizioni di paesaggi di campagna coltivati a vigneto e divisi dai caratteristici muretti bassi a secco. E’ dunque rappresentata una società arcaica con i vari usi e costumi connotati dalla coralità: la festa della vendemmia, la festa di fidanzamento, in cui tutte le donne di casa si riuniscono a preparare amaretti e il pane nuziale da offrire a messa per l’offertorio, e altri dolci tipici: i gneffus (pirichittus – pabassinos).
Personaggio secondario è quello di Anna Listru, la vera madre di Maria che, rimasta vedova con quattro figlie da mantenere, divenute tre da quando la ragazza è fillus de anima, rivela una certa miseria morale e furbizia popolare. La donna non ha mai accettato la nascita di Maria, però è consapevole dell’utilità dell’adozione della figlia, che potrà ereditare tutto il patrimonio di Bonaria Urrai, alla quale la ragazza si lega, considerandola una vera madre. L’anziana donna insegnerà a Maria a cucire, a fare le asole, ma soprattutto a capire come la vita e la morte sono inserite in un ritmo biologico regolato da leggi che fanno parte di un mondo atavico, da scoprire e condividere.
Gli altri personaggi che si relazioneranno con i protagonisti, a parte la madre di Maria e le sorelle, sono i componenti della famiglia Bastiu, laboriosi agricoltori e proprietari di piccoli appezzamenti di terreno; il più grande dei Bastiu, Nicola, si innamorerà di Maria, ma la loro storia è segnata dalla tragedia, perché Nicola subisce un infortunio dopo aver dato fuoco al podere di “Pran’e Boe” e come conseguenza aveva subito l’amputazione della gamba. Questa mutilazione lo fa sprofondare nella disperazione più cupa, fino a fargli desiderare la morte. Chiede così aiuto all’Accabadora, la quale, se in un primo momento rifiuta sdegnosamente la richiesta di Nicola, successivamente all’insistente supplica del ragazzo, che è deciso a porre fine da se stesso alla sua vita, acconsente. Ma c’è un altro motivo più intimo e personale che ci viene rivelato attraverso un flashback: Bonaria Urrai vent’anni prima, legge nello sguardo del fidanzato, Raffaele Zincu (chiamato alle armi nella Grande Guerra sul Piave), la stessa determinazione nel desiderare di morire, e non di restare mutilato, qualora fosse stato ferito, di Nicola Bastiu: “aveva la stessa luce di quegli occhi verdi che frugavano nell’anima altrui, come se non avessero paura del prezzo da pagare”. La verità sulla morte di Nicola Bastiu, Maria l’apprende dalla confessione convulsa e disperata del fratello “Andria”, che la notte del primo Novembre era rimasto sveglio per vedere le anime dei parenti morti che si aggiravano per la casa, a cui per tradizione si preparava la cena. Invece Andria si accorge di una donna “avvolta in uno scialle nero” che entrava furtivamente nella stanza del fratello e lo soffocava con il cuscino. In quella donna vestita di nero Andria Bastiu riconobbe Bonaria Urrai. Sarà dunque inevitabile il drammatico colloquio che poi Maria avrà con l’Accabadora, giudicando intollerabile aiutare le persone a morire, che è l’equivalente di ammazzarle: “io non sarei capace di uccidere solo perché voi lo volete”.
L’Accabadora rappresenta “quell’universo lontano”, regolato da leggi arcaiche che ne hanno determinato l’equilibrio: “chi aiuta a nascere aiuta anche a morire”, replica Bonaria Urrai, “e non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”. La partenza di Maria, che si separa dalla madre e accetta un lavoro di bambinaia a Torino, costituisce l’ultima parte del romanzo, che diventa una sorta di “Bildungsroman”negli ultimi due capitoli. L’infatuazione di Maria per il figlio maggiore della famiglia Gentili, che le confiderà un inquietante segreto, sarà il motivo del suo licenziamento, il quale è successivo alla notizia della malattia di Bonaria Urrai, per cui la giovane è costretta a tornare a Sorani. Maria assolverà e assisterà per qualche anno l’Accabadora con grande dedizione fino al punto di dover chiedere a Bonaria, come estremo atto di amore, se vuole essere liberata dalla sofferenza.
Lo stile semplice e asciutto fa emergere una terra primitiva e mitica: così la Sardegna della Murgia è simile alla Sicilia di “Conversazioni in Sicilia” di Vittorini e alla Lucania di Carlo Levi.
L’autrice, dunque, attraverso la letteratura, affronta alcuni temi di grande attualità: testamento biologico, eutanasia e maternità elettiva, invitandoci a riflettere senza pregiudizi tali da cadere nei luoghi comuni.
Giuseppina Bosco
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